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Gasparo Cairano (noto anche come da Cairano[1], de Cayrano[1], da Milano[1], Coirano[N 1] o altre varianti[2]) (Milano (?) o Cairo o Cairate[1][N 2], prima del 1470[N 3]Brescia (?), entro il 1517[3]) è stato uno scultore italiano.

Non si conosce nulla di Gasparo Cairano prima del 1489, del quale risulta pertanto ignota qualsiasi informazione circa data e luogo di nascita, formazione e circostanze che lo condussero a Brescia[4]. L'appellativo "da Milano", con il quale è spesso ricordato dalle fonti, non fornisce comunque un dato certo visto che potrebbe riferirsi alla città così come al ducato o alla diocesi[4]. Il generico riferimento, in ogni caso, è compatibile con la base culturale del suo operato artistico[4]. Alcune congetture possono essere fatte sul cognome "Cairano", in particolare che esso riconduca a Cairate in provincia di Varese, ancora oggi abbreviato in "Cairà" nella parlata dialettale locale[N 4].

L'esordio: il cantiere di Santa Maria dei Miracoli

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L'esordio a Brescia del Cairano è appunto l'opera per il quale viene pagato il 24 dicembre 1489[5]: il ciclo delle dodici statue di Apostoli per la prima cupola della chiesa di Santa Maria dei Miracoli a Brescia, eseguite approssimativamente nello stesso periodo in cui il Tamagnino eseguiva i suoi dodici Angeli di contrappunto, da disporsi nel registro inferiore[6]. Il ciclo di ventiquattro statue è stato variamente manomesso nel corso dei secoli successivi[7], ma le statue del Cairano sono identificabili grazie alla rigida impostazione iconografica, secondo la quale ogni figura ha un libro in mano tranne due, delle quali una, in atteggiamento benedicente, è da identificare in Gesù[8]. La completa autografia del Cairano si può comunque limitare a non più di due o tre esemplari, benché in generale si riconducano allo stile espressionistico, molto fortunato all'epoca, introdotto da Antonio Mantegazza[8].

Una visione ravvicinata delle statue, inoltre, consente di rilevare valori artistici altrimenti non percepibili dal punto di osservazione comune, ossia dal basso: alcuni Apostoli sono presi da ispirazione estatica, altri dalla lettura, altri sono rivolti all'osservatore, spesso con l'aggiunta di dettagli naturalistici alla composizione come la dentatura nascosta dietro la barba e le labbra dischiuse[9]. Tutto ciò testimonia una particolare attenzione dell'autore verso lo sguardo dei propri modellati, tra l'altro indipendentemente dalla destinazione ultima degli stessi, dato che nulla di quanto descritto è visibile dal punto d'osservazione ai piedi della cupola. Già in questi Apostoli, pertanto, si palesa un atteggiamento che sarà poi reiterato nel ciclo dei Cesari per il Palazzo della Loggia, dove si ritrova un'attenzione a sguardi e dettagli naturalistici del tutto inadeguata alla distanza di osservazione[9].

In generale, tutta la produzione lapidea del cantiere di Santa Maria dei Miracoli eseguita nel decennio successivo al ciclo degli Apostoli, limitatamente a quanto presente all'interno dell'edificio, è riconducibile al Cairano e ai suoi collaboratori[9]. Non è da escludere che quest'opera propedeutica portasse in seno proprio il diritto a proseguire i lavori, in un vero e proprio confronto disputato tra Cairano e il Tamagnino[9]. Notare, comunque, che il ciclo di Angeli del Tamagnino si pone a un livello di qualità artistica decisamente superiore a quello degli Apostoli del Cairano, fosse solo per la relativa modernità dei primi, rivolti verso il nuovo classicismo veneziano di Antonio Rizzo, ma anche per la superiore qualità tecnica[10][11]. È probabile, quindi, che a supporto di Gasparo vi fosse un qualche favore locale che gli consentì di affermarsi sul Tamagnino indipendentemente dalle proprie iniziali capacità artistiche, ancora in fase di sviluppo[9]. Tra l'altro, il Tamagnino resta ai Miracoli ancora per poco, giusto il tempo di realizzare altri cinque rilievi: il tutto, compresi i dodici Angeli, viene pagato all'autore meno di quanto corrisposto al Cairano per i soli dodici Apostoli[N 5]: dopo questo fatto l'artista, certo sbattendo la porta, abbandona il cantiere della chiesa e Brescia, dove vi farà ritorno solo un decennio dopo[12].

Le chiavi di volta del Duomo vecchio

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Appena conquistata la prosecuzione dei lavori all'interno del santuario dei Miracoli, l'arte e la carriera del Cairano cominciavano una rapida ascesa: già il 16 novembre 1491[13] gli vengono pagate le due chiavi di volta per il nuovo presbiterio del Duomo vecchio, in via di costruzione sotto il progetto di Bernardino da Martinengo e sole sculture figurate presenti nella nuova costruzione[9]. Due anni dopo, nel 1493, il Cairano avviava il proprio impegno nel cantiere della Loggia. Si nota quindi una sovrapposizione di impegni e commissioni, sia pubbliche, sia ecclesiastiche, decisamente più importanti dell'impegno in Santa Maria dei Miracoli, il cui cantiere viene infatti interrotto circa nello stesso periodo. Lo scultore tornerà al santuario solo per qualche sporadica opera negli anni successivi fino alla fine del secolo[N 6], ma in generale i lavori non saranno più ripresi fino alla metà del XVI secolo[9].

La policromia delle due chiavi di volta, nonché la loro notevole distanza dal punto di comune osservazione, rende difficoltosa una compiuta analisi critica che testimoni l'evoluzione dell'arte del Cairano nel periodo immediatamente successivo agli Apostoli del santuario dei Miracoli[13]. Nello stesso periodo, però, il Cairano ancora lavorava alle membrature architettoniche e agli ornati di quel cantiere e, infatti, il riferimento dominante dei due clipei del Duomo vecchio è ricercabile nel ciclo di ventiquattro formelle con Angeli a rilievo collocati lungo la cupola maggiore del santuario, all'incirca coevi[14].

Il successo: le sculture della Loggia

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Il 30 agosto 1493 parte a pieno regime la produzione scultorea del Cairano per il rivestimento esterno del costruendo Palazzo della Loggia con la consegna di "capita 5 imperatorum romanorum", ossia di cinque busti per il ciclo dei trenta Cesari, tra le massime opere della sua carriera artistica[18]. La produzione dei busti si può ricondurre, a livello generale, a una rielaborazione moderna della ritrattistica antica e delle fonti che la rappresentavano, anche in modo indiretto[18]: nei busti più antichi, ossia quelli affacciati sulla piazza, si notano somiglianze con il ritratto di Bartolomeo Colleoni nel suo monumento di Andrea del Verrocchio a Venezia[19] (il primo a sinistra), con una nota e molto diffusa effige di Antonino Pio[20] e con un ritratto di profilo di Nerone[21], a sua volta molto celebre all'epoca e qui riproposto in tre dimensioni[18].

In generale, è apprezzabile un considerevole salto di qualità rispetto agli Apostoli del santuario dei Miracoli, scolpiti appena qualche anno prima[22]: notare come il ciclo dei Cesari non abbia eguali nella precedente produzione scultorea rinascimentale sul tema delle effigi imperiali e non solo per l'entità numerica, ma anche per le notevoli dimensioni di ogni esemplare[15]. La presenza di questi Cesari sui fronti della Loggia di Brescia, nonché le caratteristiche dello stesso palazzo, sono quindi testimonianza di un potenziamento architettonico e figurativo che si distacca, elevandosi in un pieno dominio dell'arte classica, dalle sperimentazioni della facciata e degli interni del santuario dei Miracoli[23]. Gasparo Cairano, attraverso la produzione di questi Cesari e dei successivi ornati architettonici del palazzo, diventa quindi l'artefice di un desiderio comune alla committenza pubblica e privata bresciana, ossia tradurre nella pietra il proprio vanto per la discendenza storica dalla Roma antica e cavalcando così il fervore rinascimentale locale[23][11].

Attorno al 1497, mentre proseguiva a intervalli regolari la consegna dei Cesari, Gasparo esegue anche le cinque chiavi di volta per il portico del palazzo, raffiguranti Sant'Apollonio, San Faustino, San Giovita, la Giustizia e la Fede[22]. L'unica attestata dai documenti è quella con Sant'Apollonio[24], ma le altre possono essere comunque ricondotte a lui e alla bottega[22]. Tra il 1499 e il 1500 vengono consegnati i due grandi Trofei posti agli angoli dell'ordine superiore del palazzo, sul fronte rivolto alla piazza, mentre tra il 1493 e il 1505 il Cairano partecipa al compimento delle varie protomi leonine, dei capitelli, delle candelabre e dei fregi sullo stesso ordine[22][25]. L'impronta lasciata dall'artista alla produzione del cantiere risulta evidentissima e influenza in generale tutte le opere decorative scultoree eseguite per il palazzo in quegli anni[22].

Il monopolio dei Cesari viene interrotto solamente durante una breve estemporanea del Tamagnino a Brescia, reclutato nel cantiere della Loggia probabilmente per la fama acquisita nei lavori alla Certosa di Pavia, tra la fine del 1499 e l'inizio del 1500[26]. Lo scultore esegue sei Cesari e diverso altro materiale lapideo, senza tuttavia ottenere alcuna affermazione in un panorama artistico sempre più egemonizzato dal Cairano, ormai lontano dalla spigolosa e ingenua espressività degli Apostoli del santuario dei Miracoli e trasformatosi nello scultore più in voga della città[27][26]. Il Tamagnino, ulteriormente scornato da un freddo riconoscimento delle sue capacità nei confronti dell'avversario, abbandona infine il cantiere e la città, probabilmente senza farvi più ritorno[4][N 5].

Le commissioni private Brunelli e Caprioli

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Guadagnato il prestigio al cantiere della Loggia, il Cairano conquista almeno due commissioni da altrettante famiglie nobili bresciane, coinvolte nella dirigenza amministrativa del nuovo palazzo pubblico e, quindi, certo a conoscenza della sua figura e delle sue capacità[28]. I documenti fanno risalire al 1496[29] l'incarico di eseguire il monumento funebre di Gaspare Brunelli, datato 1500, da collocarsi nella cappella Brunelli nella chiesa di San Francesco d'Assisi. Nello stesso periodo la famiglia Caprioli gli commissiona il monumento funebre di Luigi Caprioli, destinato alla cappella di famiglia nella chiesa di San Giorgio, assieme probabilmente ad altre opere scultoree nell'ambito della stessa cappella, eseguite forse in collaborazione con la bottega dei Sanmicheli ai quali è attribuito lo stipite marmoreo decorato da fini candelabre[28].

Nel monumento Brunelli, raffinato ed elegante, l'artista dimostra di conoscere e rielaborare la tipologia del monumento funebre "pensile"[30], di origine veneziana, ma la perdita delle parti figurate[31] (la cimasa e forse il medaglione centrale) non consente ulteriori apprezzamenti. Completamente diverso doveva apparire il monumento Caprioli, smembrato nel XIX secolo[N 7], di cui resta comunque l'Adorazione Caprioli, tra i capolavori dell'artista, collocata nel 1841 da Rodolfo Vantini all'altare maggiore della chiesa di San Francesco d'Assisi[28]. In questo elaborato rilievo, Gasparo rimanda direttamente ai riquadri oblunghi osservabili alle basi del portale della Certosa di Pavia, realizzati dall'Amadeo e da Benedetto Briosco tra il 1492 e il 1501[32]. L'artista mette qui in atto una sprezzante maestria tecnica, non soltanto nelle precisissime prospettive dei riquadri ma anche nella scelta del blocco monolitico, di fatto non strettamente necessario per un lavoro di questo tipo[28]. Da Bernardino Faino[33], Francesco Paglia[34] e altri studiosi sei-settecenteschi[35] sappiamo che il rilievo era inserito entro un qualche apparato architettonico, al quale doveva appartenere anche una pala figurata, eseguita forse per mano dello stesso autore, della quale si sono perse le tracce[36].

Le sculture di San Pietro in Oliveto e San Francesco

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L'altare di san Girolamo.

Nel 1503 Gasparo consegna gli ultimi Cesari per i fronti della Loggia ed esaurisce il grosso del lavoro in questo cantiere, al quale non è più registrata alcuna successiva presenza[N 8]. Termina quindi, per l'artista, la stagione delle grandi commissioni pubbliche, entro le quali si era probabilmente formato per poi fare carriera e conquistare il successo. Dovendo riorganizzare la propria attività, si mette probabilmente in contatto con le varie personalità incontrate durante i lavori alla Loggia, con collaboratori e altri artisti, in città e nei dintorni, alla ricerca di importanti commissioni. Forse indipendentemente dalla sua volontà, la strada intrapresa lo porterà a dedicarsi sempre più all'arte sacra[28]. Nel 1504 il canonico della basilica di San Pietro de Dom Francesco Franzi da Orzinuovi gli commissiona, per testamento, la realizzazione di una cappella in cattedrale, della quale nulla si conosce[37][38].

