Utente:Orlando-Furioso/Sandbox

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All'interno di tutto il poema l'elemento del labirinto assume un valore di grande rilievo. Il suo significato è legato al continuo vagare alla perenne ricerca (quête) di qualcosa, una ricerca il cui risultato è però vano. Tale ricerca procede con grandi difficoltà, costretta a continui cambi di direzione: è impossibile procedere in modo diritto e raggiungere direttamente il proprio obiettivo, bensì ci si perde inevitabilmente nei meandri del percorso e l'immagine del labirinto sta a significare proprio ciò. Questo procedere così tortuoso conduce poi alla pazzia, la quale risulta a sua volta essere una sorta di labirinto mentale. Più in generale il labirinto potrebbe anche essere considerato come una metafora della vita, simboleggiando una ricerca difficoltosa con numerose complicazioni e deviazioni per raggiungere (se mai si raggiunge) il proprio oggetto del desiderio. Anche lo stile espositivo, infine, ha un che di labirintico, difatti Ariosto, ricorrendo alla tecnica dell'entralacement, passa continuamente da un filone all'altro della narrazione, intrecciando i vari fili in una trama complessa ricca di improvvisi cambi di direzione. Nei vari canti dell'Orlando furioso sono individuabili più di un labirinto, con alcune caratteristiche di volta in volta differenti.

La selva del canto I

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Nel canto I le azioni hanno luogo soprattutto in una selva che assume tutte le caratteristiche di un vero e proprio labirinto. Qui si muovono numerosissimi cavalieri quasi tutti all'inseguimento della sfuggente Angelica. Il procedere dei personaggi è però accidentato e per niente lineare: costretti in selve oscure e calli oblique (ottava 22, v. 5) non possono che errare di qua e di là (ottava 33, v. 6) aggirandosi fra incognite e imprevisti nella loro ricerca affannosa. La selva si identifica con un luogo reale in cui anche l'oggetto del desiderio è reale.

Il palazzo di Atlante

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Nel canto XII viene presentato il palazzo costruito da [Atlante (personaggio)|Atlante]] e anche qui sono riscontrabili elementi propri di un labirinto. I numerosi personaggi presenti si muovono infatti affannosamente nei vari luoghi del palazzo, ancora una volta impegnati in un'estenuante quête, senza riuscire però a raccapezzarsi: il loro procedere è complicato e disorientante e non riescono a muoversi con agilità e cognizione di un preciso percorso da seguire, ma procedono di qua , ... di là (ottava 9, v. 3), di su di giù (ottava 10, v. 5), or quinci or quindi (ottava 11, v. 1), in alto e basso (ottava 11, v. 5) in una disperata e confusa ricerca. In questo caso però il luogo è meno legato alla concretezza, ma immerso in un'atmosfera di magica illusione e di immaginazione in cui anche gli oggetti del desiderio delle varie quêtes non sono che inganni dovuti all'incantesimo di Atlante, fantasmi apparenti che intensificano il senso di vanità della ricerca.

All'interno della letteratura di tutti i tempi sono individuabili altri labirinti o strutture labirintiche che è possibile accostare ai labirinti ariosteschi. In primo luogo vi è senza dubbio l'importante precedente di Dante che nel primo canto della Divina Commedia descrive una selva il cui stampo è facilmente riconoscibile nella selva dell'Orlando furioso: allo stesso modo questa selva, luogo oscuro e intricato, simboleggia una difficoltà di percorso, un procedere accidentato e tortuoso, con valore anche, e soprattutto, simbolico. Anche nelle letterature moderne sono presenti richiami al labirinto e a tal proposito non si può non citare Borges, nella cui poetica questo elemento ha una posizione centrale con la funzione, similmente ad Ariosto, di simboleggiare la complessità e tortuosità del mondo. Si può riconoscere, infine, un impianto labirintico anche in alcuni lavori di Italo Calvino, come ad esempio nel suo romanzo Il castello dei destini incrociati, in cui l'intreccio stilistico nell'esposizione e nelle vicende narrate ricorda molto quello ariostesco. Altro romanzo di Calvino che è possibile ricordare è Il sentiero dei nidi di ragno in cui l'elemento labirintico è attribuibile appunto a questo sentiero di nidi di ragno, metafora del complicatissimo intreccio di relazioni umane che coinvolgono Pin, il bambino protagonista.

