Il grande inquisitore (I fratelli Karamazov)

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Voce principale: I fratelli Karamazov.

«L’episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo d’una bellezza inestimabile.»

Il Grande inquisitore

Il Grande Inquisitore (noto anche come La leggenda del Grande Inquisitore, che è il titolo di una celebre opera di Rozanov) è un capitolo del romanzo I fratelli Karamazov, dello scrittore russo Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

Emerge l'aspetto psicologico, antropologico e filosofico di Dostoevskij; il racconto può essere analizzato e compreso anche fuori dal contesto del romanzo. Vengono rielaborati temi che riguardano la filosofia morale, la filosofia politica, la filosofia della storia e la filosofia della religione.

Prima di iniziare il racconto, Ivàn descrive le opere poetiche religiose del passato con "irruzioni" celesti nella vita degli uomini. Il più suggestivo e "dantesco" a suo avviso è un poemetto monastico russo tradotto dal greco, La Madre di Dio tra i tormenti, in cui la Madonna visita insieme all'arcangelo Michele un lago infernale bollente, dove sono immersi i dannati che ormai Dio ha dimenticato. Allora ella, inginocchiandosi piangendo, chiede perdono a Dio nel suo trono per tutti i dannati, senza distinzione. Dio le mostra le piaghe delle ferite di Gesù e le chiede come sia possibile perdonare anche i suoi carnefici; ma ella invita tutti i presenti (santi, martiri, angeli) a inginocchiarsi con lei per chiedere perdono per tutti, senza distinzione. Alla fine ottiene che i dannati siano liberati dai tormenti ogni anno, dal giorno di Venerdì Santo fino alla festa della Pentecoste; i peccatori rendono grazie dall'abisso infernale. Come in passi precedenti, anche qui è adombrata l'ipotesi teologica dell'apocatastasi.

Ivàn Karamàzov espone dunque al fratello Aleksej (Alëša) un racconto allegorico di sua invenzione, ambientato in Spagna ai tempi della Santa Inquisizione.

Dopo quindici secoli dalla morte, Cristo fa ritorno sulla terra. Non viene mai menzionato per nome, ma sempre chiamato indirettamente. Pur comparendo furtivamente, viene misteriosamente riconosciuto da tutti, il popolo lo riconosce e lo acclama come salvatore, tuttavia egli viene subito incarcerato per ordine del Grande Inquisitore, proprio mentre ha appena realizzato la resurrezione di una bambina di sette anni, nella bara bianca ancora aperta, pronunziando le sue uniche parole di tutta la narrazione: "Talitha kumi". L'Inquisitore

«è un vecchio di quasi novant'anni, alto e diritto, con il viso scarno e gli occhi infossati, nei quali però riluce una scintilla di fuoco...[1]»

È lo stesso inquisitore a fare arrestare Gesù e subito dopo a recarsi presso di lui nella prigione in cui è stato rinchiuso esordendo con queste parole:

«"Sei tu? Sei tu?" Non ricevendo risposta, aggiunge rapido: "Non rispondere, taci! E poi, che cosa potresti dire? So anche troppo bene quel che diresti. Ma tu non hai il diritto di aggiungere nulla a quel che già dicesti una volta. Perché sei venuto a infastidirci? Perché sai anche tu che sei venuto a infastidirci. Ma sai cosa accadrà domani? Io non so chi tu sia né voglio sapere se tu sia proprio Lui o gli somigli, ma domani ti condannerò, ti brucerò sul rogo come il più empio degli eretici..."[1]»

Poi gli rimprovera di aver voluto portare la libertà ad un popolo che è incapace di usufruirne, un popolo che attraverso il potere della Chiesa pensa d'essere libero. Dopo la sua venuta è stata proprio la Chiesa a farsi carico dell'unica possibilità per rendere gli uomini felici e la sua venuta danneggia quest'ordine raggiunto. Per questa ragione l'inquisitore gli ripete: "Perché sei venuto a infastidirci?".

