Storia economica dell'Italia preunitaria

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La storia economica dell'Italia preunitaria percorre i cambiamenti economici e sociali del territorio italiano dall'epoca romana fino all'unità d'Italia (1860).

Firenze, Piazza del Mercato Vecchio (1555), affresco di Giovanni Stradano, Palazzo Vecchio, Sala di Gualdrada.

In epoca Romana, la penisola italiana ebbe una densità demografica ed una floridezza economica più elevate rispetto al resto dell'Europa e del bacino del mediterraneo, specie durante i secoli I e II. A partire dal III secolo d.C., l'impero Romano si avviò al declino. e così il territorio italiano e le sue città.

Durante l'alto medioevo (secoli VII-IX) l'economia era depressa, di semi-sussistenza, e gravitava attorno ai centri feudali. A partire dal X secolo, la popolazione e l'economia italiane cominciarono nuovamente a crescere, assieme ai centri urbani. Si svilupparono col tempo estese reti commerciali che legavano i centri italiani ad un bacino di relazioni dall'Asia all'Europa settentrionale. Questi centri di attività manifatturiere, finanziarie, mercantili e culturali resero l'economia italiana più prospera degli altri paesi europei.

L'arrivo della peste nera alla metà del 1300 decimò la popolazione, ma fu presto seguita da una rinascita economica. Questa crescita produsse una florida economia rinascimentale, avanzata rispetto agli paesi europei. I settori di punta del territorio italiano erano il tessile (lavorati di lana e seta, ampiamente esportati), i servizi bancari e i trasporti marittimi

Nel corso del 1600 il sistema economico si indebolì e le imprese legate ai maggiori centri urbani declinarono. Olanda, Inghilterra e Francia assunsero un ruolo economico prominente in Europa e l'Italia perse la posizione dominante nelle esportazioni tessili, nelle intermediazioni finanziarie e nei trasporti marittimi. La stagnazione avviò una frantumazione delle relazioni economiche nell'area italiana.

Prodotto interno lordo (PIL) reale del territorio italiano per abitante durante il periodo 1310-2018. Nel lungo periodo, la ricchezza media degli italiani è rimasta pressoché costante fino alla rivoluzione industriale della fine del 1800. I cicli economici che si sono succeduti nel corso di molti secoli precedenti, con fasi di crescita e di crisi, non hanno prodotto un significativo cambiamento economico (in termini di PIL per abitante).[1]

Tra il Settecento e la metà dell'Ottocento, l'Italia rimase suddivisa in piccoli stati, molti dei quali sotto dominazione straniera: questo contesto non favorì la crescita e la competitività economiche e commerciali dell'area italiana. Tuttavia, alcuni stati italiani avviarono importanti riforme economiche che avrebbero avuto implicazioni di lungo termine. Si cominciarono a manifestare chiare differenze socio-economiche tra il nord ed il sud.

Epoca romana[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Economia romana.

Ascesa (secoli III a.C-II d.C)[modifica | modifica wikitesto]

Storici ed economisti hanno cercato di ricostruire una visione dell'economia dei secoli romani e dei suoi cambiamenti secondo l'interpretazione contemporanea dell'economia; alcuni hanno anche intrapreso studi quantitativi. Gli studi non sono giunti a risultati precisi generalmente condivisi. Tuttavia, alcune nozioni generali sull'economia dell'epoca romana sono divenute abbastanza accette.[1]

La penisola italiana aveva una densità demografica ed una floridezza economica più elevate rispetto al resto dell'Europa e del bacino del mediterraneo. Questo vale in particolar modo per i secoli I e II, che rappresentarono un periodo di relativa stabilità politica e di picco delle condizioni economiche. Le stime demografiche della popolazione italiana dell'epoca romana variano. Le più accettate la attestano a 7-8 milioni. Alcuni studiosi la stimano fino a 15-16 milioni: questa stima rappresenterebbe un livello che successivamente sarebbe stato raggiunto di nuovo solo del XVIII secolo.[1]

Il potere economico imperiale accentrava verso l'Italia il flusso di risorse economiche dalle provincie. La relativa floridezza economica era anche sostenuta da istituzioni politiche ed amministrative avanzate (incluso il sistema giuridico); dalle competenze tecnologiche (specie nel settore delle costruzioni) e scientifiche; e dal generale progresso culturale, soprattutto nelle numerose città.[1]

Ricostruzione digitale della Basilica Giulia a Roma. Le basiliche civili, costruite vicino al foro delle città romane, erano sedi di tribunali e altre istituzioni pubbliche. Oggi non abbiamo una comprensione dettagliata dell'economia romana, perché le fonti sui fattori economici del tempo sono limitate. Tuttavia, è comunemente accettato che il corpo di leggi ed istituzioni pubbliche romane produssero un contesto importante e relativamente omogeneo che favorì la vita economica dell'impero.[2]

Le valutazioni quantitative dell'economia romana oggi disponibili sono considerate speculative. Tuttavia, al di là delle cifre assolute, esse suggeriscono una ricchezza significativamente maggiore nella penisola rispetto ad altre regioni dell'Europa meridionale e del bacino del Mediterraneo. Soprattutto, le stime ipotizzano che, durante i tre secoli precedenti l'età Augustea, ci sia stata una crescita del reddito pro-capite medio: per osservare un'altra evenienza del genere, occorre attendere fino all'insorgere dell'età industriale.[1]

Declino (secoli III-VI d.C.)[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Crisi del III secolo e Iugatio-capitatio.

A partire dal III secolo d.C., l'impero Romano si avviò al declino. Gli storici hanno proposto centinaia di teorie sulle sue cause (politiche, economiche, demografiche, sociali, culturali, ambientali): è probabile che molti fattori abbiano concorso a causarlo. Un fatto oggettivo fu il declino demografico che colpì la penisola, che alcuni storici legano a due pandemie (II e III secolo).[1]

Alla fine del III secolo l'amministrazione dell'Imperatore Diocleziano introdusse un'importante riforma fiscale: per la prima volta la popolazione italiana veniva tassata (prima era esente). La tassazione colpì particolarmente le zone meno popolose dell'Impero e contribui all'ulteriore calo demografico nelle regioni occidentali, tra cui in Italia. Per permettere la stabilità fiscale di fronte al declino demografico ed economico, l'Impero impedì ai contadini di muoversi, e li vincolò alla terra; anche agli appartenenti ad alcune professioni cittadine venne proibito di muoversi. Lo spostamento della capitale imperiale a Costantinopoli nel 330 d.C. allontanò il centro politico e sociale dall'Italia e contribuì al suo ulteriore declino. Le invasioni dei Goti e dei Vandali (V secolo) e la lunga guerra di riconquista di Giustiniano (VI secolo) accelerarono il forte calo demografico della penisola.[1]

Assieme ai cambiamenti demografici, politici ed economici, il territorio italiano vide anche un declino delle realtà urbane la cui ricchezza culturale aveva sostenuto la sua età più florida. L'amministrazione imperiale estraeva risorse a vantaggio di sé stessa, dei grandi proprietari terrieri e, in misura crescente, del clero, mentre reprimeva la vitalità sociale del territorio italiano, ormai periferico all'Impero. Anche la cultura cominciò cambiare, allontanandosi dai valori delle epoche precedenti.[1]

Medioevo[modifica | modifica wikitesto]

Alto medioevo (secoli VII-IX)[modifica | modifica wikitesto]

Nell'alto Medioevo le città furono largamente spopolate e le campagne si impoverirono. Anche se a differenza dell'Europa Continentale, in Italia rimasero in vita numerose piccole città che derivavano dall'urbanizzazione del periodo romano che furono alla base della ripresa dopo l'anno mille. L'economica era depressa e ruotava attorno centri delle proprietà feudali (abbazie e castelli). L'economia rurale era basata su una produzione agricola di semi-sussistenza. Il commercio era limitato e avveniva tramite fiere annuali.[3]

Basso Medioevo (secoli X-XV)[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Crisi del XIV secolo.
Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del buon governo in città. (1338-1339), Palazzo Pubblico, Siena

A partire dal X secolo, la popolazione e l'economia italiane cominciarono nuovamente a crescere. Alcune innovazioni tecnologiche migliorarono la produttività agricola: la rotazione triennale delle colture e il miglioramento dell'aratura tramite l'adozione dell'aratro pesante a ruota ed una maggiore diffusione del cavallo, piuttosto che di bovini. Si diffuse anche l'uso industriale del mulino ad acqua nelle manifatture tessili, metalliche ed altre ancora.[3]

All'inizio del basso medioevo la regione più florida dell'Italia era la Sicilia. Durante il periodo di dominazione islamica Palermo divenne la seconda città d'Europa per grandezza dopo Cordoba (la sua popolazione è stata stimata tra 120.000-350.000 abitanti).[4] Vennero introdotte tecniche innovative nell'agricoltura, in particolare nel Val di Mazara, e abolita la monocoltura del grano che risaliva al tardo impero, si passò alla varietà delle coltivazioni. Fu anche frantumato il latifondo. Nel commercio l'isola fu inserita in un'estesa rete marittima, divenendo il punto nevralgico degli scambi mediterranei. La prospera economia meridionale continuò sotto la dinastia normanna e Hohenstaufen; specialmente sotto Federico II che permise lo sviluppo di uno Stato moderno e fortemente centralizzato dalle pretese dei baroni, come scritto nella costituzione di Melfi.[senza fonte]