Orlando Furioso
Illustrazione di Gustave Doré, Orlando impazzisce

Elemento cardine di tutto il poema è indubbiamente la pazzia, che con un grande valore emblematico, viene proposta da Ariosto per lanciare un messaggio. Difatti, analizzando a fondo la follia presentata dal poeta si può evincere che in fondo essa non viene biasimata, ma viene anzi posta come utile contraltare all'eccessivo razionalismo dell'epoca. Attraverso l'ironia Ariosto mostra che la pazzia non è del tutto da reprimere, tutt'al più da contenere, ed egli parla proprio durante un'epoca in cui la tendenza era opposta: la società del tempo sembrava esaltare razionalità ferrea, ordine, armonia, controllo, senza lasciare il minimo spazio alla follia, ma Ariosto mostra abilmente come in realtà siano tutti pazzi, privi del senno perso, come viene esplicitato nel passo della Luna. Un' "esplosione di pazzia" potrebbe quindi essere causata dal fatto che nessuno all'interno della società si permetta di abbandonare la saviezza, ma ad un certo punto questa forza diventa troppa da trattenere dentro e alla fine deve "uscire" in qualche modo. Secondo questa visione, perciò, la follia non sarebbe altro che un'inevitabile conseguenza di ciò che la società del tempo "imponeva" quale comportamento da tenere: un'irreprensibile razionalità che non ammette alcuno spazio al di fuori di essa. Ariosto rappresenta dunque la follia come rifiuto della realtà circostante, facendosi portavoce della crisi e dello smarrimento dell'uomo del tempo, di fronte ad una realtà razionalmente incontrollabile e inconoscibile.


Ripercorrendo la storia della letteratura sono citabili molti altri esempi di follia, tra cui, riferendosi ora all'antichità, spicca l'esempio dell'Achille omerico in cui, come in Orlando, ira e furia sono indissolubilmente legate: difatti l'ira di Achiclle, motore dello sviluppo del poema come nel caso di quello di Ariosto, è citata come μῆνις, che tra le probabili radici etimologiche ha quella del verbo μαίνομαι, "impazzisco", e ciò dimostra appunto quanto rabbia e pazzia siano collegate. Qualche secolo dopo anche Seneca ha mostrato quanto forte fosse questo legame nel suo trattato De ira in cui descrive anche i sintomi fisici comuni a queste perturbazioni interne all'uomo, che in più di un punto assomigliano ai modi in cui Orlando viene descritto da Ariosto nel momento in cui impazzisce.

(LA)

«Ut scias autem non esse sanos quos ira possedit, ipsum illorum habitum intuere; nam ut furentium certa indicia sunt audax et minax vultus, tristis frons, torva facies, citatus gradus, inquietae manus, color versus, crebra et vehementius acta suspiria, ita irascentium eadem signa sunt: flagrant ac micant oculi, multus ore toto rubor exaestuante ab imis praecordiis sanguine, labra quatiuntur, dentes comprimuntur, horrent ac surriguntur capilli, spiritus coactus ac stridens, articulorum se ipsos torquentium sonus, gemitus mugitusque et parum explanatis vocibus sermo praeruptus et conplosae saepius manus et pulsata humus pedibus et totum concitum corpus "magnasque irae minas agens", foeda visu et horrenda facies depravantium se atque intumescentium»

(IT)