Poi Alëša chiede cosa significhino le parole dell'inquisitore a Gesù "non ti erano mancati avvertimenti e consigli". E Ivàn fa rispondere al vecchio che quando lo "Spirito intelligente e terribile" (Satana) lo aveva tentato, aveva posto in realtà una previsione sul comportamento umano. Quando lo tentò suggerendogli di convertire le pietre in pane affinché gli uomini credessero facilmente in lui, egli non lo fece, proprio per mantenere una libertà di scelta non imposta da un'evidenza. Ma l'inquisitore immagina poi un Uomo che persegue la scelta della libertà (proprio come suggerita da Gesù) che non conduce gli uomini ad alcuna certezza ma anzi, dopo essersi angustiati sarebbero venuti a cercare coloro che lo avrebbero perseguitato lungamente, affermando che la promessa fattagli non li aveva sfamati.

«Sfamaci, perché coloro che ci avevano promesso il fuoco dei cieli non ce l'hanno dato.[1]»

Così l'inquisitore immagina di dover riprendere il potere facendo credere di farlo nel nome di Gesù: "... e saremo noi a sfamarli, nel nome tuo, dando a credere di farlo nel nome tuo." Così deposta la loro libertà, palesata l'incapacità di suddividere il pane a tutti nella libertà si persuaderanno di non poter essere liberi perché deboli, viziosi, inetti e ribelli. Cristo infatti con il suo messaggio dà all'umanità la libertà, la quale risulta insostenibile per la maggior parte degli uomini perché essi hanno bisogno delle necessità materiali alle quali solo in pochi sanno rinunciare. E aggiunge che gli uomini non vogliono questa libertà perché intollerabile ma soprattutto perché creature semplici e sregolate.

«E se a migliaia e decine di migliaia ti seguiranno in nome del pane celeste, che avverrà dei milioni di miliardi di esseri che non troveranno la forza di disdegnare il pane terreno per quello celeste? O forse a te sono care solo quelle decine di migliaia di esseri grandi e forti, mentre gli altri milioni di deboli - numerosi come granelli di sabbia marina, che tuttavia ti amano - devono essere solo materiale per i grandi e per i forti?[1]»

Il Grande Inquisitore spiega a Cristo come sia necessaria un'autorità forte, quella da lui rappresentata, che dia al popolo più debole i veri bisogni materiali e richieda loro obbedienza, ingannandoli nel nome di Cristo. Ma in questo inganno risiede la vera sofferenza dell'inquisitore:

«Ma noi diremo che obbediamo a te e che governiamo in nome tuo. Così l'inganneremo di nuovo perché non lasceremo più che ti accosti a noi. E appunto in questo inganno starà la nostra sofferenza giàcché dovremo mentire.[1]»

Ormai da otto secoli l'inquisitore e i suoi sono con Lui, con il diavolo, l'unico che può aiutarli a realizzare l'opera della felicità universale, correggendola dalla follia irrealizzabile che Cristo avrebbe voluto, seppur conoscendo il segreto della natura umana basato su questa ebbrezza nauseante per la libertà. Vi sono tre forze in grado di togliere la libertà all'uomo: il miracolo, il mistero e l'autorità. Nella loro veste di sacralità sono le forze su cui si è retta la Chiesa, dal cattolicesimo romano di Costantino al cattolicesimo gesuitico della Controriforma. Secondo l'ortodosso Dostoevskij, il socialismo ateo ha trasformato queste forze nei tre grandi miti di massa della società moderna: la moltiplicazione dell'avere, il valore eminente del fare e la sottomissione universale alla forza organizzativa del potere.[2] Cristo ha rifiutato l'invito di Satana a cambiare le pietre in pane rispondendogli che l'uomo non vive di solo pane. Ma le moltitudini affamate di beni da consumare non vorranno invece vivere soltanto per ciò che hanno o esigono di avere, piuttosto che per la dignità spirituale che contrassegna la loro natura nel mondo delle pietre, delle piante e degli animali? L'uomo diventa così schiavo di ciò che possiede o di ciò che vuol possedere.[2] Il secondo rifiuto di Cristo a Satana, che l'invita a gettarsi dal pinnacolo del Tempio per provare con un miracolo la propria divinità, significa la negazione che l'esorbitante potenza del fare sia la prova della grandezza dell'uomo. L'ultimo dono che il Tentatore offriva a Gesù nel deserto, tutti i regni della terra, viene sdegnosamente rifiutato. Al che, il Grande Inquisitore, facendosi portavoce del diavolo, rinfaccia al Santo la sua ingenuità, riassumendo «…tutto ciò che l'uomo cerca sulla terra, e cioè: a chi inchinarsi, a chi affidare la propria coscienza e in qual modo, infine, unirsi tutti in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde, giacché il bisogno di unione universale è il terzo e l'ultimo tormento degli uomini. Sempre l'umanità mirò ad organizzarsi universalmente».[3] D'altronde l'uomo è più legato alla ricerca dei miracoli che di Dio. E se gli vengono a mancare i miracoli se ne crea inchinandosi ai prodigi di un guaritore. Con queste tre forze l'inquisitore dice di aver alleviato gli uomini e di aver pensato realmente agli ultimi, a coloro che non potevano tollerare quel messaggio gravoso di libertà.