Secondo molti studiosi, la popolazione italiana raddoppiò tra il X e il XIV secolo (analogamente ad altri paesi europei). È stato stimato che nel 1300 il 21% della popolazione italiana (stimata attorno ai 13 milioni) vivesse in città: il tasso di urbanizzazione era simile in Spagna, ma molto inferiore in Francia, Germania e Regno Unito.[1] Al'inizio del XIV secolo, Milano, Venezia e Firenze contavano più di 100,000 abitanti; c'erano 43 città con almeno 15,000 abitanti.[5]

Dal XIII secolo soprattutto al nord e al centro, le città fiorirono come centri di attività manifatturiere, finanziarie, mercantili e culturali. Vi si sviluppò gradualmente una società più complessa di quella rurale: la parte economicamente dominante, che prese il nome di borghesia, era costituita da commercianti, imprenditori, professionisti, banchieri e artigiani. Lo sviluppo delle istituzioni comunali consentì a molte città di fiorire come centri indipendenti, gestiti dalle classi economicamente più influenti, e autonomi rispetto al sistema feudale rurale.[3]

Si svilupparono col tempo estese reti commerciali che legavano i centri italiani ad un bacino di relazioni dall'Asia all'Europa settentrionale. Le principali città commerciali italiane (Pisa, Venezia, Genova e Amalfi) si avvantaggiarono dell'espansione militare occidentale ( le ripetute crociate), a cui offrivano servizi logistici e finanziari. Frequentemente l'espansione coloniale e commerciale era intrapresa in maniera molto aggressiva tramite la pirateria.[3][6] Gli scambi commerciali alimentarono le capacità manifatturiere, anche nei settori come il tessile, tramite contatti con le Fiandre e l'Inghilterra, dove vi era la produzione tessile più sofisticata. Le città commerciali italiane importavano questi che erano i prodotti industriali di pregio dell'epoca, per riesportarli verso il bacino del Mediterraneo, da cui importavano poi spezie, seta, cotone e molti altri prodotti.[3] Lungo le rotte commerciali, in cui l'Italia era spesso centrale, viaggiavano conoscenze e innovazioni tecnologiche, che amplificarono l'impatto economico e sociale del commercio. Ci furono importanti innovazioni nei sistemi produttivi. La diffusione di contratti di affitto e mezzadria favorirono una economia agraria più orientata al mercato. Lo sviluppo dei sistemi legali consentì la crescita delle società mercantili e finanziarie.[1] Il ducato d'oro veneziano e il fiorino fiorentino divennero le principali valute per gli scambi commerciali in Europa. Le maggiori compagnie bancarie italiane (specialmente quelle fiorentine) operavano su una vasta scala internazionale.[3]

Pur tra grandi incertezze, è stato stimato che il PIL pro-capite italiano durante il basso medio-evo fosse molto maggiore di quello degli altri paesi mediterranei e nord-europei, che in quell'epoca vissero invece una lunga stagnazione economica. La crescita economica in Italia produsse un chiaro miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.[1]

L'espansione economica di molte città europee durante i secoli XI-XIII è stata associata ad un boom nella costruzione di cattedrali. La costruzione di una cattedrale cittadina rappresentava uno dei più grandi investimenti in infrastrutture dell'epoca. I cantieri duravano decenni o anche secoli. L'avvio della costruzione del duomo di Siena risale ad almeno la fine del XII secolo. All'inizio del 1300 la floridezza economica della città stimolò un ambizioso progetto di espansione. Il progetto venne abbandonato dopo la peste del 1347. La nuova facciata incompiuta rimane a testimoniare plasticamente l'impatto di quella crisi economica e sociale.[7]

Nel 1347 la peste nera arrivò in Europa, uccidendone in pochi anni un terzo della popolazione. In Italia, questa catastrofe demografica fu molto accentuata. Fu tuttavia seguita dopo pochi decenni da una rinascita economica. La mancanza di manodopera fece infatti innalzare i salari dei lavoratori in città (attraendovi più gente) e diminuire gli affitti agrari (beneficiando i contadini e indebolendo i feudatari). Il potere politico non era centralizzato, ma si stava trasformando sempre più in una molteplicità di centri e sistemi politici, tra i numerosi conflitti che divisero Chiesa e Impero, città e feudatari, e i centri tra loro. Questa decentralizzazione, che non era solo politica, ma anche culturale, diede una nuova direzione alla rinascita economica: favorì la crescita delle città piuttosto che il rinsaldamento del sistema feudale (come era accaduto durante la crisi demografica del II e III secolo d.C). Dopo la peste, crebbero ancora il commercio, la produzione manifatturiera, le università, le società corporative, la partecipazione dei ceti più poveri nell'economia, e le istituzioni giuridiche e culturali che permisero l'espansione dell'economia di mercato.[1]

Età moderna[modifica | modifica wikitesto]

Rinascimento (XVI secolo)[modifica | modifica wikitesto]

Nella seconda metà del 1500 le più ricche famiglie di commercianti, banchieri e armatori genovesi costruirono una serie di palazzi di residenza e rappresentanza lungo la Strada Nuova, fuori dal centro medioevale. Questo sviluppo urbanistico è la testimonianza fisica del picco dell'economia marittima e finanziaria genovese.[6]

Le ripetute ondate di peste che si succedettero tra il 1350 e il 1450 probabilmente dimezzarono la popolazione urbana italiana. L'indebolimento dei piccoli centri favorì l'espansione regionale delle principali città: Venezia, Milano, Firenze, Genova, Napoli che proiettarono una maggiore stabilità politica e territoriale. La ripresa economica si accentuò particolarmente in Italia centrale a partire dal 1450. Si diffusero la lavorazione della seta, e nuove industrie, come le armi da fuoco e la stampa.[8]

La crescita, che aveva dunque le sue radici nella crisi demografica dell'basso medioevo, produsse una florida economia rinascimentale, avanzata rispetto agli paesi europei. I settori di punta del territorio italiano erano il tessile (lavorati di lana e seta, ampiamente esportati), i servizi bancari e i trasporti marittimi. È stato stimato che il reddito pro capite in Italia centro-settentrionale raggiunse un livello che sarebbe poi stato raggiunto nuovamente solo alla fine del XIX secolo. La crescita premiò l'elite: c'era una forte diseguaglianza economica. Questa espansione economica fu alla base della fioritura culturale ed artistica dell'epoca.[8]

Stagnazione del 1600[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Crisi del XVII secolo.
Modello di mulino a seta bolognese. Dal secolo XV Bologna si affermò come il maggiore centro europeo di produzione di filati e veli di seta. Dal XVI secolo venne introdotto uno speciale mulino, alimentato da ruota idraulica, capace di meccanizzare il processo di incannatura e torcitura del filo di seta. La macchina è considerata come la più alta tecnologia europea prima della macchina a vapore e anticipa il sistema di fabbrica della Rivoluzione Industriale. Nel 1683 la città contava 119 mulini a seta. L'industria bolognese poi decadde nel corso del XVIII secolo.[5][9][10]

Nel corso del 1600 il sistema economico si indebolì. Olanda, Inghilterra e Francia assunsero un ruolo economico prominente in Europa e l'Italia perse la posizione dominante nelle esportazioni tessili, nelle intermediazioni finanziarie e nei trasporti marittimi. A causa del declino delle imprese cittadine, l'Italia divenne un paese importatore di manufatti anche tessili ed esportatore di prodotti agricoli primari (olio, grano, vino, lana e seta).[3]

La misura di questo declino è dibattuta e le stime degli storici rimangono incerte. Secondo alcuni si trattò di un vero declino, secondo altri ci fu una stagnazione economica che produsse un declino competitivo relativo ad altre economie europee. Le economie di Olanda e Inghilterra, e poi Francia e Germania, in quel periodo furono molto più dinamiche e si avviarono verso una più precoce rivoluzione industriale.[1]

Gli storici hanno proposto diverse cause di questa evoluzione: le epidemie di peste, che provocarono un forte calo demografico nel corso del 1600; la crescente centralità del commercio transatlantico rispetto a quello mediterraneo; l'impatto delle guerre combattute da potenze straniere in Italia e della dominazione degli spagnoli al sud (che tassarono pesantemente i territori da loro controllati). Secondo altri storici, questi fattori da soli non sono sufficienti a spiegare la stagnazione italiana del 1600 perché molti di essi toccarono anche altri paesi europei che invece dimostrarono maggiore dinamismo economico. Sul piano politico, le piccole realtà regionali italiane non avevano una dimensione sufficiente per sostenere le proprie economie con adeguati interventi di politica monetaria e commerciale o investimenti nei trasporti. Questo svantaggiò gli attori economici italiani nella competizione commerciale, delle rotte mercantili e dell'espansione coloniale.[1]