«Per convincerti che i posseduti dall’ira sono dei dissennati, osserva bene il loro atteggiamento: come sono sicuri sintomi di pazzia l’espressione risoluta e minacciosa, la fronte aggrottata, la faccia scura, il passo concitato, le mani irrequiete, il colorito alterato, il respiro frequente ed affannoso, tali e quali sono i sintomi dell’ira incipiente: gli occhi ardono e lampeggiano, il viso si copre di rossore per il rifluire di sangue dal fondo dei precordi, le labbra tremano, i denti si serrano, i capelli si drizzano ispidi, il respiro diventa forzato e rumoroso, le articolazioni schioccano tormentandosi, i gemiti e i muggiti si intercalano in un parlare che inciampa in voci mozze, le mani battono continuamente e i piedi percuotono la terra, il corpo è tutto eccitato e “scagliante grandi minacce d’ira”, i lineamenti sono brutti e spaventosi, quando un uomo si sfigura per corruccio.»

Lettura con sottofondo de "La follia" di Corelli


«Poi ch'allargare il freno al dolor puote
(che resta solo e senza altrui rispetto),
giù dagli occhi rigando per le gote
sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e geme, e va con spesse ruote
di qua di là tutto cercando il letto;
e più duro ch'un sasso, e più pungente
che se fosse d'urtica, se lo sente.
[...]
Di pianger mai, mai di gridar non resta;
né la notte né 'l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta
sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si meraviglia ch'abbia in testa una fontana d'acqua sì vivace,
e come sospirar possa mai tanto[...].
[...]
[...] E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all'ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira

Lettura con sottofondo de "La follia" di Vivaldi

Sempre Seneca avrebbe poi influenzato Ariosto nella scelta del titolo del suo poema, infatti il titolo Orlando furioso sembra ricalcare quello della tragedia senechiana Hercules furens composta dall'autore latino negli anni della maturità. Rimanendo in ambito latino, a supporto della "giustificazione" alla pazzia si può anche ricordare la massima (forse anch'essa di origine senechiana)

«Semel in anno licet insanire»

Avanzando ancora di qualche centinaio d'anni fino a raggiungere l'età contemporanea ad Ariosto, parlando di pazzia è d'obbligo citare Erasmo da Rotterdam che con quella che è indubbiamente la sua opera più famosa, l'Elogio della follia, esprime un concetto non dissimile da quello ariostesco, già esplicitato precedentemente. Anche Erasmo infatti, servendosi sempre di una sottile ironia, esalta la follia in opposizione alla severa ragione che rende tutto più insipido e sempre come Ariosto dimostra quanto la follia caratterizzi poi, in fondo, la natura di ogni uomo.

Busto di Franz Xaver Messerschmidt

«Osservate con quanta previdenza la natura, madre del genere umano, ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia. Infuse nell'uomo più passione che ragione perché fosse tutto meno triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, la vecchiaia neppure ci sarebbe. Se solo fossero più fatui, allegri e dissennati godrebbero felici di un'eterna giovinezza. La vita umana non è altro che un gioco della Follia. Il cuore ha sempre ragione.»

Lettura

Sempre Erasmo poi fa notare come la saggezza in realtà non risieda davvero in coloro che sono riconosciuti come sapienti, bensì nei folli, più a stretto contatto con la "vera realtà" del mondo.

«In primo luogo se la saggezza consiste nell'esperienza, chi merita di più che gli venga attribuito il nome prestigioso di saggio, il sapiente, che rinuncia a qualsiasi iniziativa vuoi per ritegno vuoi per viltà, o l'insensato, che né ritegno che gli manca, né il pericolo che non valuta, trattengono da alcuna avventura? Il sapiente si rifugia dai suoi libri antichi e ne impara soltanto sottigliezze linguistiche. L'insensato ricava una autentica saggezza, se non mi sbaglio, andando incontro alle cose e affrontandole da vicino. Sembra che questo l'abbia visto Omero, anche se era cieco, quando dice: "Avendone fatto esperienza anche lo stolto sa". Infatti gli ostacoli principali per farsi un'idea delle cose sono il ritegno che annebbia lo spirito e la paura, che mostrando i pericoli distoglie dal prendere iniziative. La follia libera magnificamente da entrambi. Tra i mortali sono in pochi a capire per quanti altri vantaggi riesca utile non vergognarsi mai ed essere pronti a tutto.»

