Colonna Walter Alasia

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca

La Colonna Walter Alasia fu un'organizzazione terroristica attiva particolarmente nel milanese, tra il 1977 e il 1983. Nacque dall'unione del Fronte Armato Rivoluzionario Operaio alle Brigate Rosse di Milano.

Prese il nome dal brigatista Walter Alasia, ucciso in uno scontro a fuoco dopo aver ucciso due membri delle forze dell'ordine che cercavano di arrestarlo.

Comprendeva circa un centinaio di elementi ed ebbe un ruolo a tratti distinto da quello dell'organizzazione centrale brigatista, poiché anteponeva alla lotta contro lo Stato la lotta dell'operaismo comunista contro la borghesia. A fine dicembre 1980, la colonna fu espulsa dalle Brigate Rosse e proseguì autonomamente la sua attività con una serie di attentati.

In particolare, rispetto alle BR centrali, i sequestri operati dalla Walter Alasia ebbero un carattere meno politico e più legato alla realtà operaia e sindacale nel contesto milanese fortemente industrializzato di fine anni settanta. La colonna lombarda raccolse taciti ma significativi consensi proprio all'interno di grandi aziende come la Pirelli e l'Alfa Romeo di Arese, facenti parte della grande area industriale milanese dell'epoca[1].

Storia[modifica | modifica wikitesto]

La colonna prese il nome dall'operaio Walter Alasia, brigatista ucciso a Sesto San Giovanni nel 1976, durante un conflitto a fuoco con i carabinieri impegnati nella sua cattura.

Il dissidio della colonna con la direzione centrale brigatista venne alla luce nel dicembre 1979 quando le BR distribuirono il loro opuscolo n. 9 "sulle grandi fabbriche" in cui tratteggiavano la loro posizione sulla questione operaia, la colonna milanese non condividendone le conclusioni, non lo diffuse e distribuì a sua volta un suo documento chiamato "Fabbriche" contenente le proprie posizioni in cui teorizzavano una unione fra il dirigismo della lotta armata con le istanze dei movimenti di massa. Secondo la colonna "La pratica rivoluzionaria del Partito Comunista Combattente dovrà rivolgersi essenzialmente agli aspetti economici e alla pratica sociale delle masse" mirando quindi a fungere da tramite tra le avanguardie rivoluzionarie e le attese masse combattenti, usando come terreno di lotta la fabbrica con i suoi capi e dirigenti[2].

Lo scontro interno continuò per tutto il 1980, neppure sanata da una riunione avvenuta in luglio in provincia di Roma delle direzione strategica, acuendosi quando la colonna decise di gestire in piena autonomia le azioni contro Renato Briano, direttore del personale della Magneti Marelli e Manfredo Mazzanti direttore tecnico della Falk, uccisi rispettivamente il 12 e 28 novembre 1980[2].

Tutta l'attività della colonna milanese Walter Alasia fu ritenuta non aderente alla linea politico-operativa del comitato esecutivo e della direzione strategica. La sua espulsione fu ufficialmente annunciata dal direttivo delle BR con il comunicato n. 10, composto da 19 fogli, fatto ritrovare a Genova il 23 dicembre, con una telefonata ad un quotidiano, con l'accusa di "frazionismo gruppettaro", sarebbe stata decisa, spiega il comunicato, da una riunione con la partecipato dei rappresentanti di tutte le colonne brigatiste, sempre nel medesimo comunicato le BR affermarono di non ritenersi responsabili degli omicidi avvenuti contro Briano e Mazzanti[3].

Poco prima, L’11 dicembre due suoi militanti Walter Pezzoli e Roberto Serafini, vengono intercettati a Milano e uccisi da un nucleo speciale dei carabinieri[4].

Il 17 febbraio 1981 la Brigata ospedalieri “Fabrizio Pelli” uccise il direttore sanitario del Policlinico di Milano, Luigi Marangoni, e viene distribuito un opuscolo, col titolo “Attacchiamo la DC principale responsabile della ristrutturazione nell'ospedale”, presentando la posizione della colonna sul problema dell'intervento nel settore dei servizi[4].

La sua attività nelle fabbriche proseguì e il 3 giugno 1981 fu sequestrato Renzo Sandrucci, direttore della produzione dell'Alfa Romeo, rilasciato dopo quasi due mesi, il 23 luglio davanti lo stabilimento della Magneti Marelli a Milano[2]. Durante le settimane del sequestro furono diffusi volantini,i verbali dell'interrogatorio di Sandrucci, e alcuni opuscoli teoretici: Attaccare il disegno controrivoluzionario del capitalismo multinazionale nel suo cuore: la fabbrica (giugno 1981), Contributo alla elaborazione della linea politica (luglio 1981), dopo la liberazione del dirigente: Campagna nelle fabbriche (agosto 1981) e Bilancio Campagna Sandrucci (autunno 1981)[4].