È stato inoltre ipotizzato che l'economia italiana del 1500 crebbe rapidamente ma in un modo sbilanciato e questo ebbe la conseguenza accrescere i prezzi dei prodotti agricoli poiché ne aumentò la domanda a seguito dell’aumento della popolazione senza innalzare il rendimento delle terre; ciò avvantaggiò i proprietari terrieri e svantaggiò i settori più innovativi dell'economia. Col tempo, la crescente diseguaglianza economica, inasprita anche da una forte tassazione indiretta da parte delle piccole realtà politiche, limitò la domanda locale dei prodotti più innovativi, che non erano accessibili alla grande maggioranza della popolazione. Quindi la crescita non alimentò una domanda interna capace di sostenere lo sviluppo di industrie e servizi sofisticati. I fondamenti della crescita vennero quindi meno, contribuendo al declino nel secolo successivo.[1][5]

Sono stati pure proposti fattori culturali e istituzionali che hanno contribuito a ritardare la crescita dell'economia di capitali e imprenditoriale italiana rispetto a quella di altri paesi europea nel corso del XVII secolo: una minore apertura culturale all'innovazione; e l'influenza di istituzioni conservatrici, quali le corporazioni e le piccole signorie locali, che regolavano rigidamente e difendevano lo status-quo, ostacolando l'innovazione produttiva.[1][5][11]

Questo insieme di fattori generò dunque una prolungata stagnazione economica. I capitali disponibili presso le classi urbane più ricche furono investiti più che in settori produttivi, in misura notevole in arte ed edifici religiosi e civili. Tali investimenti produssero l'esteso patrimonio artistico ed architettonico che l'epoca ha lasciato a sua testimonianza.[1]

Piemonte sabaudo[modifica | modifica wikitesto]

Nei domini sabaudi il governo centrale svolse un ruolo importante nella gestione dell'economia nazionale, seguendo l'esempio della vicina Francia. In particolare, Vittorio Amedeo II di Savoia riuscì a riorganizzare lo Stato rendendolo più efficiente e applicando una serie di misure di stampo colbertista. Tra le riforme si segnalano l'istituzione del catasto fondiario nel 1731, la creazione di intendenze provinciali e la limitazione dei privilegi ecclesiastici; le manifatture interne vennero protette e tutelate, mentre altre industrie venivano create tramite patenti e privilegi; infine, le continue campagne militari ebbero l'effetto di sostenere la spesa pubblica.[12]

L'agricoltura ebbe un notevole sviluppo, grazie a opere di canalizzazione e bonifica e alle politiche attrattive che fecero affluire coloni dalla Lombardia e dalla Liguria. L'ampliamento delle colture, specie nella bassa pianura, vide una forte espansione della risicoltura; tuttavia, il settore trainante divenne ben presto quello serico. Vennero infatti impiantate coltivazioni di gelsi e richiamati artigiani specializzati; venne imposto il divieto di esportazione della seta greggia, favorendo così la torcitura serica, che divenne l'industria principale del paese.[12]

Queste politiche diedero buoni frutti, dato che dopo il 1660 ci fu una forte crescita economica: le entrate dai dazi commerciali raddoppiarono nel trentennio successivo, mentre la produzione complessiva giunse a due volte e mezzo nella prima metà del Settecento rispetto al periodo precedente.[13]

Stato di Milano[modifica | modifica wikitesto]

La crisi del Seicento fu avvertita in maniera drammatica nella Lombardia spagnola: la peste del 1630 e l'interruzione dell'afflusso di argento americano comportarono una paralisi della produzione e dei commerci durata almeno fino al 1660. L'apparato manifatturiero crollò mentre le politiche del governo, inizialmente incerte, furono inefficaci e i tentativi mercantilisti sostanzialmente fallirono.[14]

Il patriziato urbano, composto da grandi proprietari terrieri, contribuì a rivitalizzare il settore agrario ma al contempo fece deprimere la produzione manifatturiera; l'economia della regione siubì una profonda trasformazione, ormai indirizzata verso l'esportazione di prodotti agricoli e semilavorati, come filati greggi e ritorti.[15]

Stato Pontificio[modifica | modifica wikitesto]

L'economia dello Stato Pontificio in questo periodo era generalmente statica e depressa. L'assenza di una classe mercantile e il disinteresse dei ceti dirigenti verso gli investimenti produttivi furono tra i principali fattori del sostanziale immobilismo economico. Nonostante la completa assenza di una tradizione commerciale e industriale, a Roma nacque nel 1605 il Banco di Santo Spirito come istituto di raccolta del risparmio e di sottoscrizione del debito pubblico, favorito dal forte afflusso di denaro dovuto principalmente alle decime ecclesiastiche e ai cospicui patrimoni religiosi.[16]

Nonostante il forte movimento di capitali la produzione manifatturiera rimase fragile e i consumi, specie di lusso, si orientarono verso l'estero; ne conseguì il predominio dei mercanti esteri – orientati alla speculazione – e a un forte deficit della bilancia commerciale. Lo Stato Pontificio reagì solamente tramite provvedimenti contro l'importazione di beni e manufatti esteri, senza un'organica politica economica.[16]

Regno di Napoli[modifica | modifica wikitesto]

Napoli, piazza del mercato, XVII secolo. Dipinto di Micco Spadaro.

Il Regno di Napoli scontava la subordinazione politica all'Impero spagnolo, il quale richiedeva continui contributi per le proprie spese, in particolare quelle militari. Ne conseguiva la crescita della pressione fiscale e del debito pubblico, oltre all'assenza di investimenti da parte delle autorità nei confronti delle attività economiche.[17]

Le politiche fiscali non seguivano logiche coerenti di politica economica, ma erano atte a coprire le ingenti spese della corona spagnola, evitando però le proprietà baronali ed ecclesiastiche che godevano di privilegi e immunità. Diversi limiti al commercio e alle esportazioni agricole, oltre a pesanti dazi e imposte sui consumi indebolirono le attività produttive e il mercato dei capitali: di conseguenza era preferibile investire negli arrendamenti, ovvero gli appalti delle imposte.[17]

L'incapacità di poter governare autonomamente la propria economia fu la causa principale della depressione di uno Stato che doveva fronteggiare i mutamenti internazionali. La rivolta di Masaniello fu in effetti dovuta alla forte pressione fiscale, mentre la peste del 1656 acuì le condizioni drammatiche in cui versava l'economia del Mezzogiorno.[17]

Dal Settecento all'Unità[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Industria preunitaria lombarda.
Diffusione dell'industria della seta nel 1650.[18]

Tra il Settecento e la metà dell'Ottocento, l'Italia rimase suddivisa in piccoli stati, molti dei quali sotto dominazione straniera (austriaca e francese): questo contesto non favorì la crescita e la competitività economiche e commerciali dell'area italiana. Tuttavia, alcuni stati italiani avviarono importanti riforme economiche e cominciarono a manifestarsi chiare differenze socio-economiche tra il nord ed il sud.[1]

L'economia italiana rimase principalmente basata sull'agricoltura. I regimi agrari, cioè i sistemi di possesso e condizione dei terreni, cambiarono in maniera e misura diversa fra le regioni italiane, con profonde conseguenze economiche e sociali. Nel meridione l'antico sistema feudale rimase dominante fino a tutto il '700 e oltre: le terre erano concentrate nelle mani di un ristretto numero di latifondisti, i cosiddetti baroni. Nell'Italia centrale prevaleva la mezzadria: sebbene la proprietà terriera era concentrata nelle mani di pochi, questo contratto agrario incentivò nel tempo lo spirito d'impresa e forme di cooperazione. Nel nord la feudalità diminuì fortemente nel corso del '700 e si avviarono trasformazioni precoci verso l'investimento di capitali, la modernizzazione delle tecniche di produzione, e l'integrazione con le industrie di trasformazione.[19]

Italia settentrionale[modifica | modifica wikitesto]

La Lombardia, dominata dall'Austria, vide lo sviluppo dell'economia più diversificata tra gli stati italiani: agricoltura intensiva (con forti investimenti nell'irrigazione); produzione della seta grezza assieme all'industria di filatura; industrie metalmeccaniche (piccole ma importanti imprese tra cui Regazzoni, l'Elvetica, la Grondona, le industrie d'armi del bresciano, le ferriere del lecchese e di Dongo); numerose istituzioni bancarie (tra cui la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde fondata nel 1823); una buona rete di trasporti ferroviari e stradali; e significativi investimenti nell'istruzione pubblica. Dal 1718 fu introdotto il catasto teresiano: questa riforma, che si protrasse per oltre quarant'anni, modernizzò profondamente il regime agrario.[5]

Filanda a Boffolara Ticinese: la Filanda Mylius, dipinto di Giovanni Migliara (1828).