«Non amavamo forse l'umanità, riconoscendo con tanta umiltà la sua debolezza, alleviando con amore il suo fardello e permettendo alla sua debole natura di peccare, ma con il nostro consenso? Perché mi fissi in silenzio, con il tuo sguardo mite e penetrante? Adirati, io non voglio il tuo amore perché io stesso non ti amo.[1]»

E poi l'inquisitore aggiunge la frase più controversa, una sorta di dichiarazione di distacco della Chiesa dal messaggio cristico:

«Allora senti: noi non siamo con te, ma con Lui, ecco il nostro segreto! Da un pezzo non siamo più con te ma con Lui: da ormai otto secoli[1]»

Seguendo questa via di potere che l'inquisitore definisce dei "Cesari" la Chiesa ha regnato con la spada preferendo la via suggerita da Lui (lo Spirito intelligente) e rinnegando Gesù. E nel mantenere l'ordine concederanno agli uomini la possibilità di peccare secondo le regole dettate, ciò li renderà riconoscenti e docili. Ma certamente chi si è fatto carico di tale onere prenderà su di sé il peso della sofferenza, dell'infelicità e la maledizione della conoscenza del bene e del male. L'Inquisitore conclude il suo discorso comunicando al condannato che non lo teme, che la sua esecuzione avverrà l'indomani e che il popolo ne gioirà. Cristo rimane sempre in silenzio, e come unica risposta si avvicina al vecchio Inquisitore e lo bacia sulle sue vecchie labbra esangui.[1]

«Il vecchio sussulta. Gli angoli delle sue labbra hanno come un tremito; va verso la porta, l'apre e gli dice: "Vattene e non venire più... mai più, mai più!" E lo lascia andare per le oscure vie della città[1]»

L'Inquisitore è turbato, eppure Ivàn commenta: "...quel bacio gli brucia nel cuore, ma il vecchio non muta la sua idea".[1]

Aleksej contesta aspramente i contenuti del racconto di Ivàn, attribuendo l'errore dell'Inquisitore alla Roma dei cattolici e dei gesuiti. Poi, dopo aver osservato il fratello in silenzio, alla fine gli si avvicina e lo bacia "con dolcezza" sulle labbra.

Possibili interpretazioni

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Lo stesso argomento in dettaglio: La leggenda del Grande Inquisitore (Rozanov).

La "Leggenda del Grande Inquisitore", vista spesso come critica dell'autore al potere temporale delle chiese istituzionali (in particolare quella cattolica),[4] è stata interpretata e discussa da molti filosofi all'interno della più ampia discussione dell'interpretazione filosofica di Fëdor Dostoevskij. Gli otto secoli per cui la Chiesa si sarebbe allontanata da Cristo potrebbero rappresentare lo scisma che allontanò i cattolici dagli ortodossi.[5] Ma in tutto ciò egli vede la volontà di appropriarsi di un potere e di gestirlo come dei Cesari che attraverso il miracolo, il mistero e l'autorità illudono gli uomini privandoli della vera libertà di cui hanno timore.[6] Zagrebelsky valuta la scelta dell'inquisitore non tanto nella ragion di Stato, per fede o per un calcolo razionale d’utilità. Egli crede che sia la natura stessa degli uomini disposta all'asservimento verso un'autorità.[7] E aggiunge inoltre che il suo intento non è quello di farsi Dio ma di estrometterlo dalla sua vita.[8]