Entro il 1507, invece, si colloca la produzione degli apparati lapidei decorativi per l'interno della chiesa di San Pietro in Oliveto, il terzo grande cantiere rinascimentale della città dopo il santuario dei Miracoli e la Loggia, terminato appunto in quell'anno[28][39]. Le posate partiture architettoniche che scandiscono la sequenza degli altari e la pregiata composizione architettonica dell'insieme sono però estranee agli stilemi di Gasparo e, piuttosto, sono consone alla maniera dei Sanmicheli, i quali d'altronde possedevano l'unica bottega in città, oltre a quella del Cairano, in grado di impegnarsi in un'opera di queste proporzioni[28]. Al Cairano, però, spetta sicuramente l'esecuzione dei dodici busti di Apostoli nei pennacchi degli archi della navata, nei quali la mano dell'artista è inconfondibile[28][40]. Non esistono comunque riscontri nella scarsissima e frammentaria documentazione, relativa a questa fase storica dell'edificio, giunta fino a noi[41].

Riconducibile all'opera del Cairano è anche l'altare di san Girolamo nella già nominata chiesa di San Francesco, la cui questione critica costituisce un problema fra i più intricati della scultura rinascimentale bresciana, anche a causa della totale mancanza di fonti storiche sulla sua origine[42]. Sicuramente scolpito dopo il 1506[N 9], si impone, per qualità e originalità artistica, ai massimi livelli dell'arte bresciana del periodo[43] ed è attribuibile a Gasparo sotto vari aspetti, mutuati sia dall'esperienza alla Loggia, sia dal cantiere di San Pietro in Oliveto[42]. Evidenti analogie, soprattutto dal punto di vista della composizione architettonica, tra questo altare e il portale della chiesa di San Giovanni Evangelista a Brescia, hanno portato l'opinione critica a ipotizzare una responsabilità del Cairano anche in questo manufatto[43][44].

Il portale del duomo di Salò

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Il portale del duomo di Salò.

Tra il 1506 e il 1509 è fittamente documentata la realizzazione del nuovo portale del duomo di Salò da parte del Cairano, il quale molto probabilmente redige il progetto[45], in collaborazione con Antonio Mangiacavalli[46]. Per questo manufatto, il Cairano fornisce di sua mano le figure del Padre eterno, di San Pietro e di San Giovanni Battista, lasciando al collaboratore la Vergine annunciata, mentre l'Angelo annunciante e i due piccoli busti nei pennacchi sembrano essere frutto di collaborazione[45]. Le parti architettoniche, invece, vengono eseguite probabilmente dai vari scalpellini registrati nei documenti relativi alla fabbrica, tra cui il figlio di Antonio[47]. Il portale viene messo in opera entro l'agosto del 1508 e all'inizio dell'anno successivo si concludono gli interventi di finitura[45].

Monica Ibsen, nel 1999, rileva chiare attinenze tra questo portale e quello del duomo di Verona e avanza un'ipotesi di paternità del Cairano anche su questo manufatto[48]. Il portale della cattedrale veronese, infatti, era stato compiuto nel 1502 grazie al finanziamento del vescovo, ma il cantiere era stato curato dal bresciano Mattia Ugoni, al tempo suo vicario generale: questi avrebbe potuto rivolgersi a un artista in patria per il progetto, in questo caso Gasparo Cairano, diventato da poco uno dei più rinomati artisti della città grazie ai suoi Cesari sui fronti della Loggia[48][45].

Nell'impresa di Salò, ben ricostruibile attraverso i numerosi pagamenti effettuati, emerge un rapporto di collaborazione decisamente complesso tra Gasparo e il Mangiacavalli, all'apparenza molto stretto e con la condivisione di collaboratori, diretti dall'uno o dall'altro a seconda di chi era presente in cantiere[45]. Notare, inoltre, come questi fenomeni di collaborazione, già verificatisi nel cantiere di San Pietro in Oliveto, siano emblematici di un'attività artistica del Cairano sempre più frenetica e variata, causata da una pioggia di commissioni pubbliche e private, tutte di alto livello, guadagnate nel primo decennio del XVI secolo una volta conclusi i lavori alla Loggia[49]. L'attenzione di Gasparo in questo periodo, infatti, non è rivolta alla fabbrica di Salò, che di fatto frequenta poco e molto raramente[49], e nemmeno al cantiere di San Pietro in Oliveto, monopolizzato dai Sanmicheli, bensì a due opere di importanza e risonanza ben maggiori: l'edificio dello scalone della Loggia e l'arca di sant'Apollonio.

Il ritorno alla Loggia: l'edificio dello scalone

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Entro il 1508[50] viene compiuto l'edificio a nord della Loggia, fino a quel momento priva di scale interne, contenente lo scalone per accedere al livello superiore. Si trattava di una fabbrica a sé, separata dal palazzo pubblico da una strada e collegata a quest'ultimo attraverso un cavalcavia coperto, configurazione giunta a noi intatta. L'intervento di Gasparo, che torna quindi alla Loggia dopo almeno cinque anni di importante carriera, si registra nel portale a terra dell'edificio e in alcuni ornamenti sul cavalcavia[49].

Il portale d'accesso è risolto in modo allo stesso tempo elegante ed eccentrico, quasi esuberante e di sintassi molto libera. Non si ha la presenza degli ordini canonici e l'insieme è concepito come un fantasioso assemblaggio di finti reperti archeologici di reimpiego[49][51]. Per questo motivo, la critica non ritiene imputabile al Cairano il progetto dell'apparato, che resta comunque una formidabile invenzione altamente rappresentativa della cultura antiquaria dell'epoca[52][51]. Sicuramente di Gasparo, però, è la mano che ha prodotto le sculture: assieme a figurazioni antropomorfe, delfini e creature fantastiche, già sperimentate nella Loggia, l'artista ricorre ancora all'inserimento di piccoli Cesari, sia sul portale, sia sul cavalcavia, toccando in alcuni le vette più poetiche della sua ritrattistica all'antica[49][51]. Lo stile figurativo si fa più dilatato e dinamico, con un inedito uso del trapano nell'incavare profondamente i fregi e gli pseudo capitelli, anche i meno sporgenti, aumentando al massimo i contrasti dati dal chiaroscuro e dalle ombre[53].

L'arca di sant'Apollonio

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L'arca di sant'Apollonio.

Un'altra importante commissione, però, stava per affacciarsi sulla carriera di Gasparo, sovrapponendosi alle sue già concentrate attività. Il 5 gennaio 1503[54] viene ufficializzato il rinvenimento, all'interno della basilica di San Pietro de Dom, delle reliquie di sant'Apollonio, avvenuto probabilmente nel settembre 1502 durante alcuni documentati lavori nella cappella a lui dedicata[55]. Nello stesso giorno, il Consiglio generale della città delibera quasi all'unanimità di provvedere a una degna collocazione dei resti del santo, in accordo con le autorità ecclesiastiche della diocesi e della cattedrale[56]. In giugno è documentata un'altra delibera del Consiglio generale, nella quale viene chiesto al Collegio dei notai di finanziare la nuova arca[57]. Strappato il consenso al Collegio, l'impegno non trova probabilmente immediato seguito, certo a causa degli oneri finanziari che i notai avevano accettato di accollarsi e che faticavano a concretizzarsi[58].

Risale infatti al 1506 un perentorio sollecito del Consiglio al Collegio dei notai affinché l'opera sia portata a compimento[59]. Nel settembre 1508, finalmente, la nomina da parte del Consiglio di tre incaricati a presiedere i lavori di ampliamento e ammodernamento della cappella di sant'Apollonio[60] lascia trasparire che i lavori avessero avuto inizio[61]. La solenne traslazione delle reliquie avviene infine nel luglio 1510[62], momento in cui l'arca doveva essere sicuramente compiuta[58]. Pertanto, si può collocare tra il 1508 e il 1510 l'esecuzione dell'opera, ipotizzando un coinvolgimento del Cairano più tardo rispetto all'inizio degli avvenimenti[63].

Notare come nel 1505 era stata posta in opera nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano l'arca di san Tiziano per mano dei Sanmicheli, prima arca cinquecentesca bresciana che sicuramente ebbe una certa risonanza nel mondo artistico dell'epoca e che, probabilmente, doveva costituire una sorta di rilancio per la bottega, ormai non più in voga come un tempo. Non è strano, quindi, che il Cairano si sia impegnato così a fondo nell'arca di sant'Apollonio, tra le sue opere maggiori, che soppianta largamente l'arca dei Sanmicheli per monumentalità e raffinatezza dell'ornato e delle parti figurate. In questa nuova opera, Gasparo fornisce l'ennesima prova della propria abilità, primeggiando prepotentemente in uno scenario ormai privo di concorrenti, rispondendo ai Sanmicheli con una produzione di altissimo livello qualitativo[49][63][64].

Gli anni del sacco di Brescia

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Alla fine del primo decennio del secolo, il clima politico europeo si sta ormai surriscaldando: i fatti della guerra della Lega di Cambrai sono alle porte e le prime incursioni francesi a Brescia sono sintomo di un percorso ormai al tramonto. Entro pochi anni si verifica il terribile sacco di Brescia del 1512 ad opera dei francesi guidati da Gaston de Foix-Nemours che, oltre a gettare in rovina la città, dissolve il mito della Brixia magnipotens[N 10], mettendo fine a una vivace stagione di imprese e ai sogni umanistici, fenomeno che interesserà anche il resto della penisola nei decenni successivi[65][40].

I grandi cantieri rinascimentali cittadini si interrompono, compreso quello del Palazzo della Loggia, il quale ha ancora alla base dei ponteggi molti rilievi del Cairano già predisposti al montaggio sui fronti del secondo livello, tra cui i due Trofei angolari, e che lì rimarranno per un cinquantennio, in attesa della ripresa dei lavori sotto la direzione di Ludovico Beretta[66]. Le priorità cittadine mutano radicalmente, dai fasti artistici e culturali al recupero delle basilari funzioni vitali[67].

Gasparo Cairano risente senz'altro di questo periodo di improvviso e profondo decadimento, se non altro per la forte contrazione delle commesse[68]. Lasciatosi alle spalle un decennio di intensa attività, con addirittura una convulsa sovrapposizione di impegni, entra in una fase della sua carriera artistica decisamente oscura dal punto di vista documentario e delle opere realizzate[69]: l'ultimo documento che lo segnala è il contratto per il portale del duomo di Chiari del 1513, mentre il documento successivo, del 1517, lo dice già morto (vedi dopo). A parte questo, si segnalano altre opere del periodo a lui attribuibili, compresa la complessa questione del completamento del Mausoleo Martinengo[68].

Il portale del duomo di Chiari e una presenza a Parma

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Nel 1513 Gasparo firma il contratto per la realizzazione del nuovo portale del duomo di Chiari[70][71]. Dal documento, scritto in veste di riconferma, si apprende che già nel 1511 era stato preso un accordo tra l'artista e la municipalità, ma esso non era stato portato a termine a causa degli eventi bellici che avevano interessato il territorio bresciano[69]. Il contratto prevede l'esecuzione dell'intero apparato, dalle parti architettoniche alle sculture figurate, ossia un gruppo con la Madonna tra i santi Faustino e Giovita nella lunetta di cui si sono perse le tracce: la perdita di queste sculture, purtroppo, impedisce di determinare l'evoluzione dell'arte di Gasparo all'indomani dell'arca di sant'Apollonio[69]. Il resto dell'opera, comunque, pone nuovamente la questione delle competenze architettoniche del Cairano, ancora non del tutto chiarita[69].

Risulta attribuibile al Cairano, e databile a questa fase, anche il singolare San Giovanni Evangelista presente nel timpano del portale del Capitolo dell'abbazia di San Giovanni Evangelista a Parma. L'opera, non documentata e tradizionalmente riferita dalla critica a Antonio Ferrari d'Agrate, è stata assegnata nel 2010 al catalogo delle opere del Cairano a causa di evidenti riscontri con l'arte matura dell'artista. Questo sconfinamento territoriale di Gasparo è significativo e potrebbe dimostrare un suo successo anche al di fuori della realtà bresciana[72].

Il completamento del Mausoleo Martinengo

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Il Mausoleo Martinengo.