Riforme amministrative di rilievo sociale ed economico vennero intraprese anche in Toscana e Piemonte.[1] In Piemonte la ricchezza non era limitata solo ai nobili, ma diffusa tra banchieri, commercianti e imprenditori tessili. In Sardegna invece l'amministrazione dei Savoia mantenne a lungo il latifondo di stampo feudale: fu bandito formalmente solo tra il 1835 e il 1839, contribuendo al perdurare dell'arretratezza economica e sociale.[5]

In Veneto, dominato dall'Austria, non si seppe sviluppare un'agricoltura intensiva come in Lombardia, e superare la stagnazione indotta dal declino di Venezia.[5]

La Toscana, anch'essa dominata dagli Austriaci, rimase fondamentalmente un'economia agricola; c'erano piccole realtà industriali, ma le politiche commerciali fortemente liberali del Granducato non ne favorirono lo sviluppo. Livorno approfittò della liberalizzazione commerciale e divenne un vibrante porto-franco. Le antiche compagnie bancarie toscane invece non si svilupparono al passo dei tempi.[5]

A Genova la ricchezza accumulata in secoli di commercio rimase accentrata in un ristretto gruppo di banchieri che erano attivi in tutta Europa. Nel 1845 fu fondata la Banca di Genova, che poi costituirà la Banca Nazionale degli Stati Sardi, denominata dopo l'unificazione Banca Nazionale nel Regno d'Italia (in seguito Banca d'Italia). C'erano anche alcune rilevanti realtà industriali (tra cui Ansaldo, il Cantiere della Foce e I'Arsenale).[5]

Dalla fine della prima metà del 1800 fino all'unificazione, le riforme economiche accelerarono, nel mezzo del fermento politico risorgimentale. Nel 1848, lo Statuto Albertino trasformò il Regno di Sardegna in monarchia costituzionale. Sotto Cavour, dal 1850 al 1861, si avviarono riforme che modernizzarono economia, istruzione, infrastrutture, e promossero l'industrializzazione e la separazione stato-Chiesa. Nonostante resistenze e l'influenza regale, il processo di modernizzazione si fece più deciso, sostenuto dall'imprenditoria, che divenne gradualmente più influente nella direzione delle riforme politiche ed economiche.[19]

Stato Pontificio[modifica | modifica wikitesto]

L'amministrazione pontificia era criticata anche al tempo per il suo clientelismo e malgoverno, che ostacolarono la modernizzazione economica e gli investimenti. Pio IX salì al pontificato nel 1846, segnando l'inizio di un periodo che, nonostante un breve slancio liberale, vide presto un ritorno alla conservazione dopo il 1848. Tuttavia, nel corso del suo regno che durò fino al 1870, ci furono moderati ma significativi investimenti nelle infrastrutture di trasporto e nelle bonifiche.[19]

Regno di Napoli e di Sicilia[modifica | modifica wikitesto]

La Partenza di Carlo III di Borbone per la Spagna, vista dal mare di Antonio Joli.
Durante la metà del settecento l'azione riformatrice di Carlo Di Borbone, primo re della dinastia borbonica a Napoli, e di personaggi della corte, quali i segretari di Stato Manuel de Benavides y Aragòn, Josè Joaquìn de Montealegre e Bernardo Tanucci; e gli economisti Antonio Serra, Antonio Genovesi e Ferdinando Galliani e dei giuristi Pietro Giannone, Gaetano Filangieri, Giuseppe Maria Galanti, Giuseppe Palmieri, Domenico Grimaldi , e Merchiorre Delfico e successivamente con il presidente del consiglio dei ministri Luigi De Medici sotto il regno di Ferdinando I, fecero di Napoli la città italiana che meglio rappresenterà il secolo dei lumi[20]. Il modo con cui questi sovrani governarono, era in uso in diverse Corti, esso si chiama dispotismo illuminato, in questa forma di governo assolutista, il sovrano attuava delle riforme ispirate dalla cultura illuminista e dagli intellettuali, con la volontà di far trionfare i principi della ragione e portando a importanti riforme in campo socio-economico. Questo riformismo venne interrotto durante il periodo della rivoluzione, sostituito con un governo repressivo.
La Corte in questi anni si scontrò contro l'onnipotenza dei baroni; in questa direzione avviene il recupero degli “arredamenti”, termine con il quale si intende un insieme di diritti pubblici come le dogane, le gabelle, i monopoli di produzione e di scambio, i diritti contributivi sulle merci immagazzinate, questa politica permette a diminuire il potere baronale e a restituire la capacità direttiva in campo economico[21].
Lo scontro più netto e prolungato si ha con la Chiesa, che durante il periodo vicereale possedeva tre immunità: la prima, l'immunita locale, che permetteva a chiunque entrava in un luogo sacro e chiedeva asilo di sottrarsi alla giustizia civile, la seconda, l'immunita personale, che impediva gli ecclesiastici di non essere sottoposti ai tribunali del regno e la più gravosa dal punto di vista economico, l'immunita reale, che concedeva agli immensi terreni della chiesa l'esenzione dalle imposte.[21] Così dal 1737 cominciarono le trattative tra il Regno di Napoli e lo Stato Pontificio che alla fine portarono alla firma del Concordato del 1741; il quale limitava la giurisdizione del clero, sottoponeva a tassazione una parte delle proprietà della chiesa e diminuiva a limitati casi la richiesta di diritto d'asilo.[21]Il 3 novembre del 1767 viene sottoposto alla firma di Ferdinando I un decreto,[20][22]con il quale avviene la cacciata dei gesuiti da Napoli e la messa all'asta dei beni ecclesiastici: vengono in questo modo assegnati con contratti di enfiteusi sono oltre 45 mila ettari di terreno e a beneficiarne é il ceto medio agrario, una parte di queste terre viene data in piccole frazioni a contadini poveri: 3 mila famiglie siciliane.[21][22] Sotto il regno di Carlo si cercò di ammodernare il sistema tributario. Il suo primo atto é la legge del 4 ottobre 1740, mediante il quale si dispose la compilazione del Catasto onciario[23], detto onciario perché era l’unità monetaria teorica di riferimento, in base alla quale venivano stimati i patrimoni[23]. Ne scaturì una rivelazione della popolazione del Regno, in cui erano riportate età, professione e proprietà. Le copie sono conservate all’Archivio di Stato di Napoli. Questa riforma aveva però due limiti, il primo limite stava nel fatto che sono rimesse alle dichiarazione dei possidente e il secondo limite era il fatto che era controllata dai Comuni, enti in cui comandavano i baroni e i possidenti. La riforma per queste ragioni fallì negli anni successivi e il fisco torna a ricorrere alle gabelle. Grazie a queste riforme fu possibile un ammodernamento il sistema socioeconomico della società meridionale e in campo economico avvenne l'apertura degli opifici di San Leucio , Real Fabbrica di Capodimonte, Reali ferriere ed Officine di Mongiana, la Real arazzeria napoletana e L'ammodernamento dei cantieri navali di Napoli e Castellammare.[20]
Durante la dominazione spagnola la Sicilia si trova in condizioni molto simili al resto del Mezzogiorno: grandi potenzialità economiche (“nella prima metà del XVIII secolo l'isola, in annata buona, poteva produrre il doppio dei cereali che consumava”[24]) e presentava gli stessi problemi del resto del meridione, il baronaggio e il potere clericale. Il potere politico é nelle mani del viceré di nomina reggia, le cui scelte sono espressione del governo di Madrid prima e di Napoli poi. La capitale é Palermo con 200.000 abitanti che é la città più popolosa d'Italia, dopo Napoli che ha 370.000 abitanti alla fine del settecento.[25] Il riformismo del regno di Carlo e dei primi anni di Ferdinando I é permesso dai Viceré Fogliani Sforza d'Aragona, Marcantonio Colonna e specialmente Domenico Caracciolo. Nelle questioni religiose avviene l'abolizione del Sant'Uffizio, riduzione del numero dei coventi e contenimento di quello dei religiosi e esproprio e messa l'asta di una parte dei beni ecclesiastici. Contro i baroni avviene la revoca degli usi civici e dell'affitto delle terre demaniali, per cercare di favorire la nascita di un ceto medio, decretano la libertà di commercio e avviene l'istituzione del credito agrario.[21]
Per quanto riguarda la società del Regno di Napoli (escluso il Regno di Sicilia) alla fine del settecento, essa era formata da 4.828.914 abitanti così distribuite come struttura sociale: i feudatari e nobili (che comprendevano all’epoca anche la totalità o quasi del corpo ufficiali), erano 31.000; la borghesia intellettuale delle professioni liberali (principalmente uomini di legge, quindi avvocati, giudici e notai, e medici) erano 40.400; il clero maschile e femminile comprendeva 90.659 persone, di cui 64.000 preti, frati, monaci e 26659 monache. Il resto 4.666.855 delle persone (escluse le professioni liberali) era costituito da contadini, commercianti, operai, artigiani, pastori, addetti alle attività marittime [26]. In percentuale, meno dell’1 % della popolazione apparteneva all’aristocrazia, quasi l’1% alla borghesia intellettuale, circa il 2 % al clero e il 97% della popolazione era costituita dal Terzo Stato. La concentrazione di possedimenti in pochissime mani era più accentuata ancora di quanto queste cifre indichino, poiché all’interno della nobiltà e del clero vi erano sproporzioni sociali rilevanti. Fino almeno agli inizi del secolo XIX esistette la prassi nei casati aristocratici di trasmettere il patrimonio solo al primogenito, in maniera da conservarlo intatto[26]. Gli usi della primogenitura, dei maggioraschi, seniorati, fedecommessi, facevano sì che i figli maschi “cadetti” o femmine fossero esclusi dall’eredità. I 31 mila aristocratici calcolati dal Bianchini nel 1792 non erano pertanto tutti grandi proprietari terrieri. L’ufficialità militare era formata in quella data interamente da nobili, ma per lo più cadetti[26]. Queste cifre erano tipiche di uno stato dell’Ancien Régime, infatti anche in Francia e in Spagna la società era suddivisa in modo simile. La società francese era costituita rispettivamente dall’1% la nobiltà e il clero e l’ultimo rappresentava il 98% circa della popolazione[27] e la società spagnola era suddivisa in un 2% di nobili e il clero raggiungeva il 4% e la restante parte della popolazione era costituita dal Terzo Stato[28].
Le riforme riuscirono a riformare in parte il Meridione dopo i cupi anni della dominazione spagnola e austriaca e a creare un momento di discontinuità con il passato,[20] ma non riuscirono ad abolire il feudalesimo, grave problema del Mezzogiorno, e non ammodernarono in modo completo il sistema economico e sociale del meridione.[20]
Infatti il possesso della terra e quindi dell'economia, rimase fortemente concentrato per lungo tempo. E' stato stimato che nel tardo Settecento, nel Mezzogiorno continentale, esistevano circa 600 famiglie baronali, a cui si aggiungevano una cinquantina di baroni ecclesiastici: i baroni rappresentavano circa l'1‰ della popolazione totale e detenevano il controllo su oltre il 70% della popolazione rurale in condizione di vassallaggio. Quindici famiglie governavano quasi un quarto della popolazione feudale del Regno, ovvero circa 700.000 persone.[19] Un altro esempio della vastità dei feudi é rappresentato dall’Irpinia, in questa provincia il possedimento feudale del casato dei Caracciolo di Avellino, riuniva nel 1798 una serie di baronie che coprivano complessivamente una superficie di 220 chilometri quadrati, ossia 22.000 ettari[29], negli stessi anni il feudo a Sant’Angelo dei Lombardi era definito come un vero é proprio Stato con  245,62 kmq, costituendo il 29% della superficie territoriale di quell’area, esso aveva una popolazione di 20.607 abitanti, pari al 34.52% della popolazione dell’Alta Irpina e al 5,58% dell’intera provincia[30]. Non solo i nobili erano proprietari di feudi ma anche il sovrano e la famiglia reale, la casata dei Borboni di Napoli possedeva  sia i beni della  corona, sia i beni detti allodiali del monarca, sua proprietà personale e diretta, questi ultimi comprendevano i  seguenti feudi: Altamura, Borbona, Campli, Cantalice, Castellammare, Cittaducale, Leonessa, Montereale, Ortona a Mare, Penne, Pianella, Posta, Rocca Guglielma, San Giovanni in Carico, San Valentino[31].
Nell’ultimo decennio del settecento i sovrani italiani cominciarono a comportarsi in modo sempre più autoritario, per la paura che scoppiasse una rivoluzione come in Francia e questo avvenne successivamente anche durante la restaurazione, esempi di queste repressione sono la controrivoluzione dell’ esercito della Santa Fede contro la Repubblica Partenopea e la repressione delle costituzioni date nel 1820 e dei moti del 1830 anche se in massima parte le riforme in campo socioeconomico fatte durante il periodo Napoleonico vennero lasciate come ad esempio le leggi eversive della feudalità promosse a Napoli nel 1806.[21]