Lettura

Continuando a seguire questo filone ci si può soffermare poi anche su Pascal che, non scostandosi troppo dai suoi precedenti qui nominati, espone ancora una volta la grande diffusione della pazzia nel genere umano, soprattutto fra chi si atteggia da re e imperatori, informandoci che Platone e Aristotele erano consci di ciò.

«Non ci si immagina Platone e Aristotele se non con grandi toghe da pedanti. Erano persone oneste e come gli altri, ridevano con i loro amici. E quando si sono divertiti a fare le loro leggi e le loro polemiche, l'hanno fatto giocando. Era la parte meno filosofica e meno seria della loro vita: la più filosofica era di vivere semplicemente e tranquillamente.
Se hanno scritto di politica, era come per regolare un ospedali di pazzi.
E se hanno fatto finta di parlarne come di una grande cosa, è perché sapevano che i pazzi cui parlavano pensano di essere re e imperatori. Entrano nei loro principii per moderare la loro follia al minor male possibile»

Lettura

Infine c'è un interessante paragone che può essere fatto, riferendosi ai comportamenti di Orlando che sfociano infine in follia pura. La causa della pazzia di Orlando è in fondo, a pensarci bene, una perdita, quella di Angelica, una sorta di lutto quindi a cui consegue un dolore lacerante che si concretizza in azioni che possono essere accostate alle cinque fasi di dolore dovute a un lutto descritte dalla psichiatra Elizabeth Kübler-Ross nel 1970[1], anche se è bene precisare che Orlando non raggiunge mai l'ultima fase di questo schema, quella dell'accettazione.

Tra gli elementi che distinguono in modo particolare l'Orlando furioso e il suo autore, vi è indubbiamente anche l'ironia, mezzo indispensabile di cui Ariosto si serve per mettere a nudo la sua epoca e criticarla attraverso fini allusioni, talvolta nemmeno troppo velate. L’ironia risulta cioè essere lo sguardo che rivela le contraddizioni della realtà, lo strumento di indagine più adatto che consenta di intuire quella bizzarra compresenza di opposti di cui essa è costituita. Alcuni dei massimi esempi di ironia ariostesca risiedono nella sovversione dei ruoli classici: la figura della donzella dolce e innocente viene rimpiazzata con un'ideale di donna molto più sicura di sé ed indipendente, quali soprattutto Angelica, che appare anche spietata ed opportunista, ma anche Bradamante, fanciulla che veste panni maschili e non permette a niente e a nessuno di intromettersi tra lei e il suo amato Ruggiero. Anche l'ideale virile viene però completamente sovvertito e il tutto sempre in chiave ironica: fin a partire dal titolo comincia il processo di smitizzazione dell'eroe, infatti il titolo quasi ossimorico Orlando furioso associa il nome del paladino che all'epoca della chanson de geste era sinonimo di saggezza, assennatezza, autocontrollo, viene affiancato all’aggettivo “furioso” creando così anche un effetto, restando all'interno dell'analisi dell'ironia, che ai lettori dell'epoca doveva risultare molto intrigante. A questo processo di smitizzazione dell'uomo vengono sottoposti, oltre ad Orlando, anche Ferraù e Rinaldo (costretti a dividere il cavallo per poter inseguire la scaltra Angelica che fugge), Sacripante (che in pochissimo tempo riesce a farsi battere a duello, scoprire in maniera umiliante di essere stato battuto da Bradamante, una ragazza, rimanere bloccato sotto il proprio destriero, non riuscire a controllare Baiardo ed essere costretto a chiedere aiuto ad Angelica). Insomma, con un approccio ridicolo ed ironico Ariosto riesce a smantellare miseramente personaggi che per secoli avevano mantenuto un'impressionante autorevolezza, facendoli svanire dietro ad un furbo sorriso. Ma trattando questo tema ciò che colpisce ancor di più è probabilmente l'autoironia, ancor più difficile da trovare. Difatti gli obiettivi dei cinici commenti ariosteschi non sono sempre e solo contro i suoi personaggi: spesso la vittima preferita di Ariosto è lui stesso. L’autore, in un mondo di inganni e di menzogne rivolte agli altri, ma anche e soprattutto a sé stessi, trova nell’autoironia la chiave per riuscire ad affrontare la realtà, per giungere alla verità e accettarla senza remore. L’autocritica porta l’autore ad avere una notevole consapevolezza di sé stesso, dei suoi punti di forza ma soprattutto delle sue debolezze, e una volta applicato uno degli insegnamenti più complessi tramandatici dagli antichi “γνῶθι σεαυτόν”, Ariosto è in grado di riconoscere anche gli inganni altrui. E attraverso questo poema cerca di smascherarli mettendo in mostra la cruda verità. Ariosto non esita a criticare la propria condizione di cortigiano (il riferimento alle poesie di lode che hanno la forma di cicale scoppiate è un lampante esempio di autoironia), ma anche e soprattutto quella di innamorato pazzo ponendosi così alla stregua di Orlando.