Nel problematico quadro degli ultimi anni della carriera di Gasparo si colloca la questione del completamento del Mausoleo Martinengo, il maggiore monumento funebre del Rinascimento bresciano[69][N 11]. La commissione a Bernardino delle Croci, da parte dei fratelli Francesco e Antonio II Martinengo di Padernello, risale al 1503[73], con termine di tre anni per la consegna. Il sepolcro doveva ospitare la salma di Bernardino Martinengo, padre dei due, che aveva lasciato l'esecuzione dell'opera come volontà testamentaria dopo la morte avvenuta nel 1501 o nel 1502[74]. Tuttavia risulta ancora incompiuto nel 1516, quando il delle Croci si impegna, in un nuovo contratto, a terminarlo entro il gennaio 1518[75]. Le cause sono da ricercare prima in una documentata vertenza di tipo economico tra l'orafo e la committenza, poi negli eventi bellici a cavallo del 1512, che sicuramente rallentano, se non interrompono, la prosecuzione dei lavori[76]. Bisogna attendere il 1516, anno della riconquista di Brescia da parte della Repubblica di Venezia, per trovare il nuovo, definitivo accordo. I documenti si interrompono a quest'ultimo contratto, ma di fatto il monumento viene completato e installato nella chiesa del Santissimo Corpo di Cristo, probabilmente nei termini previsti[77].

Nei documenti relativi alle varie fasi di realizzazione dell'opera non è mai citata alcuna figura al di fuori dell'orafo Bernardino delle Croci, ma non è chiaro se quest'ultimo avesse davvero le competenze per eseguire un apparato scultoreo di questo tipo[78]. La riconsiderazione del panorama artistico bresciano di quegli anni, nonché chiari riscontri stilistici, hanno portato la critica ad assegnare a Gasparo Cairano l'esecuzione delle parti lapidee del monumento, limitando l'intervento del Delle Croci ai soli inserti bronzei[79][80][81][82][40]. L'orafo, di conseguenza, avrebbe assunto la commissione dei Martinengo nella sua totalità, ma avrebbe poi affidato le parti non di sua competenza, di fatto il grosso del monumento, alla bottega del Cairano[78].

Notare[N 12], comunque, che il definitivo contratto del Delle Croci è del 1516 ma Gasparo è segnalato morto già nel 1517[83]: se si affida al Cairano l'opera lapidea, dai documenti si deduce che non avrebbe avuto il tempo materiale per eseguirla completamente in questo breve periodo e, di conseguenza, almeno gran parte di essa deve essere collocata prima di questa data[N 13]. Ciò significa ammettere un coinvolgimento del Cairano antecedente al 1516, non attestato dai documenti, che potrebbe anche essere collocato a monte della commessa, dunque già nel 1503[N 14][84]. A maggior ragione, lo stesso contratto del 1516 informa che l'opera ancora incompleta si trovava già installata nella chiesa, ma non si sa in quali condizioni, e che già dall'anno precedente ospitava i resti di Bernardino Martinengo: ciò presuppone uno stato di avanzamento dei lavori non trascurabile, anzi di fatto completo perlomeno nella struttura e nelle principali componenti architettoniche[77]. L'incompiutezza segnalata dal contratto del 1516, pertanto, potrebbe essere limitata a inserti decorativi di vario tipo, comprese le parti bronzee spettanti sicuramente al Delle Croci[85].

L'attribuzione al Cairano dell'apparato marmoreo tiene conto principalmente delle due statue in sommità, raffiguranti San Pietro e San Paolo, indubbiamente di Gasparo e derivate dagli stessi santi presenti nel portale del duomo di Salò, mentre la maggior parte dei fregi e delle elaborate specchiature si rifanno a esempi riscontrabili sui fronti della Loggia e nel portale dell'edificio dello scalone, eseguito nel 1508[86]. D'altronde, la bottega del Cairano era l'unica rimasta in città, dopo la dispersione dei Sanmicheli già nel primo decennio del secolo, in grado di operare con successo su un complesso di questo tipo, di elevato pregio sia tecnico, sia culturale[78].

Opere erratiche dal 1510 in poi

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La Pala Kress.

Considerazioni stilistiche consentono di collocare attorno alla metà del secondo decennio del XVI secolo una serie di opere, generalmente piccole statue, rilievi o frammenti, snaturate dal contesto originario e sparse in varie sedi[87]. Non è ancora chiaro se su questi manufatti prevalga la mano del Cairano maturo o l'immediato seguito dei suoi collaboratori, per esempio il documentato figlio Simone, ma sono evidenti i tentativi di aggiornamento culturale[69]. È il caso, per esempio, della Pietà conservata nel Museo d'Arte Antica di Milano[88] e della Deposizione di Cristo nei depositi del museo di Santa Giulia di Brescia[89], che sembrano rimandare ai modelli pittorici di Giovanni Bellini e del Romanino[89]. Tra l'altro, questi due gruppi scultorei sono i possibili candidati, tra le opere note di Gasparo, a costituire l'originario fastigio centrale di coronamento al Mausoleo Martinengo[90], previsto anche nel contratto con la committenza[73] e la cui assenza è stata più volte notata dalla critica[91][92][90].

Si ricordano inoltre una statua raffigurante la Temperanza in collezione privata, molto rappresentativa dell'estrema produzione dell'artista[93], e il non identificato Santo, forse san Giovanni Evangelista, intruso tra gli Apostoli nella cupola del santuario dei Miracoli, certamente non attinente al ciclo originale ma più lavorato dalla bottega che dal maestro[94]. Un'altra opera erratica di rilievo, ma databile ancora al primo decennio del secolo, è la cosiddetta Pala Kress conservata alla National Gallery of Art di Washington e di provenienza ignota[95]. La critica ha proposto di identificare in quest'opera la pala figurata che le guide storiche collocano nella cappella Caprioli in San Giorgio assieme alla nota Adorazione e che, verosimilmente, doveva essere a sua volta di mano del Cairano[95][35]. La figura del donatore in primo piano, però, risulta incompiuta e ciò porta a dubitare che la pala sia mai stata messa in opera[96].

Dopo il già citato contratto del 1513 per il portale del duomo di Chiari, Gasparo non è più nominato in alcun documento noto[69]. Il primo testo successivo, in ordine cronologico, che riporta il suo nome è una polizza d'estimo del 1517 di Bianca, moglie dello scultore, che si registra già come vedova[97]. La morte di Gasparo è dunque collocabile tra queste due date[69], verosimilmente attorno al 1515 o anche poco dopo, se si intendono trovare ulteriori suoi interventi nel Mausoleo Martinengo dopo il definitivo contratto del Delle Croci del 1516[84].

L'eredità artistica

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I documenti consentono di ricostruire una genealogia di artisti successiva a Gasparo[98], a partire dal figlio Simone: le poche informazioni giunte fino a noi sulla sua produzione però, non riguardano mai opere di figura ed è probabile che abbia sempre lavorato come costruttore[99][N 15]. In una polizza d'estimo del 1534[100], Simone si dichiara trentottenne, nato dunque nel 1496 e circa ventenne alla morte del padre[99]. Cita inoltre il suo figlio primogenito Gasparo, dodicenne, divenuto a sua volta scultore[N 16], e la moglie Catlina, sorella dell'intagliatore Andrea Testi di Manerbio[100]. Un'altra figlia di Gasparo, Giulia, diventa invece moglie di un artigiano della terracotta[101], mentre un terzo figlio, Giovanni Antonio, è qualificato orefice in un atto notarile riguardante Stefano Lamberti e il già noto Bernardino delle Croci[102].

Alla luce di ciò, è improbabile che il Cairano, alla sua morte, sia riuscito a tramandare un'eredità artistica sufficiente da dare il giusto impulso alla sopravvivenza della sua bottega[99], che pure era esistita, forse nella figura del figlio Simone e di altri collaboratori[86], e che era anche riuscita a formare artisti quali Ambrogio Mazzola[N 17]. Di questo artista è nota una Madonna col Bambino, firmata e datata 1536 e conservata al Victoria and Albert Museum di Londra[103], che appare evidentemente fissata sugli stilemi dettati dal Cairano più di trent'anni prima[99]. Si tratta di un nostalgico e ingenuo omaggio a un maestro che, evidentemente, era stato portatore di un'impronta artistica tanto meritevole del rispetto dei collaboratori da essere replicata non solo senza sosta, ma anche senza alcun interesse all'aggiornamento[104].

La vicenda del Cairano nella Brescia rinascimentale

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Arte di transizione nella Brescia del XV secolo

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Il portale della basilica di Santa Maria delle Grazie a Brescia.

Gli scarsi documenti pervenuti, così come le poche testimonianze sopravvissute, non consentono di ricostruire in modo adeguato il quadro dell'arte scultorea a Brescia nei decenni precedenti all'apertura del cantiere di Santa Maria dei Miracoli[105]. Tuttavia, appare chiara l'assenza di un significativo scenario di maestranze locali in grado di produrre opere in marmo di una certa qualità[106], benché nell'ambito della lavorazione della terracotta, in quegli anni, fiorisse a Brescia e dintorni la scuola del Maestro degli angeli cantori, autore di opere di notevole qualità[107]. Dopo il quasi nulla di fatto, dal punto di vista documentario, degli anni '50 e '60 del XV secolo[N 18], si incontrano sporadiche opere nelle quali si assiste al progressivo aggiornamento ai tratti decorativi e antiquari mutuati dalla Cappella Colleoni[108], quali l'altare della cappella Averoldi nella chiesa di Santa Maria del Carmine[109] e il portale della stessa chiesa[110][111], il portale della basilica di Santa Maria delle Grazie[112] e il portale della chiesa del Santissimo Corpo di Cristo[105].

Agli anni '70 appartiene una categoria di opere concepite in modo austero e irrigidito, alla ricerca, in questo senso, di un'espressione più monumentale del modellato[105], per esempio la lunetta figurata del già citato portale di Santa Maria delle Grazie, il trittico di sant'Onorio e l'arca di san Paterio, entrambi nel museo di Santa Giulia[113]. Da questo tipo di rappresentazione si distaccano nettamente le prime due opere considerate davvero innovative per il panorama artistico scultoreo dell'epoca[105], ossia la lastra sepolcrale di Bartolomeo Lamberti[114][115] al Santa Giulia e il monumento funebre di Domenico de Dominici in Duomo vecchio[116]. Questi due manufatti sembrano avere poco a che fare con l'espressione dell'arte locale del periodo e sono pertanto addebitabili a maestranze esterne, provenienti dall'entroterra veneto, oppure a maestranze bresciane ma già attive in centri quali Verona o Vicenza. Trova quindi ulteriore conferma il già documentato, costante spostamento di numerosi artisti lombardi nell'area padana e anche oltre[117].

In questo contesto si inserisce anche la figura di Filippo Grassi, milanese di origine e alle dipendenze del comune di Brescia dal 1481 come lapicida mentre, dal 1495-1496, anche come architetto e ingegnere capo del cantiere della Loggia[118]. È interessante notare come il Grassi, pur alla luce del suo curriculum, non sia mai documentato su opere a carattere figurativo o decorativo, né al santuario dei Miracoli, né alla Loggia: ciò appare come un indizio dell'orientamento che, progressivamente, stava assumendo la committenza pubblica sui livelli di cultura artistica delle maestranze attive nei propri cantieri, livelli che evidentemente il Grassi non sapeva offrire e che la municipalità stava cercando altrove[117].

È dunque da collocare in questo quadro il delicato inserimento della figura di Gasparo Cairano, artista agli esordi migrante nell'area lombarda come molti suoi contemporanei, che approda a Brescia durante l'innovativo cantiere del santuario dei Miracoli. Il momento storico, con la municipalità alla ricerca di artisti forestieri portatori di novità, gli è inoltre favorevole: rivelatosi in grado di interpretare nella pietra i vanti rinascimentali delle alte cariche, pubbliche e private, della Brescia nell'esplosione rinascimentale, si trasforma molto rapidamente nel principale innovatore della pratica scultorea locale, operando in un ambito del tutto fertile e continuamente surclassando la già scarsa concorrenza[117][119].

Due botteghe concorrenti: Cairano e Sanmicheli

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Bottega dei Sanmicheli, arca di san Tiziano.

Implicita nelle opere d'arte e nella loro successione cronologica piuttosto che dichiarata dai documenti, ma nonostante questo tutt'altro che sfuggente, è la concorrenza che dovette a un certo punto instaurarsi tra Gasparo Cairano e i vari esponenti della bottega dei Sanmicheli[120]. Si trattava di personalità artistiche di grande rilievo in città, almeno a partire dal cantiere del santuario dei Miracoli, ma la loro bottega sarà infine praticamente soppiantata dall'ascesa del nuovo maestro scultore[121]. Le prime informazioni documentarie sull'impresa dei fratelli Bartolomeo e Giovanni Sanmicheli, originari di Porlezza sul lago di Como, risalgono ai primi anni '80 del XV secolo a Verona[122] ed entro la fine del secolo sono documentate alcune importanti commissioni ottenute in varie città del nord Italia[N 19].