Durante il congresso di Vienna il regni di Napoli e Sicilia furono uniti nel Regno delle due Sicilie, in cui successivamente con il governo di Ferdinando II si sviluppò un modesto processo d'industrializzazione che riguardava principalmente le grandi città Napoli, Palermo e Catania.

Inaugurazione della ferrovia Napoli-Portici

Il processo d'industrializzazione si può constatare nella realizzazione della prima tratta della ferroviaria italiana la Napoli-Portici nel 1839, a cui si aggiungeranno un'altra linea sull'asse Napoli-Castellammare e le due tratte sono servite da corse regolari aperte ai diversi strati della popolazione, con apposite carrozze di prima, seconda e terza classe.[20]Nel 1845 iniziano gli studi per l'ambizioso progetto della Napoli-Brindisi; nel 1856 viene completata la linea Napoli-Nola-Sarno.[32]Lo sviluppo delle ferrovie non é l'unico segno di modernità viene costruito il ponte real Ferdinando, in ferro sul Garigliano, il secondo sul continente europeo[33], seguito da quello sul fiume Calore. Tra il 1830 e il 1856 vengono aperte oltre 3 mila miglia di strade consolari cosi da quadruplicare la rete stradale persistente.[33]

La “Ferdinando I” è la prima nave a vapore che ha solcato il Mediterraneo[34]

Per quanto riguarda la cantieristica navale a Napoli viene varata la prima nave a vapore la “Ferdinando I” [34][20] e migliorati i cantieri navali di Napoli e Castellammare che superano quelli di Genova per tonnellaggio. Nei cantieri navali si moltiplicano in pochi anni i bastimenti che passano da 8 mila tonnellate nel 1824 alle 100 mila tonnellate raggiunte nel 1835 e poi alle 250 mila tonnellate nel 1860.[35] Di pari passo vanno ad aumentare le attenzioni riservate ai porti con la creazione di nuovi bacini: a Castellammare, Gallipoli, Molfetta, Gaeta, Ortona, Barletta, Ischia e Bari; [33]sono dotati di un moderno faro a fanale a eclissi con apparato lenticolare i porti di Nisida, Napoli e Castellammare. Gli investimenti nelle vie di comunicazione favoriscono lo sviluppo dell'industria, nel 1835 si contano 117 fabbriche di lana, [36]le cartiere lefebvre e Polsinelli, arrivano a inpiegare oltre mille dipendenti.[33]In ritardo risulta lo sviluppo dell'attività metalmeccanica, con lo sviluppo dell'attività da parte d'industria private come la Marcy e Henry, l'opificio Zino e Henry, la Guppy e Pattinson, Reali ferriere ed Officine di Mongiana e soprattutto, delle Officine di Pietrasa, a capitale pubblico, che costituivano il maggiore complesso industriale italiano[20].

Pianta del Reale Opificio meccanico e pirotecnico di Pietrarsa, pubblicata nel volume Sullo stabilimento metallurgico e meccanico di Pietrarsa, Torino 1861. Relazione del Signor Cavaliere Sebastiano Grandis ispettore delle strade ferrate dello Stato.

L'attività mineraria é molto fiorente, le miniere di zolfo sono gestite da investimenti Francesi e Inglesi, coprono l'80% del fabbisogno mondiale[21].

Molto poco venne fatto sul piano creditizio le banche rimasero poche, di queste la più importante era il Banco delle Due Sicilie, istituto creditizio statale che venne creato da Gioacchino Murat dalla fusione di otto banchi pubblici, venne affiancata a questa le banche fruttuaria(1831-1857), del tavoliere (1834-1839) e dell’ofanto, queste ebbero difficoltà nel concorrere con il banco statale e alla fine fallirono[37].

Per incentivare lo sviluppo delle classi meno ambienti si cercarono di creare le casse di risparmio. Questi erano degli istituti di credito che cercavano di invogliare le classi più umili al risparmio. Furono istituite due una a Napoli e un'altra a Palermo, l’iniziativa però non riuscì ad avere il successo sperato sia per la mancanza di fondi che per l’avversione della popolazione[37].

Ebbero invece successo i monti frumentari che furono ampliati e fondati nuovi, così il Regno arrivò a contarne 700 nel solo continente, il loro scopo era somministrare le semenze ai contadini il cui prezzo veniva restituito a bassissimo interesse, in questo modo si favoriva da un lato lo sviluppo dell’agricoltura e dall’altro si aumentava la coesione sociale e si diminuivano possibili rivolte. Per evitare lo sviluppo dell’usura furono istituiti i monti pecuniari nel 1833, essi avevano lo scopo di prestare piccole somme di denaro a bassi interessi (non più di dieci ducati all’interesse del 6%)[38].