Va comunque ricordato Vasilij Rozanov, il quale è stato il primo ad attribuire particolare importanza al racconto. Il tema della libertà influenza anche il pensiero di Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev, il quale ha letto il racconto come un invito a una fede che si fondi sulla libertà e come una critica al positivismo, al marxismo e al cattolicesimo. L'interpretazione di Berdjaev ha influenzato anche quelle a venire, tra le quali ricordiamo in particolare quella di Luigi Pareyson. Senza dimenticare le interpretazioni russe di Solov'ëv, Merezkovskij, Sestov, Belyj e Ivanov.[9] E quelle di David Herbert Lawrence e György Lukács.

Sul bacio che Gesù rivolge al grande inquisitore, Zagrebelsky sintetizza in un suo saggio le possibili ragioni: può esser un bacio che riconosce al grande inquisitore la validità del suo operato, o un gesto di pietà rispetto alla sua miseria morale, o infine una testimonianza di amore che supera ogni limite umano.[10] Anche Freud si è soffermato sulla questione dell'inquisitore in un suo saggio intitolato Dostoevskij e il parricidio laddove interpreta il bacio in termini omoerotici collegando i personaggi alla figura del padre.[11]

  1. ^ a b c d e f g h i j Citazioni tratte da F.Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Oscar Mondadori (trad. di Nadia Cicognini e Paola Cotta), Milano 1994, vol. I
  2. ^ a b Pietro Prini, Storia dell'esistenzialismo, Roma, Edizioni Studium, 1989, p. 55, ISBN 88-382-3584-8.
  3. ^ F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Milano, Garzanti, 1981, p. 274.
  4. ^ Moreno Migliorati, Pro o contro Cristo, su qumran2.net
  5. ^ Norman Davies, Storia d'Europa, Mondadori Bruno, 2006, ISBN 978-88-424-9964-0. URL consultato il 14 settembre 2017.
  6. ^ Arnaldo Petterlini, Giorgio Brianese e Giulio Goggi, Le parole dell'essere: per Emanuele Severino, B. Mondadori, 2005, ISBN 978-88-424-9206-1. URL consultato il 14 settembre 2017.
  7. ^ Cap II. Sintesi (2015)
  8. ^ Cap III. Realismo dell'anima (2015)
  9. ^ Daniela Stella, Il Grande Inquisitore. Interpretazioni nel pensiero russo
  10. ^ G. Zagrebelsky, La leggenda del Grande Inquisitore, Morcelliana, Brescia 2003. Vedi anche la recensione del libro di Graziella Di Salvatore, Zagrelbesky, Gustavo - La leggenda del grande inquisitore (di Graziella Di Salvatore), su Centro per la Filosofia Italiana. URL consultato il 27 dicembre 2021 (archiviato dall'url originale il 13 luglio 2013).
  11. ^ Stefano Franchini, Sigmund Freud e il bacio di Cristo, in R. Badii - E. Fabbri (edd.), Il Grande Inquisitore. Attualità e ricezione di una metafora assoluta, Mimesis, Udine-Milano 2012. URL consultato il 17 settembre 2017.
  • Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Trad. Einaudi, Torino 1945, 1977, 2002.
  • Sergio Givone, Dostoevskij e la filosofia, Editori Laterza, Bari 1984, 2006.
  • Luigi Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993
  • Vasilij Rozanov, La leggenda del Grande Inquisitore, Marietti, Genova 1989, 2008.
  • Gustavo Zagrebelsky, Liberi servi. “Il Grande Inquisitore" e l’enigma del potere, eBook, Einaudi, 2015, ISBN 978-88-584-1942-7.

Voci correlate

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