L'impresa dei due scultori approda probabilmente anche a Brescia, dato che Bartolomeo risulta qui residente almeno dal 1501 al 1503[N 20] e una presenza così prolungata è giustificabile solo ammettendo l'esistenza di una significativa attività locale[123]. Vi è comunque motivo di credere che il capitolo dei Sanmicheli a Brescia debba avere radici ben più profonde del biennio documentato[123], a partire dallo "Jacobo" o "Iacomo" quasi sempre qualificato "intayador"[N 21] e sempre al primo posto nelle polizze di pagamento del 1493 per i lavori di scultura al cantiere di Santa Maria dei Miracoli, seguito da schiere di "tayapreda"[N 22][124], e ancora allo "Jacobus da Verona" che il 19 dicembre 1495 iniziava a lavorare il primo dei quattro capitelli giganti in facciata al palazzo della Loggia[125]. Questo personaggio potrebbe essere identificato in Jacopo Sanmicheli[N 23], così come l'identità di Matteo Sanmicheli potrebbe celarsi dietro il "Matteo da Proleza" registrato nel 1493 tra i "tayapreda" del santuario dei Miracoli[124][N 24].

La carriera bresciana dei Sanmicheli prosegue dunque nel secondo, grande cantiere della Brescia rinascimentale, quello della Loggia, dove però il gusto locale, inizialmente focalizzato sull'ornato e sulla finissima decorazione di superficie, migra verso orizzonti di potenza e classicità strutturale, più pesata e forse meno leziosa, di fatto estranea alla specializzazione di famiglia[126]. Proprio con la Loggia irrompe sulla scena artistica bresciana l'ormai formato Gasparo Cairano, la cui potenza dei Cesari sancisce l'avvio al declino della sperimentazione sanmicheliana al santuario dei Miracoli che aveva efficacemente cavalcato il gusto locale dell'ornato rinascimentale, nel quale però municipalità e nobiltà non si rispecchiavano più[127]. Probabilmente negli ultimi anni del secolo i Sanmicheli intervengono nella decorazione lapidea della cappella Caprioli nella chiesa di San Giorgio, la stessa per la quale il Cairano, quasi contemporaneamente, predispone la sua Adorazione, manifestando per la prima volta al di fuori della Loggia un affiancamento tra le due botteghe, ma non è noto di quale entità[126].

Bartolomeo Sanmicheli, all'inizio del nuovo secolo, tenta a questo punto di tornare in auge nel panorama artistico locale con l'arca di san Tiziano del 1505, caratterizzata da una forte connotazione decorativa, e ambisce forse alla commissione dell'arca di sant'Apollonio, che già aleggiava dal 1503 a partire dal ritrovamento delle reliquie del santo vescovo[56][126]. Un coinvolgimento dei Sanmicheli può essere congetturato anche nella fase iniziale della commissione del Mausoleo Martinengo, avanzata a Bernardino delle Croci nello stesso 1503, sulla base del prevalente carattere decorativo del monumento estraneo ai modelli decisamente più rigorosi e classicisti del Cairano[128]. Ancora attorno al 1505 viene avviata la ricostruzione della chiesa di San Pietro in Oliveto, probabilmente conquistato dai Sanmicheli ma con lo scalpello del Cairano negli Apostoli: notare che questi rilievi sono le sole opere figurate del cantiere oltre ai fini intagli su lesene e cornici delle cappelle, prodotto di una specializzazione sanmicheliana ormai tarda e non più rispondente ai gusti dell'epoca, mutati all'indomani del candore classicista sperimentato con la Loggia[126]. La risposta ultima di Gasparo non tarda ad arrivare nell'arca di sant'Apollonio del 1508, dove viene sancita una volta per tutte la sua decisa superiorità artistica, certo favorita da una ormai decisa preferenza da parte della committenza bresciana[126][129].

Proprio attorno a questi anni, forse proprio a causa della presentazione sulla scena bresciana di questo grande, definitivo lavoro del Cairano, i Sanmicheli abbandonano Brescia, dove non vi faranno più ritorno, diretti a Casale Monferrato, dove Bartolomeo muore due anni dopo[130]. Matteo, partito a fianco del padre, prosegue e termina la sua carriera nel Piemonte, nella zona torinese, lasciando qui molte delle sue opere meglio note[131].

I rapporti col Tamagnino

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Una simile, accesa competizione dovette instaurarsi anche tra Gasparo Cairano e Antonio della Porta detto il Tamagnino, ugualmente esordiente dal punto di vista documentario assieme al Cairano con il ciclo di dodici Angeli per la prima cupola del santuario dei Miracoli, pagatogli tra il 24 dicembre 1489 e il 3 maggio 1490[5]. Non sono chiari i motivi che conducono a Brescia questo artista milanese, appartenente a una famiglia di scultori e già attestato tra il 1484 e il 1489 a Milano e Pavia nell'ambiente scultoreo sforzesco, in stretto contatto con Giovanni Antonio Amadeo[132][133]. Il suo esordio come scultore di figura, comunque, si inserisce in compatibilità con la tipologia dei lavori sanmicheliani al santuario dei Miracoli, prettamente specializzati nel settore della scultura decorativa e carenti al di fuori di questo campo. Notare che, allo stesso modo, anche Gasparo Cairano appare sulla scena artistica come scultore di figura nel cantiere dei Sanmicheli[134].

L'affinità della commessa, così come la vicinissima collocazione, tra gli Angeli del Tamagnino e gli Apostoli del Cairano porta in seno un inevitabile confronto[135], forse, come già detto, addirittura propedeutico all'affidamento dei lavori interni al santuario, conquistato infine da Gasparo[9]. Tuttavia, le statue del Tamagnino si pongono a un livello tecnico e qualitativo decisamente superiore a quello dimostrato dagli Apostoli del Cairano, perciò non è chiara l'entità di questo originario confronto tra i due artisti[135]. Oltre agli Angeli, il Tamagnino consegna anche tre dei quattro busti clipeati per i pennacchi della prima cupola con i Dottori della Chiesa[N 25], più due tondi minori per il fregio della navata centrale: per questi cinque manufatti, tre dei quali molto grandi, e per i dodici Angeli, lo scultore riceve dalla Fabbrica del santuario un compenso inferiore a quello corrisposto al Cairano per i soli Apostoli[136][N 26]. Può essere ricercata in questa palese differenza di trattamento la più plausibile spiegazione all'immediata partenza dell'artista da Brescia, a cantiere del santuario ancora aperto, trovando evidentemente il suo lavoro sottovalutato, nonché sottopagato, in relazione addirittura con la produzione di un artista molto meno capace di lui[12]. Le motivazioni di tutto ciò sono ignote, ma non si può escludere, come già detto, che Gasparo godesse di un qualche favore locale, forse fra i Deputati alla Fabbrica, che gli consentisse di prevalere sul Tamagnino indipendentemente dai suoi meriti artistici[9]. L'alternativa del Tamagnino al cantiere bresciano, per lui certo non gratificante, è la prestigiosissima commessa per la facciata della Certosa di Pavia, da seguire sotto la direzione del padrino Amadeo e di Antonio Mantegazza[137]. Il patto societario tra l'artista e i due scultori viene stretto nel maggio 1492[138] e apre al Tamagnino un'esperienza formativa unica, nonché un notevole salto di carriera[139].

Nel 1499 il ducato di Milano viene conquistato dai francesi, provocando una diaspora di artisti dalla città verso tutto il nord Italia e oltre[140]. È forse questa la ragione del ritorno a Brescia del Tamagnino[141], al quale gli si presenta comunque l'allettante commessa dell'apparato lapideo dell'erigendo Palazzo della Loggia, al quale egli partecipa tra il novembre 1499 e il giugno 1500[125]. La fabbrica, aperta nel 1492 alla dipartita dello scultore dalla città, è in quel momento ormai egemonizzata dalla figura di Gasparo Cairano, già da qualche anno incoronato alla stregua di scultore di corte dalle alte cariche bresciane, pubbliche e private. I due artisti, pertanto, un decennio dopo il comune esordio, tornano a confrontarsi sulla scena del più importante cantiere bresciano del momento: il Tamagnino si presentava con la qualifica, praticamente unica, di aver realizzato gran parte dei ricami marmorei sulla facciata della Certosa pavese, mentre il Cairano faceva leva su uno spettacolare salto di qualità artistica, che aveva già prodotto i primi Cesari sul fronte principale del palazzo pubblico, nonché sugli onori dell'opinione pubblica locale[142].

I documenti permettono di seguire questa vicenda in modo più chiaro rispetto a quanto avvenuto nel cantiere del santuario dei Miracoli e le opere consegnate, così come le relative date di consegna e i rispettivi pagamenti, si prestano a interessanti considerazioni[142]. All'arrivo del Tamagnino nel 1499, il Cairano ha già consegnato almeno cinque Cesari e diverso altro materiale lapideo, tuttavia in quell'anno è registrato solamente il pagamento di una protome virile, dato che il lavoro dell'artista è completamente assorbito dai due Trofei angolari giganti, da poco cominciati[142]. Nel novembre 1499, il Tamagnino si insidia rumorosamente nel monopolio del concorrente, consegnando ben quattro Cesari e tre protomi leonine e mettendo in mostra le sue capacità e il suo calibro[125]. Tuttavia, nei sette mesi successivi le consegne dello scultore prendono uno strano andamento: mentre al Cairano si susseguono anticipi e saldi per i soli Trofei, in una vera e propria cesura produttiva che non registra altri suoi lavori, il Tamagnino realizza due soli Cesari e ben diciassette protomi leonine, la più ingente quantità di questi pezzi registrata nel cantiere della Loggia in un periodo così ristretto[142]. Notare che il ciclo delle protomi leonine prevedeva manufatti molto più seriali e ripetitivi di quello delle protomi virili, tanto da essere considerato secondario e al quale operarono molti altri lapicidi di bassa levatura[142]. Inoltre, ogni opera del Tamagnino viene pagata palesemente molto meno rispetto ai saldi medi per i manufatti dello stesso tipo[N 27].

I suoi Cesari, sei in totale e pure assolutamente pregevoli, vengono praticamente relegati sui due fianchi sud e ovest, di fatto sul retro del palazzo e nell'angolo meno frequentato[143][141]. Davanti a tale deprezzamento del proprio lavoro, diventa plausibile l'idea che con il sesto e ultimo Cesare consegnato, identificabile nell'esemplare più scadente dell'intero ciclo, il Tamagnino intendesse schernire collega e committenti, che per la seconda volta a Brescia ne avevano sabotato il successo, o quantomeno il giusto riconoscimento, ignorando e sottostimando il suo lavoro[144]. Dopo questi eventi, il Tamagnino lascia Brescia probabilmente per sempre, lasciando Gasparo Cairano unico protagonista del panorama artistico scultoreo locale. In un certo senso, l'eventuale vittoria del Tamagnino può essere vista sul lungo periodo, e non a Brescia, dato che egli godrà di una fortuna critica molto maggiore del concorrente il quale, al contrario, sarà vittima di un secolare oblio che lo farà del tutto scomparire non solo dalle pagine della cultura rinascimentale italiana, ma anche dalle stesse cronache bresciane[4].

La sfortuna critica di Gasparo Cairano tra silenzi e malintesi

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Nonostante la modernità e il pregio delle opere prodotte e le capacità dei suoi protagonisti, è impossibile non constatare come la parabola storiografica della scultura rinascimentale bresciana non abbia mai conquistato gli onori della cultura artistica e letteraria, rimanendo relegata in un ambito dimenticato addirittura dalle stesse fonti locali. La causa principale è da ricercarsi in una lunghissima serie di errori, omissioni ed equivoci avvenuti in ambito letterario già agli esordi, che hanno portato al misconoscimento del livello culturale e qualitativo raggiunto dalla scuola bresciana nel trentennio a cavallo tra XV e XVI secolo, nonché i nomi dei suoi personaggi. ai quali hanno certamente contribuito la perdita dei documenti d'archivio[N 28] o delle medesime opere d'arte, spesso smembrate quando non distrutte[145].

Come risultato, fino a circa la metà del XX secolo nessun critico d'arte occupatosi dell'analisi di opere prodotte in questo contesto ma migrate altrove col passare dei secoli, comprese personalità quali John Pope-Hennessy, Ulrich Middeldorf e Rudolf Wittkower, non ha mai evocato Brescia come patria stilistica, nemmeno come ipotesi più remota[146]: si vedano, a titolo di esempio, le considerazioni critiche formulate a inizio Novecento sulla Pala Kress, dove il riferimento bresciano non ha alcun modo di apparire[147]. Solo a partire dalla seconda metà del XX secolo, nuovi studi supportati da recuperate fonti d'archivio hanno permesso la riscoperta non solo di Gasparo Cairano, ma dell'intero capitolo del Rinascimento scultoreo bresciano, un panorama comunque ancora lacunoso e con molti aspetti da chiarire[148].