In questi anni l’economia meridionale sviluppò un economia fortemente gerarchizzata, al cui vertice erano presenti borghesi di origine straniera, che spesso per il basso numero di istituti di credito diventavano anche banchieri, infatti nacque la figura del mercante-banchiere[39], essi erano i Rothschild di Napoli, massimi creditori dello Stato, i banchieri svizzeri Meuricoffre e Appelt, diversi commercianti inglesi,  Ingham-Whitaker, Woodhouse, Close, Rogers e altri. In posizione di partner minoritari c’erano gli investitori napoletani e siciliani, questi erano i Volpicelli, i Ricciardi, i Buono, i Falanga, i De Martino, i Montuori, i Sorvillo e i Florio[39]. Questi ultimi ebbero importanti successi economici e riuscirono a divenire partner maggiori. In questi anni si sviluppò specialmente nelle campagne una borghesia meridionale che derivava dal ceto militare e impiegatizio che aveva avuto importanti concessioni nel periodo murattiano[39], essa si fuse negli anni successivi con la nobiltà, andando a formare un'unica classe sociale chiamata “galantuomini”[40], questi però non portarono grandi cambiamenti nel sistema agricolo, che rimaneva legato all’’infruttuoso latifondo[40][39]. Uno spaccato della società meridionale, può essere dato utilizzando i dati riferiti alla sola città di Napoli, che aveva 400.813 abitanti nel 1840, socialmente così ripartiti: 16.878 possidenti (5 %), 7142 professionisti in professioni liberali (2 %), 11167 pubblici impiegati (4 %), 18148 militari (6%), 11902 pensionati (4 %), 6610 ecclesiastici (2 %), 2830 lavorano presso gli enti di beneficienza (0,7%), 80457 commercianti, artigiani, operai ecc. (25%), 168.052 salariati (41%)[41][42]. I salariati corrispondono al ceto dei lazzari. Per il carattere assolutista e accentratrice della monarchia borbonica la popolazione al qua dal faro, cioè nell’ex Regno di Napoli, si concentrava nella capitale, Napoli e nei suoi casali, che avevano nel 1848, 495.942 abitanti, che corrispondeva al 7,6% della popolazione del Regno al qua dal faro. La maggioranza dei lavoratori che si occupa della burocrazia e del commercio si trovava nella capitale. La ripartizione dei lavoratori nel mezzogiorno non insulare nel 1848 era la seguente dei 30.677 impiegati 11.740 erano occupati a Napoli (38,26%), dei 3.702 avvocati, nella capitale stavano 3.036 (82%), dei 39.996 commercianti 13.407 (33,53%), gli addetti alle attività marittime erano 37.275 di questi 8.338 (22,36%) avevano attività a Napoli e dei 312.219 operai, artigiani e garzoni di questi a Napoli e casali erano presenti 102.947 abitanti (32,98%)[42].

Il Numero totale di indigenti nel 1820 nel solo mezzogiorno non insulare era un numero di mendicanti pari a 189.686, che arrivava al 3,3% [43], secondo altre fonti quarant’anni più tardi il numero dei mendicanti nell’intero Regno era di centoventimila persone ovvero l’1,4% della popolazione[40], la percentuale era minore della Lombardia 1,6%, della Romagna 2,11%, dell’Umbria 2,14% e Toscana 1,83%[40].

Se da una parte é innegabile che il Regno delle due Sicilie sia stato attraversato da riforme che favorirono un parziale processo industrializzazione nei primi anni del regno di Ferdinando II, é importante ricordare anche i limiti di queste politiche.[20]Il primo limite riguarda il fatto che la stagione delle riforme che va dal 1830 aI 15 maggio del 1848 data in cui inizia la repressione delle riforme costituzionali dovute ai moti del gennaio del 1848 che avevano portato all'approvazione della costituzione regno, i fatti del 15 maggio avevano allontanato le intellighenzie napoletano e i liberali italiani che cominciarono a disprezzare i Borbone[20] e il dinamismo dei primi anni fu frenato da una politica economica più parsimoniosa rispetto alla draconiana economia di Cavour che fu però sicuramente più fruttuosa sul lungo periodo.[40] Il secondo limite riguarda il fatto che il Regno delle Due Sicilie continuava ad avere un'economia incentrata sull'agricoltura anche se con un modesto settore secondario e terziario, il settore primario occupava il 62% della forza lavoro, il secondario e il terziario entrambi occupavano il 19% della popolazione.[44] Il terzo limite riguardano anche il mancato sviluppo di una forte borghesia industriale, infatti la stragrande maggioranza delle industrie sono realizzate da capitali stranieri e pubblici, la borghesia meridionale tendeva a dedicarsi maggiormente all'agricoltura, al commercio e ai lavori intellettuali. Questo non è dovuto solo al poco dinamismo dell'intellighenzia meridionale ma anche dei pochi di istituti di credito privati.[20][1] Il quarto limite riguarda l'entroterra del meridione dove lo Stato non riuscì a favorire lo sviluppo di un settore primario moderno, che rimaneva l'ossatura dell'economia meridionale, tranne per rari casi come le cantine Florio o le tonnara di Favignana, buona parte del meridione era coltivato a latifondo con tecniche agricole arretrate e infruttuose.[40] Queste tecniche economiche produssero una forte concentrazione di beni economici: è stato stimato che alla fine del XVIII secolo 650 latifondisti laici e ecclesiastici controllassero il 60% del prodotto nazionale del meridione continentale,[5] e le riforme di vendita delle terre incolte ed ecclesiastiche andarono spesso ad arricchire ulteriormente le famiglie borghesi, proveniente dal ceto militare e amministrativo, che avevano accresciuto il loro potere durante e dopo il periodo napoleonico.[40] L’egemonia del latifondo nel meridione è confermata dall’esempio del Catanese, che aveva nella prima metà del secolo XIX una ripartizione fondiaria in cui il 51% della superficie apparteneva a fondi dalle dimensioni di circa 200 ettari in media ed il 31% a proprietà che superava gli 800[45]. Eppure la zona di Catania era, in Sicilia, una di quelle con la minore concentrazione di proprietà, ossia di latifondismo. Le ditte catastali con oltre 1000 ettari giungevano da sole al 45 % del suolo accatastato nel nisseno ed al 25% nell’ennese[45]. Soffermandosi sul  comune di Bronte, il paese in cui avvenne la sollevazione popolare per la richiesta delle terre repressa dai Garibaldini. Nel comune i possedimenti del duca, ovvero l’ex feudatario, coprivano da soli circa la metà dei 30.000 ettari dell’intero territorio comunale. La maggioranza delle terre della restante metà era in mano a 19 proprietari. Il duca e gli altri latifondisti, 20 persone, possedevano l’81% dei fondi. La media proprietà comprendeva l’8% della superficie  ed era ripartita in 87 ditte catastali. Infine la piccola proprietà aveva l’11% della superficie ed aveva un altissimo grado di frammentazione in appezzamenti minuscoli, essendo distribuita in 3759 parcelle catastali, le cui dimensioni medie erano inferiori all’ettaro e che non consentivano la formazione di aziende agricole autonome. I piccoli o piccolissimi proprietari potevano quindi coltivare la terra soltanto come integrazione di un’altra professione, che era abitualmente la manovalanza su terre d’altrui proprietà. La struttura piramidale delle proprietà fondiarie di Bronte e l’assetto sociale trasparono da queste cifre: il duca possedeva circa il 50 % delle terre; 19 latifondisti oltre il 30 %; 87 medi proprietari l’8%; infine 3759 ditte catastali si spartivano l’11% rimanente[46].

La condizione dell'Italia al momento dell'unificazione[modifica | modifica wikitesto]

Secondo la maggioranza degli storici economici erano presenti delle differenze economico-sociali tra il Nord-Ovest e il resto del paese al momento dell’Unita d’Italia ma divennero nette dall'inizio del Novecento e si approfondisce in seguito[1][47][44]. Al momento dell'unificazione delle piccole differenze erano presenti nel settore primario presenti specialmente nelle rese dei grano, ad esempio, erano, fra il 1815 e il 1880, di 5-9 quintali per ettaro nel Nord, di 4-8 nel Centro e di 3-7 nel Sud[47].Questi dati diventano assai minori se, oltre ai cereali, teniamo conto anche degli altri prodotti della terra. Olivi, viti, piante d'agrumi, gelsi, erano, infatti, assai diffusi nel Mezzogiorno. Dal prodotto di queste piante dipendeva la ricchezza di regioni come la Puglia, la Campania e la Sicilia[48].

Come ha scritto Piero Bevilacqua «al momento dell'Unità d'Italia le distanze tra il Nord e il Sud, sul piano della struttura industriale non erano così rilevanti come lo sarebbero diventate in seguito»[49] . Anzi, in talune industrie, come quelle metalmeccanica, conciaria, cartaria e dello zolfo, il Sud non era affatto in una posizione svantaggio[49]. Le ricerche di Stefano Fenoaltea soprattutto hanno rivelato che il vantaggio del Nord si profila e si consolida solo dalla fine dell'Ottocento e non prima[47]. Nel 1871 c'è un modesto vantaggio del Nord: il prodotto pro capite industriale è di 63 lire nel Nord e di 57 nel Sud.[47]In posizione di vantaggio si trovano la Lombardia, il Piemonte e la Liguria,[47] in compagnia, però, della Campania e della Sicilia.[47] Quasi tutto il Centro e il Sud si collocano, comunque, al di sotto della media nazionale, anche se lo scostamento dal valore medio è modesto davvero[44][47]. Però da ricerche successive di Fenoaltea, valuta uguali solo quantitativamente il settore secondario, ma valuta più produttive le industrie del Nord-Ovest rispetto al resto del paese.