È possibile citare alcuni altri esempi di ironia esterni ad Ariosto, fra cui c'è ad esempio il suo già citato contemporaneo Erasmo da Rotterdam che per mezzo di commenti pungenti ha messo alla berlina molti dei malcostumi dell'epoca. Ci sono poi altri autori che come Ariosto hanno, attraverso un'esposizione audace e scanzonata, proseguito in una presentazione di ideali umani nuovi: per la smitizzazione dell'eroe virile non si può non menzionare Cervantes che con il suo Don Chisciotte riprende appieno ed acutizza la demitizzazione del cavaliere. Per quanto riguarda la presentazione di un nuovo tipo di donna si può citare la Mirandolina di Goldoni che ben si accosta alla figura di Angelica: come l'amore di Orlando, Mirandolina è una bellissima donna che fa impazzire di sé tutti gli uomini, ma li allontana tutti dimostrandosi forte ed indipendente e capace di confrontarsi con gli uomini in modo diretto, senza paura e soprattutto senza vergogna.

IL mondo altro

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Ariosto inserisce nel suo poema anche l'interessante tema del "mondo altro", presentando alcuni luoghi come posti alternativi al mondo reale, separati da questo, ma in alcuni casi comunque strettamente connessi.

Illustrazione di Gustave Doré, Astolfo sull'Ippogrifo

Il luogo che più di tutti si identifica come "mondo altro" è senza dubbio quello della Luna raggiunta da [[Astolfo (personaggio)|Astolfo grazie all'Ippogrifo presentata nel canto XXXIV . Pur essendo un luogo del tutto alternativo e distaccato dalla Terra, il legame che intercorre fra loro è strettissimo, difatti ogni cosa persa sul nostro pianeta finisce sulla Luna. Fra Terra e Luna esiste però anche un altro collegamento e difatti la Luna sembra apparire come luogo speculare alla Terra: se la Terra è il luogo dell’inganno, della menzogna e dell’apparenza, al contrario la Luna è il luogo della verità che si celano dietro alle facciate menzognere. Sulla Luna non esistono inganni, tutto si rivela per ciò che è realmente: le adulazioni in realtà sono ami d’oro e d’argento, le lodi sono cicale scoppiate, gli amori non corrisposti ceppi adorni di gemme… niente può essere nascosto, soprattutto il senno perduto. Ed è proprio attraverso la descrizione del vallone in cui si trovano le ampolle contenenti il senno degli uomini che Ariosto dimostra la sua tesi: le persone dissennate sono molte più di quanto possa sembrare. Il viaggio di Astolfo sulla Luna rappresenta quindi una sorta di viaggio introspettivo all’interno della psiche umana, alla scoperta delle sue pulsioni più segrete, dei suoi desideri, delle sue contraddizioni.