Il silenzio della letteratura coeva

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Tra i silenzi più gravosi vi è certo quello della letteratura artistica locale e coeva agli eventi[149]. Sfavorevole, in primo luogo, è la data della visita a Brescia di Marin Sanudo, potenziale estimatore della fioritura del Rinascimento locale, che vi transita nel 1483, in anticipo di alcuni anni rispetto all'apertura del cantiere del santuario dei Miracoli[150][151]. Marcantonio Michiel, invece, non dedica a Brescia alcun capitolo della sua Notizia d'opere di disegno composta nel 1521: egli, però, nomina comunque Gasparo Cairano dicendolo fratello di "Anzolino Bressano, ovver Milanese"[152], maestro della terracotta, fornendo un prezioso ricordo dello scultore bresciano ad almeno quattro anni dalla morte.

Non vi è alcuna menzione di Gasparo Cairano della cronaca di Elia Capriolo, il quale fornisce solo un vago accenno alla fioritura rinascimentale bresciana di quegli anni e ai suoi protagonisti, "i Pittori, gli Orefici, e gli Scultori, emuli d'Apelle, e di Prassitele", e riservando una lode solo a Stefano Lamberti[153]. Anche l'umanista Vosonio, nel 1498 circa, in un carme in latino dedicato a Brescia ne tesse le lodi con la classica retorica romaneggiante, citando anche la Loggia ma senza nominare alcuno scultore[154]. Allo stesso modo, il nome di Cairano e, in generale, di qualsiasi altro personaggio del panorama scultoreo bresciano dell'epoca non è restituito dai manoscritti di Pandolfo Nassino e Lucillo Ducco, in un vero e proprio silenzio sistematico, quanto incomprensibile[155].

Eppure Gasparo Cairano doveva aver goduto di una certa notorietà post mortem, come dimostra la citazione del Michiel[151]. Un tale oblio è inspiegabile anche alla luce della discendenza del Cairano, per la quale i documenti attestano personalità attive in vari campi artistici per almeno due generazioni[156]: ancora tra il 1545 e il 1561 è registrato in varie fonti d'archivio Gasparo Cairano "il Giovane", pure scultore, figlio di Simone e dunque nipote di Gasparo "il Vecchio", dal quale trae addirittura il nome di battesimo[99][100][N 16].

Una svanita promessa di gloria: la citazione di Pomponio Gaurico

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A Gasparo Cairano viene dedicata un'unica, illustre citazione della storiografia dell'epoca[157]: il De Sculptura di Pomponio Gaurico, edito a Firenze nel 1504[158]. L'umanista offre allo scultore bresciano un lusinghiero memoriale in latino, non casualmente citando il Palazzo della Loggia e l'incomparabile ciclo dei Cesari:

(LA)

«Dignus et qui nominetur Brixiani praetorii architectura et Caesaribus Gaspar Mediolanensis»

(IT)

«Meritano di essere nominati l'architettura del palazzo pretorio di Brescia e i Cesari di Gasparo Milanese»

Questa annotazione conferisce un grande onore allo scultore e ai suoi Cesari, nonché all'intera architettura della Loggia, che ad appena dodici anni dall'inizio del cantiere trovavano posto a fianco dei grandi protagonisti della scultura italiana di tutti i tempi, in una pubblicazione di profonda cultura artistica ed espressamente dedicato a questioni figurative, unico scultore lombardo nominato oltre a Cristoforo Solari[159][160]. Notare come il Gaurico non citi i raffinati intagli del santuario dei Miracoli, bensì l'architettura e i potenti busti all'antica della Loggia, trasmettendo un chiaro segnale di gusto verso la modernità recepita in queste opere[159]. Una vera e propria promessa di gloria, destinata tuttavia a rimanere nelle pagine del De Sculptura: dopo la prima, fortunata edizione fiorentina del 1504, il trattato non sarà più pubblicato in Italia per almeno trecento anni, trovando una certa diffusione solo oltralpe[N 29]. Nessun rimando al Gaurico, infatti, è attestato nelle fonti locali e, in generale, in tutta la letteratura artistica fino al XIX secolo[161].

Il malinteso di Giorgio Vasari e la caduta nell'oblio

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La principale responsabilità della caduta nell'oblio della figura di Gasparo Cairano, e della nascita di tutta una serie di equivoci su di essa, è però da attribuire a Giorgio Vasari[156]. Nelle sue Vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori, nello spazio dedicato ai lombardi, lo studioso afferma di essere stato "ultimamente a Brescia"[162], dopodiché tesse le lodi dei grandi maestri della pittura locale, rilevando come sovente uno spiccato interesse più verso il tema pittorico che altri[161]. La scultura rinascimentale trova un limitato accenno nelle poche parole spese per il luganese Giovanni Gaspare Pedoni, "che ha fatto molte cose in Cremona e in Brescia [...] che sono belle e laudabili"[163], equivocando clamorosamente sull'identità dell'artista. Questo malinteso, di ingente portata per la critica artistica dei secoli a venire, è davvero singolare, dato che il Pedoni è completamente assente dal panorama della Brescia rinascimentale, sia come documenti, sia come opere prodotte[164].

Al momento della visita a Brescia e della compilazione delle pagine ad essa dedicate, Vasari è certo a conoscenza del De Sculptura di Pomponio Gaurico, dove è nominato il "Gaspar Mediolanensis" autore dei Cesari della Loggia[156]. Tuttavia, è probabile che nessun bresciano sia stato in grado di raccontargli di più circa questo scultore, almeno stando all'ignoranza palesata dalle pur erudite fonti locali dell'epoca, tanto più che il gusto scultoreo era ormai radicalmente mutato con la rivoluzione manierista di Jacopo Sansovino[165]. Non casualmente, infatti, l'unico scultore bresciano ricordato dal Vasari è Giacomo Medici, discepolo del Sansovino[156]. Disponendo, in aggiunta, di informazioni sull'attività del Pedoni nella vicina Cremona, probabilmente il Vasari finisce per far coincidere le due personalità, identificando in Gaspare Pedoni luganese, cioè milanese, il "Gaspar Mediolanensis" del Gaurico e, forse, attribuendo l'ignoranza locale all'origine forestiera dello scultore[156]. Con la pubblicazione delle Vite, il nome di Gasparo Cairano viene cancellato dalle nozioni bresciane, storiche e anagrafiche, per almeno duecento anni[166].

Alla fine del XVI secolo la letteratura artistica bresciana, pur interessandosi delle opere del proprio passato, soprattutto la Loggia e il suo ricco palinsesto di sculture, non ha più alcun modo di identificare i nomi degli scultori che le avevano prodotte[167]. Valga come esempio il Supplimento di Patrizio Spini, composto nel 1585 come appendice all'edizione in volgare della cronaca di Elia Capriolo: Spini offre al lettore una lunga digressione sulla Loggia[168], in cui la quasi convulsa esaltazione di ogni dettaglio artistico del palazzo cozza decisamente contro il totale silenzio circa i nomi degli artisti responsabili di tanta magnificenza[167]. Oltretutto, la partecipazione al cantiere del palazzo, riattivato a partire dalla metà del secolo, di grandi nomi quali Jacopo Sansovino, Andrea Palladio e Galeazzo Alessi aveva dirottato l'interesse degli eruditi verso questioni principalmente architettoniche, ponendo in secondo piano i caratteri scultorei[167].

L'ultima citazione cinquecentesca di Gasparo Cairano, curiosamente, non è da ricercarsi a Brescia, bensì a Salò[169]: il Grattarolo, nella sua Historia della Riviera di Salò composta nel 1587 e stampata a Brescia nel 1599, ancora riesce a ricordare "un maestro Gasparo Bresciano" come autore del portale del duomo[170]. Notare, comunque, come si tratti di un semplice ricordo onomastico, completamente disgiunto dalla sua identità storica e artistica, nonché dalle opere prodotte dallo scultore in città[171].

Tra XVII e XVIII secolo

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Giunti al XVII secolo, la letteratura artistica locale si rivolge ormai al capitolo rinascimentale bresciano solo per esaltarne la scuola pittorica e i suoi grandi protagonisti, Moretto, Romanino e Vincenzo Foppa, lasciando nettamente scoperta la fioritura in campo scultoreo senza, tuttavia, cercare alcun rimedio a tale vuoto, quasi come se il problema non si ponesse[172]. Nello stesso periodo, oltretutto, a Brescia come nel resto del nord Italia, si diffonde una particolare tipologia di letteratura artistica locale di stampo antivasariano, volta a riscattare tutte le personalità trascurate nelle Vite[173], ma pure questo nuovo filone non porta a risultati significativi. A Brescia, il più importante testo di questo genere[172] è gli Elogi Historici di Bresciani illustri di Ottavio Rossi, stampato nel 1620, in cui l'autore tesse le lodi di tutti i più celebri pittori bresciani. Tuttavia, l'unico scultore locale citato è ancora il sansovinesco Giacomo Medici, lo stesso nominato da Giorgio Vasari e qualificato addirittura come "uno de' più rari Scoltori d'Italia"[174]. L'idea che produzioni come la facciata di Santa Maria dei Miracoli e i Cesari della Loggia siano di molto antecedenti al Medici non sembra riguardare l'erudito bresciano, anche se ciò potrebbe essere sintomo di una vera e propria incomprensione degli stili precedenti al manierismo introdotto da Sansovino[172]. Viene quindi inaugurata una nuova corrente critica, ossia quella di Giacomo Medici illustre artefice di opere bresciane, con consistenti ricadute nella bibliografia successiva al Rossi[N 30].

Sempre nel XVII secolo, però, hanno inizio i primi bagliori di interesse verso le opere scultoree del Rinascimento bresciano, chiaramente del tutto incomprese ma comunque in grado di suscitare la curiosità della letteratura locale[175]. In primo luogo si ha la guida della città di Bernardino Faino, la più antica in ordine di tempo tra le guide storiche di Brescia. Lo studioso vede l'arca di Sant'Apollonio e le sue "istorie picole del istesso Santo, bellissime", premurandosi di specificare che "non si sa l'autore di quest'opera, essendo cosa anticha"[176]. Allo stesso modo, l'Adorazione Caprioli, che il Faino vede correttamente montata nel perduto sepolcro di Luigi Caprioli in San Giorgio, viene detta "cosa fatta diligentemente, cosa molto anticha"[177]. Simili apprezzamenti per il rilievo Caprioli si trovano nel Giardino della Pittura di Francesco Paglia, scritto tra il 1675 e il 1713. Addirittura, nel capitolo dedicato al Duomo vecchio, dopo aver omaggiato il monumento funebre di Domenico Bollani di Alessandro Vittoria, il Paglia reputa che "sia bene tralasciar certe altre cosette", riferendosi niente di meno che all'arca di Berardo Maggi e al monumento funebre di Domenico de Dominici[178], per ammirare una "arca intagliata di bellissime figurette di candido marmo"[179], ossia l'arca di sant'Apollonio che, in quegli anni, era riposta nella cattedrale invernale. Nella trionfale lode alla Loggia, così come in quella per la facciata di Santa Maria dei Miracoli, il Paglia azzarda anche alcune attribuzioni: per la Loggia, attingendo alla letteratura precedente, coinvolge Bramante e nuovamente Giacomo Medici[180], mentre per il santuario dei Miracoli cita Prospero Antichi e Raffaele da Brescia[181], il primo uno scultore bresciano attivo a Roma alla fine del XVI secolo, il secondo un intarsiatore del legno attivo dalla fine del XV secolo[182].

Considerazioni sullo stesso livello delle precedenti sono elaborate anche da Giulio Antonio Averoldi nella sua guida di Brescia stampata nel 1700[183], nella quale vengono largamente elogiate anche le sculture di San Pietro in Oliveto[184], dalla guida di Francesco Maccarinelli, composta a metà XVIII secolo[185] e, in misura minore, da quella di Giovanni Battista Carboni del 1760[186]. Notevole, comunque, come le Notizie istoriche delli pittori, scultori e architetti bresciani del Carboni siano totalmente lacunose circa gli scultori del Rinascimento locale[187].