Indice normalizzato di industrializzazione delle province italiane nel 1871 (1 è la media nazionale). Fonte: Banca d'Italia.

     oltre 1,4

     da 1,1 a 1,4

     da 0,9 a 1,1

     fino a 0,9

All'epoca dell'Unità, i servizi, quanto a valore complessivo prodotto, erano più importanti dell'industria, e rappresentavano poco meno del 30 per cento del prodotto aggregato. Stando ad essi, in tutta Italia la popolazione attiva nel terziario sarebbe il 16-17 per cento del totale. Il Nord avrebbe un vantaggio nel 1861 rispetto al Sud (18 a 15 per cento); il Sud avrebbe un vantaggio nel 1871; nel 1881 vi sarebbe parità. I dati del valore aggiunto dei servizi, elaborati da Emanuele Felice per il 1891, suggeriscono un divario ragguardevole fra il Centro-Nord e il Sud, di circa il 40 per cento, però questo é dovuto al Lazio, data la presenza della capitale, in cui i servizi avevano un peso rilevante, contribuisce molto a questo divario. Il divario, infatti, si riduce al 25 per cento se si esclude il Lazio. Nel 1891, quando cioè sono disponibili dati più attendibili sulle differenze fra regioni in termini di prodotto pro capite, nello stesso anno il Sud era in vantaggio sul Nord per il prodotto agricolo di un 15-20 per cento. La differenza nel prodotto dei servizi in termini pro capite era a vantaggio del Nord di un 30-40 per cento. Nel prodotto industriale, sempre pro capite, nel 1881 esisteva un vantaggio del Nord di un 10 per cento; che nel 1901 si era ampliato al 30 per cento[47][1][44].

Per quanto riguarda i dati sul pil pro capite sono molto più incerti. Il motivo è che il prodotto interno lordo (Pil), l’indicatore macroeconomico che ci fornisce un’approssimazione del reddito annuo, al tempo dell’Unità non esisteva e non veniva quindi misurato. Il Pil fu inventato successivamente negli Stati Uniti durante la Grande depressione, negli anni trenta del Novecento.

Gli storici economici Paolo Malanina e Vittorio Daniele sono comunque riusciti a calcolare un vantaggio del Nord sul Sud nel prodotto pro capite nel 1891 che era fra il 5 e il 10 percento, e sarebbe pressoché assente nel 1861.

Le stime vengono contestate dall’economista Emanuele Felice, secondo Felice nelle stime di Daniele e Malanima emergono due punti critici: il primo riguarda il calcolo del PIL totale regionale che è stimato sulla popolazione di allora ma con i confini regionali attuali, quindi si alza di molto il valore ad esempio della Campania (che nel 1891 salirebbe da 97 a 110, fatta 100 l’Italia) e fa crollare quello del Lazio (nello stesso anno da 137 a 105). Questo é dovuto dal fatto che la Campania ha perso importanti territori, che il Lazio ha guadagnato, che sono le province di Latina e Frosinone. Di conseguenza il Pil per abitante della Campania in età liberale è balzato in alto perché il Pil totale che includeva una popolazione più ampia, comprese Latina e Frosinone, è stato diviso per un numero di abitanti minore, senza Latina e Frosinone, mentre quello del Lazio è crollato, il Pil totale si riferiva a una popolazione più piccola ed è stato diviso per un numero di abitanti più alto.

La seconda distorsione a favore del Mezzogiorno è dovuta all’utilizzo dell’industria basata sulla stima preliminare di Fenoaltea, che sottovalutava di molto, il divario Nord-Sud, in quanto non teneva conto delle differenze di produttività.

Fatte queste premesse Felice stima il divario del PIL totale nel 1870 del 19%, infatti se l’Italia valeva 100, il Mezzogiorno presentava un Pil per abitante di 90, il Centro-Nord di 106. Felice é riuscito anche a calcolare il reddito medio in base ai prezzi del 2011 (un artificio che ci serve per dare al lettore un ordine di grandezza), esso era allora di appena 2.049 euro all’anno. Un meridionale guadagnava in media 1.844 euro all’anno, circa 154 euro al mese (5 euro al giorno); un cittadino del Centro-Nord 2.172 euro, ovvero 181 euro al mese (6 euro al giorno).

Felice concorda però sulle importanti differenze all’interno del Mezzogiorno. Al Sud spiccava il primato della Campania, l’antica regione capitale, che ospitava la città più popolosa dell’Italia, oltre che i ricchi possidenti meridionali: fatta 100 l’Italia, il suo Pil pro capite era 107, sopra la media nazionale. Seguivano con 94 la Sicilia, regione con un forte tessuto urbano, un’importante attività terziaria e un’agricoltura diversificata; poi la Puglia con 89, grazie all’agricoltura. Poi seguivano l’Abruzzo e il Molise con 80, la Sardegna con 78, infine la Calabria 69 e la Basilicata 67. Nel Centro-Nord troviamo il Lazio con 146, regione allora più piccola, che occupava quasi solo la provincia di Roma. Il Pil del Lazio risulta molto elevato poiché negli stati preindustriali le capitali eccellevano anche più di ora, perché lì si concentravano i servizi, che avevano un differenziale di reddito rispetto all’industria e all’agricoltura più alto di quanto non sia oggi. Di conseguenza più la superficie della regione é piccola più il Pil sarà alto. Dopo il Lazio abbiamo la Liguria 139, la prima regione del futuro Triangolo industriale e che pure convogliava una quota importante dei servizi, oltre a una nascente industria, seguita dalla Lombardia 111. Vi erano quindi le altre regioni, tutte intorno alla media nazionale, ad eccezione delle Marche 82, ultime nel Centro-Nord e quasi allo stesso livello di Abruzzo e Molise.

Felice quindi concorda con Malanina e Daniele sulla mancanza di una netta dicotomia Nord-Sud, afferma però comunque a differenza dei due studiosi che era comunque presente un gap maggiore di quello calcolato in precedenza e che mancava una differenza Ovest-Est, anche se afferma che i redditi più alti si concentravano nelle regioni più urbanizzate e di più antica tradizione manifatturiera che si trovavano solitamente sul versante tirrenico.

Felice ha calcolato il Pil anche per altre regioni italiane nel 1871, tenendo conto che Italia é uguale a 100: Piemonte 103, Veneto 101, Abruzzo e Molise 80, Liguria 139, Emilia-Romagna 95, Campania 107, Lombardia 111, Toscana 105, Puglia 89, Marche 82, Basilicata 67, Umbria 99, Calabria 69, Lazio 146, Sicilia 94, Sardegna 78. Di conseguenza Nord-Ovest 111, Nord-Est e Centro 103, Centro-Nord 106, Sud e Isole 90.

Oltre ad aver calcolato a ritroso il Pil per abitante nelle macro regioni e nelle singole regioni nel 1871, Felice  cerca di fare lo stesso con i dati per le macro regioni del 1861. Tenendo conto che negli anni sessanta dell’Ottocento la crescita dell’Italia risultò pressoché nulla, infatti il tasso di aumento del Pil pro capite fu inferiore allo 0,4% annuo, e valutando l’effetto negativo delle politiche liberiste che danneggiarono l’industria del mezzogiorno, essendo meno produttiva, ma che allo stesso modo favorirono le esportazioni dell’agricoltura, soprattutto dalle colture ad alto valore aggiunto (viticoltura, olivicoltura, prodotti ortofrutticoli) in Puglia e in Sicilia, ma anche in Calabria e nella zona del Vulture (Basilicata), e l’industria agroalimentare ad essa legata, pure in Abruzzo e in Campania, anche se valutò anche i danni provocati dalla guerra civile che prende il nome di brigantaggio. Di conseguenza ipotizza che i dati regionali del 1860 dovevano essere inferiori rispetto a  quelli del 1870 in Puglia, Sicilia e Abruzzo, che avevano tratto maggiore giovamento dalle politiche liberiste e avevano sofferto di meno per il brigantaggio e superiori o stazionari in Campania, Calabria e Basilicata, questo perché la prima regione fu la più colpita dalle politiche liberiste, per la più alta concentrazione di industrie e le altre due furono le regioni in cui imperversò maggiormente la repressione del brigantaggio.

Fatte queste premesse Felice ipotizza che nel 1861 il totale del Mezzogiorno fosse intorno all’85% della media nazionale, cioè quattro o cinque punti sotto il dato di un decennio dopo (essendo cresciuto di più, il suo punto di partenza era più basso). Anche se stima un margine di incertezza del 5% e conclude che all’Unità d’Italia il Pil del Mezzogiorno era circa l’80-90% della media italiana; ovvero (restringendo la forchetta per arrotondare) fra il 75 e l’80% di quello del Centro-Nord.

Quindi in conclusione secondo le stime di Malanina e Daniele nel 1891 il divario Nord-Sud nel prodotto pro capite era dell'ordine del 5-10 per cento e nel 1861 lo calcolano di poco inferiore o nullo rispetto al Nord. Secondo le stime di Felice nel 1861 le differenze del Pil tra il Nord e il Sud erano maggiori ed erano valutate tra il 20-25 per cento.

Alla proclamazione del regno d'Italia, nel 1861, erano in esercizio nella penisola 2.521 km di strade ferrate (alla stessa data in Germania 11.000 km, in Inghilterra 14.600, in Francia 4.000). Alla vigilia dell'Unità, nel 1859, la rete ferroviaria piemontese per 819 km, quella del Lombardo-Veneto per 522 km, quella dello Stato Pontificio per 257 km, quella dell' Granducato di Toscana 101 km, e quella del Regno delle due Sicilie per 99 km.

Tutti però concordano che altre differenze erano ben più significative cioè quelle sociali che riguardavano l'alfabetizzazione e il maggior sviluppo di infrastrutture per cui riassume Vera Zamagni nel 2010 da quanto emerge dalle ricerche disponibili sull'economia italiana all'indomani dell'Unità e sui divari regionali, scrivendo: «nell'età preindustriale non possiamo attenderci di trovare una grande differenza nel prodotto nazionale pro capite fra le diverse regioni agrarie. E', tuttavia, di grande importanza prendere in esame altri indicatori che possano spiegare perché un'area, che mostra un reddito pro capite simile a quello di un'altra area, è capace a un certo punto di decollare grazie allo slancio del settore industriale, mentre l'altra resta stagnante»[49].