Il 1982 è l'anno del declino: il 23 luglio 1982 a Milano Stefano Ferrari viene ucciso dalla polizia in un bar e il 12 novembre 1982, a Cinisello Balsamo, Maurizio Biscaro, cercando di sfuggire alla cattura cade e muore da un cornicione, l'anno v.de una sequenza di arresti. Nel gennaio 1983 viene emesso un nuovo documento “Ancora un passo”, nonostante ciò nel mese di febbraio[5], la colonna si sciolse, dopo che i suoi principali esponenti erano stati arrestati o erano deceduti in seguito all'accresciuta attività di contrasto ad opera delle forze dello stato. In totale 123 persone sono state inquisite in relazione ad eventi legati all'attività della colonna[2].

Nelle analisi del periodo degli anni di piombo, fatte da ex appartenenti ai gruppi di lotta l'esperienza della colonna milanese è vista come l' "ultima voce del sindacalismo armato" con una visione rivoluzionaria ottocentesca, che non comprendeva la trasformazione della realtà produttiva della fabbrica[6],

Attività terroristica attribuita[modifica | modifica wikitesto]

Esiti giudiziari[modifica | modifica wikitesto]

La prima sezione penale della Cassazione con sentenza del 4 novembre 1986 respinse il ricorso di quasi tutti gli imputati del processo d'appello alla colonna delle Brigate Rosse Walter Alasia e confermarono la condanna all'ergastolo per Roberto Adamoli, Lauro Azzolini, Barbara Balzerani, Maria Rosaria Belloli, Pasqua Aurora Betti, Maria Carla Brioschi, Nicolò De Maria, Calogero Diana, Nicola Giancola, Mario Moretti, Sergio Tornaghi e Samuele Zellino. Le condanne divennero così definitive; l'unica eccezione riguardò Ettorina Zaccheo per la quale la Cassazione stabilì un nuovo processo di secondo grado di fronte a una diversa sezione della corte d'appello di Milano[10].

Membri della colonna Walter Alasia[modifica | modifica wikitesto]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Moroni, p. 78, p. 94.
  2. ^ a b c d Moroni, p. 60.
  3. ^ pag. 5 in Ormai ai ferri corti le due fazioni nelle Brigate Rosse, in L'Unità, 24 dicembre 1980.
  4. ^ a b c Ugo Maria Tassinari, 23 luglio 1981: le Br-Walter Alasia liberano Renzo Sandrucci, dirigente Alfa Romeo, su https://www.ugomariatassinari.it/. URL consultato il 20 dicembre 2023.
  5. ^ Walter Alasia - Colonna Walter Alasia (BR), su http://www.archivio900.it/. URL consultato il 20 dicembre 2023.
  6. ^ Moroni, p. 72 e seguenti.
  7. ^ Renato Briano - Associazione Vittime del Terrorismo, su vittimeterrorismo.it. URL consultato l'11 giugno 2008 (archiviato dall'url originale il 1º agosto 2016).
  8. ^ Manfredo Mazzanti - Associazione Vittime del Terrorismo, su vittimeterrorismo.it. URL consultato l'11 giugno 2008 (archiviato dall'url originale il 22 ottobre 2007).
  9. ^ Schede/1981/MARANGONI, su vittimeterrorismo.it. URL consultato l'11 giugno 2008 (archiviato dall'url originale il 22 ottobre 2007)..
  10. ^ Almanaccodeimisteri.info. URL consultato il 23 agosto 2008 (archiviato dall'url originale il 6 gennaio 2009).
  11. ^ a b c d e La Storia Archiviato il 30 aprile 2008 in Internet Archive.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Ad un passo dalla morte: un gambizzato racconta, edizione Circolo culturale C. Perini, Milano, giugno 1982.
  • Andrea Saccoman, Le Brigate Rosse a Milano. Dalle origini della lotta armata alla fine della colonna «Walter Alasia», Unicopli Edizioni, 2013.
  • Guerriglieri nella metropoli, Le Brigate Rosse a Milano. La colonna Walter Alasia. Testimonianze e documenti, Pgreco Editore, 2021.
  • Primo Moroni, Konzepbüro e Rote Fabrik, Le parole e la lotta armata, Zürik, ShaKe Edizioni, 2009, ISBN 978-88-88865-74-4.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Controllo di autoritàVIAF (EN154291249 · GND (DE2130690-4 · WorldCat Identities (ENviaf-246244559