Il palazzo di Atlante

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In misura minore rispetto alla Luna anche il palazzo di Atlante appare quale "mondo altro" e difatti esso è un luogo isolato, a sé stante, che esiste indipendentemente dal resto del mondo. A differenza della Luna però non c'è alcun legame con quel che accade nel mondo reale ed esso si identifica del tutto come luogo di vita alternativa in cui la vita di sempre viene accantonata e dimenticata.

Studiando le varie letterature sono individuabili ulteriori "mondi altri". In primo luogo un importante precedente ad Ariosto che parla anche in questo caso della Luna è rappresentato da Luciano che nella sua opera narrativa La storia vera presenta uno specchio sulla Luna che mostra ciò che accade sulla Terra. Anche qui quindi la Luna rappresenta in qualche modo una sorta di "rivelatore" di quel che succede sul nostro pianeta.

(GRC)

«Καὶ μὴν καὶ ἄλλο θαῦμα ἐν τοῖς βασιλείοις ἐθεασάμην κάτοπτρον μέγιστον κεῖται ὑπὲρ φρέατος οὐ πάνυ βαθέος. Ἂν μὲν οὖν εἰς τὸ φρέαρ καταβῇ τις, ἀκούει πάντων τῶν παρ᾽ ἡμῖν ἐν τῇ γῇ λεγομένων, ἐὰν δὲ εἰς τὸ κάτοπτρον ἀποβλέψῃ, πάσας μὲν πόλεις, πάντα δὲ ἔθνη ὁρᾷ ὥσπερ ἐφεστὼς ἑκάστοις· τότε καὶ τοὺς οἰκείους ἐγὼ ἐθεασάμην καὶ πᾶσαν τὴν πατρίδα, εἰ δὲ κἀκεῖνοι ἐμὲ ἑώρων, οὐκέτι ἔχω τὸ ἀσφαλὲς εἰπεῖν. Ὄστις δὲ ταῦτα μὴ πιστεύει οὕτως ἔχειν, ἄν ποτε καὶ αὐτὸς ἐκεῖσε ἀφίκηται, εἴσεται ὡς ἀληθῆ λέγω.»

(IT)

«E un altra meraviglia vidi nella reggia. Un grandissimo specchio sta sopra un pozzo non molto profondo; chi scende nel pozzo ode tutte le parole che si dicono da noi sulla terra; e chi riguarda nello specchio vede tutte le città e i popoli, come se li avesse innanzi: e io ci vidi tutti i miei, e il mio paese: se essi videro me non saprei accertarlo. Chi non crede tutte queste cose, se mai monterà lassù, saprà come io dico il vero.»

Lettura

Analizzando poi, come già detto, il viaggio di Astolfo come occasione di “cambiare il proprio approccio, guardare il mondo con un'altra ottica” si aprono altri scenari di collegamenti. È infatti con queste esatte parole che Calvino si esprime nelle sue Lezioni americane nella Leggerezza. Qui viene ricordato Perseo che si serve di uno specchio per sopportare lo sguardo pietrificante della Medusa. Allo stesso modo Astolfo deve salire sulla Luna per poter vedere la realtà vera delle cose, per avere una visione migliore della realtà che lo circonda. Infine, anche il viaggio ultraterreno di Dante può collegarsi al viaggio di Astolfo, quale percorso di rivelazione delle realtà umane.