In conclusione il settore trainante dell'Italia preunitaria era l'agricoltura, che usava tecniche arretrate, lo sviluppo del settore secondario e del terziario erano modesti ed erano finanziati maggiormente da capitale pubblico e straniero, tranne in certe zone della Lombardia dove era maggiore il capitale privato.

Successivamente visto che il Risorgimento fu alimentato prevalentemente da fattori ideali e culturali, piuttosto che economici, senza tener conto dei vari particolarismi regionali, e della debolezza del neonato Regno d'Italia e attraverso lo sviluppo Piemontesizzazione cioè di un modello economico-amministrativo molto centralizzato, che aumentò in modo molto significativo le differenze regionali e senza una politica di redistribuzione delle terre, problema immenso per il meridione, che mantenne i latifondi fino alla legge stralcio n. 841 del 21 ottobre 1950[50]; le differenze economiche si acuirono inizialmente tra il nord-ovest e il resto del paese e in parte si colmarono solo durante il boom economico , ma rimangono ancora oggi forti differenze, specialmente tra il nord e il sud del paese[51][44][1].

Pil per abitante delle regioni italiane, 1871-2011[1]
Regioni 1871 1891 1911 1931 1951 1971 1991 2011
Nord-Ovest 114 114 116 129 152 129 124 121
Piemonte 107 107 116 123 147 124 114 109
Lombardia 114 114 118 123 153 136 132 129
Val D’Aosta 80 106 129 143 158 144 142 136
Liguria 138 139 157 157 162 104 106 106
Nord-Est 100 93,7 98 94 105 100 115,3 119
Trentino Alto Adige 69 78 78 92 106 107 130 129
Veneto 106 81 88 73 98 98 112 115
Friuli Venezia Giulia 125 122 128 117 111 95 104 113
Centro 103,6 108 102,6 105,2 100 102,6 106,4 107,6
Emilia-Romagna 96 106 109 109 112 114 122 122
Toscana 106 103 98 106 105 108 105 109
Lazio 134 137 133 140 107 110 114 113
Umbria 99 106 92 100 90 93 96 92
Marche 83 88 82 71 86 88 95 102
Sud e isole 90 90 85 77 61 71 70 68
Campania 109 99 96 81 69 70 66 64
Abruzzo 80 68 70 62 58 79 90 85
Molise 80 67 68 64 58 66 78 78
Basilicata 67 75 74 70 47 73 67 71
Calabria 69 68 71 55 47 66 62 65
Sicilia 95 95 87 82 58 69 72 66
Sardegna 77 97 93 85 63 85 77 77
Indice (Italia): 100

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x Felice, 2015.
  2. ^ Peter Temin, The Economy of the Early Roman Empire, in The Journal of Economic Perspectives, vol. 20, n. 1, 2006, pp. 133–151.
  3. ^ a b c d e f g Cipolla, 1997.
  4. ^ J. Bradford De Long e Andrei Shleifer, Princes and Merchants: European City Growth before the Industrial Revolution, in The Journal of Law and Economics, vol. 36, n. 2, 1993-10, pp. 671–702, DOI:10.1086/467294. URL consultato il 30 marzo 2024.
  5. ^ a b c d e f g h i j Zamagni, 2005.
  6. ^ a b Pettinotti, Paola, Storia di Genova : dalle origini ai nostri giorni, Biblioteca dell'Immagine, 2017, ISBN 978-88-6391-266-1, OCLC 1020572259.
  7. ^ Eltjo Buringh, Bruce M.S. Campbell e Auke Rijpma, Church building and the economy during Europe's ‘Age of the Cathedrals', 700–1500 CE, in Explorations in Economic History, vol. 76, 2020, pp. 101316, DOI:10.1016/j.eeh.2019.101316.
  8. ^ a b Malanima, Paolo, Italy in the Renaissance: a leading economy in the European context, 1350-1550, in The Economic History Review, vol. 71, n. 1, 2018, pp. 3–30, DOI:10.1111/ehr.12650.
  9. ^ Il mulino da seta bolognese (o rotondo), su trama-e-ordito.blogspot.com.
  10. ^ Museo del patrimonio industriale di Bologna, Il segreto del mulino da seta alla bolognese (PDF), su informa.comune.bologna.it.
  11. ^ Toniolo e Bastasin, 2020.
  12. ^ a b Conca Messina, pp.125-126.
  13. ^ Conca Messina, p.127.
  14. ^ Conca Messina, pp.129-130.
  15. ^ Conca Messina, p.130.
  16. ^ a b Conca Messina, pp.128-129.
  17. ^ a b c Conca Messina, pp.131-132.
  18. ^ Atlante tematico d'Italia, Touring Club Italiano, 1990.
  19. ^ a b c d Felice, 2016
  20. ^ a b c d e f g h i j k Un regno che é stato grande, Gianni Oliva.
  21. ^ a b c d e f g Un Regno che é stato grande, Gianni Oliva.
  22. ^ a b Ferdinando Renda, Bernardo Tanucci e i beni dei gesuiti, Catania, Università di Catania-facoltà di lettere e di filosofia, 1970, p. 78..
  23. ^ a b Carlo di Borbone, Guido Belmonte - Edoardo Vitale.
  24. ^ Storia della Sicilia medievale e moderna, cit., vol II, p. 402 Denis Mack Smith.
  25. ^ treccani.it, https://www.treccani.it/enciclopedia/napoli_%28Enciclopedia-Italiana%29/#.
  26. ^ a b c [A. L. Sannino, Famiglia, matrimonio, diuorzio in Basilicata, in Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l'età giacobina e il decennio francese (Atti del Convegno di Maratea, 8-10 giugno 1990), a cura di A. Cestaro-A. Lerra, II, Venosa 1992, p. 372].
  27. ^ Erica Mannucci Joy, La Rivoluzione francese, Carocci, 2002..
  28. ^ Anes, Gonzalo, El antiguo régimen: los Borbones, 2ª. Ed., Madrid, Alianza Editorial/Alfaguara, 1976..
  29. ^ [Giuseppe Cirillo, Verso la trama sottile. Feudo e protoindustria nel Regno di Napoli (secc. XVI-XIX), Roma 2012, p. 58].
  30. ^ [Francesco Barra, Lo “Stato” Feudale degli Imperiale di Sant’Angelo, in Cirillo, Verso la trama sottile, cit., p. 55].
  31. ^ [G. Galanti, Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, vol., I, Napoli 1787, p. 239].
  32. ^ Il R Bomba, Giuseppe Campolieti, p. 208..
  33. ^ a b c d Gli Ultimi Borboni di Napoli, Harold Acton.
  34. ^ a b La Ferdinando I, su storienapoli.it.
  35. ^ Harold Acton, La testimonianza è di William Temple ed é riporta nel libro “Gli ultimi Borboni di Napoli”.
  36. ^ Lanificio regno delle due sicilie, su ilmattino.it.
  37. ^ a b Domenico De Marco, Contributo alla storia del Banco di Napoli. Dalle origini all'unità d'Italia..
  38. ^ Paola Avallone, Prestare ai poveri. Il credito su pegno e i monti di pietà in area mediterranea (secoli XV-XIX).
  39. ^ a b c d John A. Davis, Società e imprenditori nel Regno borbonico 1815-1860..
  40. ^ a b c d e f g Il sangue del sud, Giordano Bruno Guerri.
  41. ^ IG. DE SANCTIS, Stato della popolazione del regno delle Due Sicilie messo in confronto tra gli anni 1828 e 1843, Napoli 1845..
  42. ^ a b Industria società e classe operaia nelle provincie napoletane nella prima metà dell’Ottocento, Tommaso Pedio.
  43. ^ Luca de Samuele Cagnazzi “Saggio sulla popolazione del regno di Puglia: nei passati tempi e nel presente“.
  44. ^ a b c d e Origine divario nord sud (PDF), su vittoriodaniele.info.
  45. ^ a b A. Di Blasi, La proprietà fondiaria nella Sicilia centro-orientale. Considerazioni geografiche, Catania 1968, pp. 12-13, p. VIII].
  46. ^ Giuseppe Lo Giudice, Comunità rurali della Sicilia moderna. Bronte (1747-1853), Catania 1969.
  47. ^ a b c d e f g h L' economia italiana dall'unità alla grande guerra, Stefano Fenoaltea..
  48. ^ Divario nord sud banca d'italia, su bancaditalia.it..
  49. ^ a b c Zamagni, Comments on the Paper by Emanuele Felice, p. 81..
  50. ^ Breve storia dell'Italia meridionale, Pietro Bevilacqua..
  51. ^ Breve storia dell'Italia meridionale, Pietro Bevilacqua..

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

Fonti enciclopediche[modifica | modifica wikitesto]

Documentari e lezioni video[modifica | modifica wikitesto]

Dati storici[modifica | modifica wikitesto]