Le ricerche di Zamboni e la resurrezione del nome di Cairano

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Dalla metà del XVIII secolo, quindi, si assiste alla nascita di un inedito interesse alla conoscenza dell'arte bresciana e dei suoi protagonisti, presenti e passati, certo favorito da una maturazione culturale in fatto di studi storici[188]. Inoltre, in questo stesso periodo la Loggia viene investita da un piano di rilancio che porterà alla ristrutturazione della piazza e all'erezione della nuova copertura di Luigi Vanvitelli, rimasta incompiuta, una sorta di riscatto dopo il disastroso incendio del 1575 che aveva distrutto il piano superiore del palazzo[189]. Tutto ciò portava in serbo anche un risveglio dell'orgoglio municipalistico bresciano, il quale era imperniato, per sua stessa natura, attorno al palazzo comunale[190]. All'interno di questo rinnovato clima sono dunque da leggersi le Memorie pubblicate da Baldassarre Zamboni nel 1778, a quanto pare sovvenzionate proprio dal Comune[191]. L'opera dello Zamboni rappresenta, di fatto, la prima ricerca storica nel senso moderno del termine affrontata dal panorama letterario bresciano, costruito consultando, interrogando e riordinando documenti e confrontando le fonti con la storiografia e le testimonianze materiali[188]. Affrontando il problema da questo punto di vista, e con questi presupposti, lo Zamboni trascrive e rende nota una enorme quantità di notizie, attingendo prima alle Provvisioni comunali, ancora esistenti, ma soprattutto ai perduti, e all'epoca insondati, bollettari del Comune di Brescia: per la prima volta, uno storico si immerge nei documenti testimoni di una fase storica del tutto dimenticata, nonché travisata, traendone non solo la reale cronologia, ma anche i nomi di tutti i protagonisti[192]. E così, finalmente:

«Le teste imperiali poi per ciò che ho potuto rilevare dai Bullettari della Città sono uscite quasi tutte da due mani. Gasparo da Milano ne ha lavorate ventuna, e Antonio della Porta sei.»

L'importanza della ricerca di Baldassarre Zamboni sta proprio nell'aver trascritto questi documenti, oggi perduti: tuttavia, la gigantesca quantità di dati raccolti gli permise di ricomporre solo una selezionatissima sintesi, che rimane comunque l'unica testimonianza superstite dei fatti e dei nomi in essa riportati[193]. Le rivoluzionarie scoperte dell'erudito vengono quasi subito recepite dalla letteratura artistica italiana e anche d'oltralpe[194][195]. Zamboni studia anche la chiesa di Santa Maria dei Miracoli, limitandosi però a consultare il solo archivio comunale che non custodiva i libri contabili, collocati invece nell'archivio della stessa chiesa[194]. I documenti recuperati, quindi, lo portano a datare l'esecuzione della facciata nel 1557, in sovrapposizione a una "Cappella fatta tumultuariamente, e con estrema sollecitudine"[196] attorno al 1488: va così persa questa preziosa occasione per trascrivere informazioni circa quest'altra fabbrica, che andranno a loro volta perdute un secolo più tardi[197].

Ripresa del malinteso vasariano

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Le nuove scoperte condotte a Brescia, però, erano ben lontane dal riportare le opere e i nomi del Rinascimento bresciano agli onori della letteratura artistica che, incredibilmente, stava per ricadere in un nuovo, lungo capitolo di errori e malintesi. Nel 1774 vengono pubblicate le Notizie istoriche de' pittori, scultori ed architetti cremonesi di Giovanni Battista Zaist, in cui l'autore, trattando di Gaspare Pedoni, muove il passo verso Brescia per cercare conferma alla flebile citazione del Vasari[198]. E così, la facciata del santuario dei Miracoli viene completamente attribuita allo scalpello del Pedoni, in quanto "sembra che quest'Opera corrisponda all'altre sue, che abbiam qui esistenti in Cremona, e fatte da lui circa gli stessi tempi, siccome così parla Giorgio Vasari"[199]. L'attribuzione elaborata dallo Zaist ha pesantissime ricadute sulla letteratura artistica non solo cremonese, ma anche bresciana, la quale tra l'altro necessitava per colmare il vuoto ancora aperto, o quasi, sulla paternità dell'opera. La citazione viene ripresa più che altro dalla stampa divulgativa e turistica, soprattutto dal XIX secolo, e passata più prudentemente dai testi critici, senza tuttavia mai negarla[200].

Si arriva quindi al termine del XVIII secolo con un panorama conoscitivo della realtà rinascimentale scultorea bresciana più avanzato rispetto al passato, ma forse anche più confuso da una vera e propria dissociazione critica: lo Zamboni ha ormai restituito senza alcun dubbio la paternità delle sculture della Loggia al Cairano, quale principale artefice di esse, e a tutti gli altri artisti che vi avevano preso parte, mentre sul santuario dei Miracoli grava ancora l'errore vasariano, tornato alla ribalta dall'attribuzione, del tutto infondata, dello Zaist[201].

Guide e studi ottocenteschi

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Le analisi critiche ottocentesche vengono inaugurate dalla Storia della scultura di Leopoldo Cicognara, precisamente dal secondo volume pubblicato nel 1816, contenente il capitolo sui lombardi[201]. Incredibilmente, dopo aver parlato dell'attività cremonese di Gaspare Pedoni, il Cicognara si sposta su Brescia e afferma:

«L'altro celebre ornatista e scultore Cristoforo Pedoni, probabilmente figlio del nominato, lavorò molto in Brescia nell'elegante vestibolo della Madonna dei Miracoli.»

L'attribuzione dello storico contiene molte stranezze: in primo luogo, non è chiaro per quale motivo egli faccia ricadere la facciata bresciana su Cristoforo Pedoni, figlio di Gaspare, che tra l'altro all'epoca forse non era nemmeno nato[201]. Ma soprattutto, è questo l'unico accenno alla parabola rinascimentale bresciana. Non vi è traccia di Pomponio Gaurico, del Michiel, e nemmeno delle recentissime scoperte di Baldassarre Zamboni. La situazione assume caratteri paradossali nel momento in cui, centocinquanta pagine dopo, dimostra non solo di conoscere lo Zamboni ma, dopo averlo elogiato per la minuziosità con cui ha investigato negli archivi bresciani, afferma inoltre:

«Egli [Baldassarre Zamboni] enumera una cinquantina di scultori per le pilastrate [...] e altri ornamenti della gran sala detta del palazzo pubblico nella loggia eretta dopo la metà del 1500, e indica le più minute circostanze, gli accordi fatti, i prezzi d'ogni lavoro, ove i nomi si conservano d'artisti non volgari e distinti, come vedesi nelle ricompense laute ottenute, distinguendosi fra questi quell'Antonio Maria Colla padovano e quel Ludovico Ranzi ferrarese»

Il Cicognara equivoca praticamente su tutto, traendo dallo Zamboni, che pur dimostra di conoscere nel dettaglio, solo date e nomi riguardanti il cantiere tardo cinquecentesco della Loggia, tralasciando in modo inspiegabile tutti i dati relativi alla fase quattrocentesca[202]. In aggiunta, una volta citati i due scultori forestieri, lo storico vi affianca il noto Giacomo Medici[203], deducendolo nuovamente da Giorgio Vasari e completando così una ricostruzione che allo stesso tempo riesce ad essere sia basata su fonti recenti, sia errata e fuorviante[N 31].

Nel 1826 Paolo Brognoli, erudito in campo artistico e collezionista, pubblica la prima guida ottocentesca di Brescia. Per la corretta attribuzione e datazione delle opere trattate, lo studioso procede a una serie di ricerche archivistiche, che lo portano per la prima volta a elaborare precise considerazioni stilistiche su quanto osservato[204]. Apprezza il Mausoleo Martinengo, confessando che "non mi è riuscito di venire a cognizione degli abili artisti di questi lavori"[205]. Per l'arca di sant'Apollonio conduce un'accurata ricerca nell'archivio comunale, che gli permette di ricostruire parzialmente le circostanze della commissione[206], tuttavia non riesce a trovare "il contratto collo scultore che ha lavorato quest'arca [...], interessandomi ciò in particolare per aver io pure nelle mie stanze un monumento dello stesso scalpello stato lavorato nel 1494"[207], "coll'iscrizione che ricordava la memoria di Luigi Caprioli"[208]. Il Brognoli sta parlando nientemeno che dell'Adorazione Caprioli[209], che per la prima volta in assoluto collega scientemente con un'altra opera del Cairano, senza basarsi su precedenti fonti letterarie, bensì su considerazioni esclusivamente stilistiche[204]. Lascia tuttavia in sospeso la problematica attributiva della facciata del santuario dei Miracoli, lamentandone le carenze conoscitive e senza tener conto della collocazione cremonese avanzata da Zaist e Cicognara[204].

Subito dopo la pubblicazione della guida del Brognoli, l'Ateneo di Brescia commissiona ad Alessandro Sala una nuova guida, pubblicata nel 1834. Su ammissione dello stesso autore, l'opera si prepone di offrire solo un pratico strumento di supporto ad uso turistico, senza particolari pretese di spessore informativo. Dispiace molto un presupposto di questo tipo, dal momento che il Sala, dovendo dare informazioni circa la facciata di Santa Maria dei Miracoli, consulta forse per la prima volta l'archivio della chiesa, traendone nomi e fatti restituiti però con la massima sintesi[204]. Tuttavia, le informazioni date dal Sala sono telegrafiche quanto importantissime:

«Si raccoglie soltanto da essi [i "libri della fabbrica"] che i quattro dottori posti ne' peducci della prima cupola, furono eseguiti da Antonio della Porta, il quale fece anche i due eremiti Antonio, e Paolo in basso rilievo; non che gli Angeli posti sul cornicione della medesima cupola, sopra la quale Gaspare da Cairano mise i dodici Apostoli.»

Il Sala ammette quindi l'esistenza di certi "libri della fabbrica", denunciando che in essi vi erano nominati molti artisti ai quali però non erano attribuite con precisione le opere eseguite[210]. Non è detto esplicitamente, ma è chiaro che, attingendo dalle medesime fonti, è in grado anche di scrivere che "il primo architetto di questo tempio fu certo Maestro Jacopo"[N 32], informazione importantissima e unica dal punto di vista letterario[211]. La chiave di composizione della guida, tuttavia, lo porta non solo ad omettere ogni datazione, ma anche a non formulare qualsivoglia collegamento stilistico con i documentati e omonimi Gasparo da Milano e Antonio della Porta attivi alla Loggia, né ad accorgersi della coincidenza onomastica tra il citato Maestro Jacopo e il Jacopo da Verona attivo sempre alla Loggia secondo lo Zamboni: va così persa l'ennesima occasione chiarificatrice, che tra l'altro avrebbe potuto fondarsi sui basilari, quanto insondati, "libri della fabbrica" di Santa Maria dei Miracoli[211].

Tutto ciò porta la successiva bibliografia a non dare molta attenzione a quanto riportato dal Sala o, meglio, a non sostituire con le poco sostanziose scoperte del Sala l'intera letteratura artistica precedente, che rimane come punto di riferimento da integrare con i nomi avanzati dall'erudito bresciano. Di fatto, si inaugura la tendenza a separare criticamente la facciata del santuario, sulla quale rimane arroccato il Pedoni, dalle sculture interne[211]. Emblematico in questo senso è il passo della guida di Brescia di Federico Odorici, del 1853, relativo alla chiesa dei Miracoli:

«Se le indagini del Sala per conoscere l'autore dei bellissimi e marmorei candelabri di quella fronte riuscirono indarno, godiamo nominarlo qui risultandoci da un'opera del Picenardi[N 33], e fu Gian Gaspare Pedoni. Nell'interno sono scolture di Antonio della Porta e Gaspare da Cairano; ma non è facile determinare fra le molteplici di vario stile quali sieno per singolo i loro autori.»

In questa intricata confusione attributiva, pure parzialmente corretta, l'unico nome davvero celebrato rimane comunque quello del Pedoni, dato che l'Odorici ha modo di apprezzare molto più l'ornato all'antica della facciata che le statue interne, solamente nominate assieme ai loro autori i quali, in ogni caso, non vanno oltre la segnalazione onomastica[211]. Nessuna congettura stilistica o attributiva è infatti condotta sulle decorazioni della Loggia, né sull'arca di sant'Apollonio, né sul Mausoleo Martinengo, elogiati esclusivamente per il pregio formale[212].