Tutto il poema è costellato di numerosissimi elementi di magia e di irrealtà in cui però, è bene sottolinearlo, è riconoscibile un sotterraneo sorriso dotto, quasi di irrisione, con cui il poeta si pone di fronte ad essi dimostrando un atteggiamento per niente ingenuo da vero umanista quale in fondo anche Ariosto è. In questo mondo fantastico il poeta si sbizzarrisce poi ponendosi egli stesso quasi come mago del suo mondo e portando alla creazione di elementi mirabolanti come per esempio la creatura dell’Ippogrifo. Ma proprio nei massimi momenti di immersione nel fantastico, con una pungente ironia fatta di poche ma incisive parole, Ariosto riconduce d’improvviso il lettore alla realtà costringendolo al buon senso: il poeta sembra quasi divertirsi a sollecitare la fantasia del lettore per poi però smorzarla immediatamente con inattesi interventi ironici. Ariosto riesce in questo poema, grazie alla sua scaltra ironia, a mettere in evidenza una delle contraddizioni principali della società del tempo: da una parte l’assoluta idealizzazione della razionalità, del pensiero, dell’intelligenza, dall’altra l’irrazionale fede umana nelle superstizioni e nella magia. In conclusione quindi Ariosto dimostra con grande intelligenza di avere una mentalità nuova e spregiudicata, propria di un grande umanista, capace di allontanare ciò che ritiene ormai superato ed inappropriato al suo nuovo tempo, di rifiutare ingiustificate “fedi” del passato per rifarsi all’unica fede dell’intelligenza.

L'atteggiamento con cui nell'Orlando furioso l'autore si pone davanti alla magia e alle credenze popolari, portando cioè in modo fine e leggero una critica scanzonata, si ritrova anche in altre opere, come ad esempio nella commedia, sempre ariostesca, Il Negromante, ma anche nella commedia di Machiavelli La mandragola, così come nell'opera lirica L'elisir d'amore di Donizzetti.

  1. ^ Secondo la teoria della Kübler-Ross, le persone, in caso di lutto, reagiscono seguendo uno schema generale ricorrente, che si può sintetizzare in cinque fasi che corrispondono a:
    • negazione ⇨ Orlando tenta in tutti i modi di negare che i nomi incisi di Angelica e Medoro siano la prova del loro amore: prima cerca di convincersi che quella sugli alberi non corrisponda alla grafia di Angelica, poi si impone di pensare che “Medoro” sia un soprannome per indicare proprio lui, Orlando, infine, in un ultimo disperato tentativo si convince che sia tutto un complotto ordito ai suoi danni dai suoi nemici.
    • rabbia ⇨ non è ancora una rabbia pazza, come quella che seguirà, si tratta piuttosto di agitazione, ansia, irrequietezza, che si acutizza dopo il soggiorno nella casa del pastore dove hanno sostato anche i due amanti.
    • patteggiamento ⇨ Orlando crede che allontanandosi da tutto ciò che gli ricorda o lo costringe a pensare ad Angelica e Medoro, riuscirà a liberarsi del dolore lacerante che gli opprime il petto.
    • depressione ⇨ Orlando vaga alla ricerca della pace e se ne sta immobile in una radura per tre giorni, svuotato di ogni emozione e vigore, si limita a fissare il cielo in modo apatico.
    • accettazione ⇨ Orlando non si dimostra in grado di elaborare il lutto per la perdita di Angelica.
  • Ludovico Ariosto, Orlando furioso, 1516.
  • Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, 1509.
  • Luciano, La storia vera, II secolo.
  • Blasie Pascal, Pensieri, 1669.
  • Seneca, De ira, 39-40.
  • Seneca, Hercules furens, I secolo.
  • Dante Alighieri, Commedia, 1321.
  • Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, 1969.
  • Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947.
  • Omero, Iliade, VI secolo a.C..
  • Miguel de Cervantes, Don Chisciotte, 1605.
  • Carlo Goldoni, La locandiera, 1753.
  • Ludovico Ariosto, Il Negromante, 1520.
  • Niccolò Machiavelli, Mandragola, 1504.
  • Gaetano Donizetti, L'elisir d'amore, 1832.
  • Italo Calvino, Lezioni americane, 1985.