Entusiasmo rinascimentale nella Brescia postunitaria

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L'unità d'Italia, come per altre città italiane, segna anche per Brescia l'inizio di una nuova era delle istituzioni preposte alla tutela del patrimonio artistico e monumentale, nonché alla sua valorizzazione con mirati interventi di restauro, recupero o, talvolta, distruzione di quanto non ritenuto degno di conservazione[213]. Nel 1862 viene nominata un'apposita commissione municipale di studio preposta al restauro della Loggia, danneggiata durante i bombardamenti austriaci delle Dieci giornate di Brescia[214], con un netto rifiuto alla conservazione dell'incompiuto attico di Luigi Vanvitelli, giudicato da Giuseppe Zanardelli una "attica strana e barocca"[215]. Similmente, la predilezione per le testimonianze rinascimentali dirotta l'interesse della commissione verso la facciata di Santa Maria dei Miracoli, mentre nel 1863 la stessa commissione raccomanda la demolizione della chiesa di San Domenico, poiché data la sua architettura seicentesca "certo se ne direbbe un peccato la conservazione"[216]. Tuttavia, il rinnovato entusiasmo per il Rinascimento bresciano su tutti i fronti non ottiene, in parallelo, uno sviluppo delle conoscenze circa i suoi maestri[217].

Preceduto da una citazione del Cocchetti nel 1859[218][219], è nel Dizionario degli artisti bresciani di Stefano Fenaroli del 1877 che compare per la prima volta, nella letteratura artistica bresciana, lo scultore Maffeo Olivieri, a cui il Fenaroli, basandosi sullo stile dei due candelabri bronzei della basilica di San Marco a Venezia, firmati e datati, attribuisce anche i medaglioni del Mausoleo Martinengo[220]. Questa prima apertura critica dell'Olivieri verso le opere del Rinascimento bresciano avrà pesanti ricadute all'inizio del XX secolo, come si vedrà più avanti. Lo stesso dizionario del Fenaroli, comunque, rappresenta un caposaldo per le conoscenze sulla storia dell'arte bresciana[217]: per la prima volta vengono condotte ricerche documentarie negli archivi comunali, approfondendo quanto già rinvenuto dallo Zamboni, con scoperte di fondamentale importanza per artisti quali Moretto, Romanino, Floriano Ferramola, Stefano Lamberti e altri, riportate in modo discorsivo nella prima sezione del Dizionario. Dopo una sezione dedicata ai documenti, il volume si chiude con un'appendice in cui sono elencati schematicamente i "nomi degli artisti bresciani dei quali non si conoscono opere". Di fronte a un'opera letteraria tanto completa, stupisce l'ormai reiterata assenza del Cairano, del Tamagnino e di qualsiasi personalità in campo scultoreo dell'epoca. Gasparo da Milano non è citato in nessun luogo, nemmeno tra gli artisti sconosciuti, pur essendo noti i documenti d'archivio che ne riportano il nome[221]. L'unico scultore citato nell'appendice di chiusura è Giovanni dell'Ostello, tra l'altro citato erroneamente come "Iacopo", ricordato come scultore nel 1496 di un capitello della Loggia "assieme ad altro scultore veronese"[222][N 34].

Ormai pesantissima quanto inspiegabile, questa assenza di nomi e fatti della scultura rinascimentale bresciana si ripete inesorabile in una serie di testi successivi. Andrea Cassa, nei suoi Appunti su alcuni monumenti bresciani, tra cui Santa Maria dei Miracoli e la Loggia, dimostra di aver consultato l'archivio del santuario[223] ma non nomina né Gasparo Cairano né il Tamagnino, tessendo piuttosto le lodi di Giovanni Gaspare Pedoni per il mirabile lavoro sulla facciata[224]. Tra l'altro, non trovando il nome del Pedoni nell'archivio del santuario, e dunque a supporto della propria tesi, il Cassa falsifica il testo di Baldassarre Zamboni, dicendo che quest'ultimo aveva trovato il nome di Gaspare Pedoni nell'archivio della Loggia, quando l'unico Pedoni segnalato dallo studioso è il figlio Cristoforo Pedoni, attivo su alcune porzioni del cornicione superiore nella seconda metà del XVI secolo[225]. Ma anche Giuseppe Merzario, nell'importante testo I maestri comacini del 1893, non ha dubbi nell'identificare in Gaspare Pedoni il Gasparo dei documenti bresciani, riconfermandolo quale assoluto protagonista della scultura bresciana del periodo[226].

Luigi Arcioni e il primo dietro front critico

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Spetta all'architetto Luigi Arcioni mettere ordine in questo disordinato panorama, sfatando i miti e dando il giusto peso alle certezze. I contributi dell'Arcioni, al tempo editi solo parzialmente sottoforma di una serie di articoli tra il 1896 e il 1897, riguardano la Loggia e il santuario dei Miracoli, i due monumenti il cui restauro interessava la commissione municipale preposta alla conservazione dei monumenti, della quale l'Arcioni era membro[221]. Lo studioso opera una vera e propria resa dei conti, raccogliendo le fonti sicure ed escludendo tutto ciò che non poteva essere verificato o che, in alcuni casi, era possibile smentire. Il convinto presupposto porta a importanti risultati già dal primo articolo sulla storiografia del santuario dei Miracoli, pubblicato nel 1896: cita Gasparo Cairano, Antonio della Porta, Giovanni e Cristoforo dell'Ostello, rilevandone la presenza anche nel cantiere della Loggia[227]. Al contrario, esclude la paternità di Gaspare Pedoni sulla facciata, non solo per l'assenza del suo nome nei documenti, ma per la prima volta sulla base di raffronti stilistici con le sue opere cremonesi note, arrivando alla seguente conclusione:

«Che Gian Gaspare Pedone oriundo di Lugano abbia lavorato ai Miracoli, ci par cosa poco meno che certa, ma quale e quanto lavoro vi abbia fatto assolutamente non si può dire, mancando precise indicazioni, né essendo sufficienti i limitati confronti.»

Interpretando correttamente le fonti d'archivio, evita poi di attribuire la facciata a Gasparo Cairano e Antonio della Porta, segnalati come figuristi e non come decoratori. Li riconosce inoltre come gli stessi autori del ciclo di Cesari sui fronti della Loggia e ne apprezza l'avvenuta evoluzione artistica[228]:

«Gaspare da Cairano e Antonio della Porta, autori degli apostoli, degli angeli e dei dottori della prima cupola, e molto probabilmente dell'altre sculture fra i capitelli della facciata, e di quelle del coro, qualche anno dopo son chiamati ad eseguire i busti imperiali del nostro palazzo della Loggia. Ed è fatto interessante e bello osservare il progresso di questi artefici verso il nuovo ideale dell'arte.»

Per la prima volta nella letteratura artistica, unifica Antonio della Porta e lo scultore soprannominato Tamagnino in un'unica personalità artistica[228] e, fatto a sua volta inedito, collega il Maestro Jacopo rinvenuto da Alessandro Sala, rimasto finora ignorato, con il Jacopo da Verona citato nei documenti della Loggia[229].

Mentre Luigi Arcioni pubblica i suoi importanti risultati sulla scultura rinascimentale bresciana, il docente milanese Alfredo Melani pubblica in "Arte e Storia", nel 1899[230], un articolo sul mausoleo Martinengo, dove vengono avanzate con una certa convinzione attribuzioni al di fuori di qualsiasi supporto documentario e bibliografico:

«Stefano Lamberti pel disegno e Giacomo Faustinetti per l'esecuzione. E siccome il monumento è adorno di medaglioni e bassorilievi in bronzo, si attribuisce la loro fusione ad Andrea Baruzzi, altro artista bresciano.»

Per la chiesa dei Miracoli, invece, arriva a battezzare un inesistente "Jacopo del Sala" traendolo dall'Arcioni, quando quest'ultimo si riferiva semplicemente al Maestro Jacopo rinvenuto da Alessandro Sala nel 1834[231].

Meyer: Cairano torna sulla scena della critica

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La prima svolta significativa per la storiografia della scultura rinascimentale bresciana è il secondo volume del Oberitalienische Frührenaissance di Alfred Gotthold Meyer, edito a Berlino nel 1900: il testo dedica un intero capitolo alla scultura e all'architettura bresciana[232], individuandole per la prima volta come specifico caso critico da affrontare separatamente dal più ampio contesto lombardo, con un'analisi dettagliata delle opere e della bibliografia, anche locale. Tuttavia, i tempi non ancora maturi portano lo studioso a commettere diversi errori di datazione e attribuzione, nonché alcune omissioni, il tutto a causa dell'influenza della letteratura artistica a lui contemporanea[233]. In primo luogo, Meyer riesuma il "Gaspar mediolanensis" di Pomponio Gaurico e dello Zamboni e lo separa dal Gaspare Pedoni citato da Vasari, che tiene comunque in considerazione[234]. Traendo le proprie conclusioni sui vari documenti pubblicati localmente, dal Sala all'Arcioni, delinea quindi la scuola bresciana come separata in due differenti settori operativi di decoratori e figuristi: a capo della prima categoria assegna Gaspare Pedoni e Stefano Lamberti, a capo della seconda Gasparo Cairano e Antonio della Porta[235].

Dichiarando una precisa predilezione per Gasparo Cairano[234], il Meyer procede alla ricostruzione di un catalogo di opere, note e supposte, ognuna inserita in un determinato contesto di precisi riferimenti artistici lombardi: ai documentati Apostoli del santuario dei Miracoli e ai Cesari della Loggia aggiunge l'arca di sant'Apollonio, l'Adorazione Caprioli e l'altare di san Girolamo in San Francesco[236], riconoscendone per la prima volta l'assoluta originalità nella trasposizione cilindrica della Zuffa degli Dei marini del Mantegna[237]. Meyer suppone anche una partecipazione del Cairano al mausoleo Martinengo, tuttavia l'annoso equivoco sulla datazione del monumento, allora collocato tra il 1526 e il 1530, porta lo studioso ad assegnarlo quasi completamente a Stefano Lamberti, che vede anche come autore degli ornamenti in facciata a Santa Maria dei Miracoli assieme al Pedoni[238]. Dalla trattazione, come già accennato, sono omesse opere significative quali i rilievi di San Pietro in Oliveto e, soprattutto, il portale del duomo di Salò, che forse lo studioso tedesco non conosceva[239].

La pesante cappa di sfortuna critica gravante sulla storiografia della scultura rinascimentale bresciana e sulla figura di Gasparo Cairano, artista che articolo dopo articolo, libro dopo libro assumeva spessore e importanza sempre maggiori, doveva però ricadere anche sull'originale ricostruzione del Meyer. La redazione in tedesco arcaico limita molto la diffusione del testo, che a Brescia conosce infatti scarsissimo successo, arrivando ad essere addirittura ignorato[239].

Nel primo trentennio del XX secolo, comunque, il testo del Meyer e le altre fonti bresciane provocano ricadute piuttosto diversificate sulla critica che, secondo differenti chiavi di lettura, affronta l'argomento. Francesco Malaguzzi Valeri, nel 1904, è uno dei primi a tenere conto del contributo del Meyer[234] nella sua monografia su Giovanni Antonio Amadeo del 1904, trattando tuttavia della questione bresciana solo in un breve e sbrigativo passo[240]. Il volume dedicato a Brescia della collana "Italia artistica", redatto nel 1909 da Antonio Ugoletti, si sofferma soprattutto sulla Loggia e su Santa Maria dei Miracoli, attingendo a selezionati documenti[241]. Forse per la prima volta dopo alcuni secoli, non si trova alcuna citazione di Gaspare Pedoni, fatto significativo trattandosi di un testo di impronta turistica e divulgativa[239]. Al contrario, la guida di Brescia di Giorgio Nicodemi, edita nei primi anni 1920, ricostruisce un quadro decisamente disorganico e frammentario della scultura rinascimentale bresciana, avanzando raffronti stilistici molto generici e senza mai nominare né Gasparo Cairano, né il Tamagnino, né alcun altro documentato scultore dell'epoca[N 35]. Il risultato complessivo è decisamente povero e superficiale, soprattutto in relazione alla letteratura artistica a lui contemporanea, che stava ormai approcciandosi alla questione bresciana in modo totalmente differente[239].

Lo scarso interesse per la statuaria bresciana rinascimentale dimostrato da Giorgio Nicodemi in quest'opera si palesa con ricadute maggiori nella sua monografia sul Bambaia del 1925, dove pubblica le due statuette di Virtù assegnandole a questo scultore[242] senza accorgersi dell'identità quasi grammaticale tra esse e le figure sull'arca di sant'Apollonio[243]. Adolfo Venturi, invece, nella Storia dell'arte italiana del 1924, si rivolge alla Loggia e al santuario dei Miracoli esclusivamente come problemi di architettura di fine XV secolo, senza una parola sulle sculture[244], mentre Silvio Vigezzi, ne La scultura lombarda del Cinquecento del 1929, riporta la facciata del santuario dei Miracoli sotto lo scalpello di Gaspare Pedoni, al quale attribuisce inoltre, senza alcuna fonte documentaria o significativi raffronti stilistici[243], l'arca di sant'Apollonio, il monumento funebre di Nicolò Orsini e il mausoleo Martinengo[245].

La ricerca archivistica di Paolo Guerrini

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Nel 1930 Paolo Guerrini, il principale studioso di fatti bresciani della prima metà del XX secolo, pubblica nel primo volume delle Memorie storiche della Diocesi di Brescia il contenuto di una serie documenti di fondamentale importanza per la storiografia della scultura rinascimentale bresciana[243]. In primo luogo, riporta diverse polizze di pagamento per alcuni lavori di scultura eseguiti in Santa Maria dei Miracoli nel 1493, rinvenute dallo studioso nell'archivio della famiglia Brunelli dove si trovavano grazie al ruolo di Deputato alla fabbrica della chiesa di Gaspare Brunelli[246]. Dopo aver analizzato queste polizze, il Guerrini pubblica il contenuto del Memoriale Martinengo, da lui rinvenuto nell'archivio di Santa Maria dei Miracoli[247]: il documento, oggi perduto e edito esclusivamente nel testo del Guerrini, da cui l'importanza dello stesso, rappresenta una copia di diversi dati contabili della fabbrica del santuario, contenente i pagamenti a Cairano e Antonio della Porta per i due cicli statuari all'interno. Il contributo di Paolo Guerrini fornisce pertanto sicuri documenti dell'epoca sui quali fondare datazioni e attribuzioni delle sculture figurate del santuario ed è l'unico nel suo genere, tralasciando le telegrafiche informazioni fornite dal Sala un secolo prima[243].

In aggiunta, l'archivio della famiglia Brunelli aveva già consentito a Paolo Guerrini nel 1926 di scoprire un documento dove si attestava "M. Gaspare da Milano", identificato dallo studioso nel Pedoni, autore del monumento funebre della famiglia Brunelli in San Francesco, aggiungendo un ulteriore tassello alla storiografia del Cairano, il cui nome è a questo punto noto alla critica e il suo catalogo, nonché le sue capacità artistiche, acquistano poco a poco sempre più spessore[248].

Il grande malinteso novecentesco: Maffeo Olivieri

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Assente da ogni fonte letteraria e bresciana dell'epoca, edita o manoscritta[249], il nome di Maffeo Olivieri affiora per la prima volta nella letteratura artistica nel 1847, quando la sua firma viene rilevata da Pietro Selvatico sui due candelabri bronzei della basilica di San Marco a Venezia[250]. Lo studioso, giustamente, lamenta l'impossibilità di reperire informazioni in merito a questo scultore. Trent'anni dopo, come già detto, Stefano Fenaroli rende noto come Maffeo Olivieri sia effettivamente citato nell'anagrafe bresciana del 1534 e ne ipotizza la paternità sui bronzi del mausoleo Martinengo[220], proposta che rimane senza seguito[249]. Bode e Planiscig, nei loro approfonditi studi sulla bronzistica dei primi del XX secolo, gli attribuiscono alcune statuette[251][252], mentre Hill, nel 1930, lo identifica nel "Maestro del 1523", autore di una serie di medaglie[253]. Rimane invece inizialmente sconosciuta alla critica internazionale[254] la scoperta di Giuseppe Papaleoni, pubblicata a Trento nel 1890, che Maffeo Olivieri era anche l'autore dell'elaborata ancona lignea dell'Assunta di Condino, come dimostrato dal contratto datato 1538[255].

Si limitano a ciò le conoscenze sull'Olivieri all'inizio del XX secolo, prima dell'incredibile trasformazione di questo scultore nell'assoluto protagonista della scultura rinascimentale bresciana. Le eventuali potenzialità di questo artista evidentemente poliedrico, tuttavia completamente assente dalle fonti dell'epoca, vengono captate per la prima volta da Antonio Morassi in un articolo del 1936[254]. Lo studioso, convinto di essere al cospetto di un autore decisamente importante e tutto da scoprire, si reca a Brescia alla ricerca di opere di rilievo, che una personalità di questo tipo doveva avere sicuramente lasciato. Perciò:

«Andavo così in giro per le chiese del Bresciano e di Brescia, dove egli aveva tenuto bottega e donde forse mai per lungo tempo si mosse, sempre alla ricerca del mio autore; e già disperavo, risultando infruttuosa anche qualche indagine archivistica, di rintracciare le sue orme, quando m'avvenne di trovarmi al Museo Cristiano, nella sconsacrata chiesa di Santa Giulia. [...] Fermai la mia attenzione su quell'insigne capolavoro di scultura bresciana che è il mausoleo del generale Marc'Antonio Martinengo. Ne osservavo [...] lo strano sapore di codesto stile in cui affiorano dei substrati gotici, misti a precorrimenti barocchi, ch'è proprio dell'arte decorativa bresciana del Cinquecento. E pensavo alle relazioni architettoniche del monumento col portale di Santa Maria dei Miracoli, cogliendovi alcuni fili conduttori che ben ne chiariscono le origini settentrionali, quando, avvicinandomi ad esaminare i medaglioni bronzei incassati nei plinti, ebbi la sensazioni di trovarmi di fronte a creature del maestro che andavo ricercando. La somiglianza, anzi, la parziale identità, di queste figure con quelle sedute nelle nicchiette dei candelabri veneziani, che ben m'erano rimaste negli occhi, mi davano la fiducia d'esser giunto, alfine, a buon porto. [...] Probabilmente dovevano appartenere a lui stesso anche i bronzei pannelli quadrati del sarcofago, nonché il fregio trionfale nei quali era evidente l'affinità stilistica colle figure di Condino. Mi rimaneva invece qualche incertezza circa la possibile assegnazione a Maffeo della parte marmorea.»

A questo punto dell'articolo, il Morassi è già convinto della paternità dell'Olivieri sui bronzi del mausoleo Martinengo, mentre ha ancora dubbi sulla parte marmorea, dubbi che saranno sciolti più avanti, nello stesso articolo, per via puramente deduttiva. Notare inoltre che anche il Morassi risente dell'equivoco sulla datazione del monumento, generalmente legato alla sepoltura del generale Marcantonio Martinengo, morto nel 1526, il che va in aiuto dello studioso per il raffronto con i candelabri veneziani datati 1527[254]. Oltretutto, il Morassi equivoca anche la proposta di Stefano Fenaroli di assegnare all'Olivieri i bronzi del mausoleo, affermando che lo studioso bresciano doveva averne desunto il nome da documenti dell'epoca, quando ciò non era palesemente possibile dato che, in tal caso, il Fenaroli non avrebbe esitato a inserirli nell'appendice documentaria del suo Dizionario[256]. Dopo aver paragonato le arche di sant'Apollonio e di san Tiziano, il Morassi procede alla ricostruzione del contesto culturale entro il quale l'Olivieri doveva essersi formato:

«Quali fossero i suoi maestri nella plastica, è difficile dire. Le relazioni della sua arte coll'atmosfera pittorica è palese, e su ciò ritorneremo. Mancano invece nomi di scultori bresciani dei quali si possa trar qualche luce sul nostro artista. Che Brescia annoverasse, intorno al 1500 - quando cioè poteva avvenire l'educazione di Maffeo - esimi scultori, non è risaputo. Ne è probabile che vi esistessero, poiché per l'opera più significativa di quel tempo, la decorazione plastica della chiesa dei Miracoli, giunsero a Brescia intagliatori comacini di tendenze stilistiche alquanto affastellate [...]. La facciata dei Miracoli, col suo fine lavorio di bassorilievi [...], costituiva pertanto, e certo costituì per l'Olivieri, un modello di prim'ordine. [...] Ma se il senso architettonico-decorativo dell'Olivieri (anche nei candelabri veneziani, oltreché nel mausoleo Martinengo) è di pretto indirizzo lombardo, non altrettanto può dirsi delle parti figurali. Il trattamento largo, morbido, movimentato delle di lui figure, spesso modellate con sintesi ed abbreviature, presuppone l'abbandono di quella corrente naturalistica che fa capo all'Amadeo e al Briosco [...]. L'arte dell'Olivieri si sviluppa in una fase quanto mai interessante dell'arte figurativa bresciana; e la sola pittura può fornirci la chiave per intenderla.»

Le affermazioni elaborate dal Morassi sono quanto mai discutibili, soprattutto sulla base delle conoscenze ormai acquisite in quegli anni sulla scultura rinascimentale bresciana[257]. Ignorati in tronco i documentati scultori attivi a Brescia a cavallo del 1500, la cui esistenza è addirittura messa in dubbio, pone la pittura come unico riferimento dell'Olivieri: non c'è Pomponio Gaurico, né Baldassarre Zamboni, né Alessandro Sala, né Luigi Arcioni, né il Meyer, né il Guerrini. Tra l'altro, come già detto, alla fine dell'articolo il mausoleo Martinengo è ormai finito sotto il solo nome di Maffeo Olivieri, a cui il Morassi mette letteralmente in mano lo scalpello[257].

Nel volume del 1939 dedicato a Brescia del Catalogo delle cose d'arte e d'antichità d'Italia, Antonio Morassi non ha più alcun dubbio nell'attribuire all'Olivieri la qualifica di scultore e, pertanto, procede alla definizione del suo catalogo di opere bresciane in marmo, di proporzioni quantitative e qualitative molto maggiori rispetto alle medaglie e all'ancona lignea fino a quel momento assegnate[257]. Il mausoleo Martinengo diventa "opera importantissima, certamente di Maffeo Olivieri"[258]. L'arca di sant'Apollonio viene classificata "forse opera giovanile di Maffeo Olivieri, come si giudicherebbe dalle stile, confrontando l'arca col monumento funerario del Martinengo"[259]. Per analogie col mausoleo, anche l'altare di san Girolamo in San Francesco diventa "probabilmente opera di Maffeo Olivieri"[260]. Alla mano di Maffeo Olivieri vengono inoltre attribuiti i monumenti funebri Ducco, Riario e Averoldi nella chiesa dei Santi Nazaro e Celso[261].

In un panorama decisamente orientato verso l'assoluta autorità dell'Olivieri, tutto ciò che non è riconducibile al suo stile non trova l'interesse del Morassi, che omette completamente ogni fonte archivista a riguardo delle singole opere[262]. Mette in dubbio la presenza di Gaspare Pedoni sulla facciata di Santa Maria dei Miracoli, ma evita di citare Gasparo Cairano e il Tamagnino, documentati nove anni prima dal Guerrini quali autori di oltre venti statue all'interno del santuario[263]. Ignora nuovamente Paolo Guerrini e il da lui rinvenuto "M. Gaspare da Milano" classificando il monumento funebre Brunelli come "bella opera di scultore bresciano sullo stile del Lamberti"[264], mentre l'Adorazione Caprioli diventa "buona scultura, in cui è evidente l'influsso dell'Amadeo"[265]. Mancano però "quella snellezza di proporzioni" e "quel senso ritmico e scattante" e perciò il rilievo è relegato a un anonimo "autore bresciano dei primi anni del 1500, scolaro dell'Amadeo"[265]. Stronca infine l'arca di san Tiziano, giudicata "non molto fine"[266].

Dalla ricostruzione di Antonio Morassi, per certi versi quasi irragionevole, il complesso panorama di correnti e artisti della scultura rinascimentale bresciana risulta minimizzato e affrontato con molta superficialità, nonché imperniato attorno a un bronzista e intagliatore del legno ribattezzato maestro del marmo, con un catalogo di opere fondato unicamente sull'attribuzione a costui del mausoleo Martinengo[262]. Le conseguenze dell'errata rielaborazione del Morassi sono pesantissime e si concretizzano in una serie di ricadute in ambito critico. Il primo a cadere nell'equivoco è Gaetano Panazza che, nel catalogo dei Musei civici di Brescia del 1958, trova "felice" l'attribuzione all'Olivieri del mausoleo Martinengo[267]. Anche nella fondamentale Storia di Brescia, edita da Treccani nel 1963, l'occasione per mettere definitivamente ordine nella storiografia dell'epoca va parzialmente persa nel momento in cui Adriano Peroni mantiene inalterato catalogo e ruolo artistico di Maffeo Olivieri, basati sulla "ben fondata ricostruzione critica del Morassi"[268] che, oltretutto, viene vista come risposta naturale alla lacuna relativa agli anni giovanili dell'artista. Il contributo del Peroni rimane comunque di elevatissimo spessore culturale, soprattutto per aver inaugurato una chiave di lettura critica per le opere scultoree in grado di sorpassare le questioni attributive, coinvolgendo temi più ampi quali la ricostruzione del contesto umanistico entro cui si verificarono i grandi cantieri della Brescia rinascimentale[269][270]. Oltre a Maffeo Olivieri, il Peroni è in grado di identificare almeno altri due protagonisti della scultura dell'epoca, ossia Gasparo Cairano e il Tamagnino, assegnando a ciascuno le opere documentate[271]. La rilevanza artistica di quanto attribuito all'Olivieri, tuttavia, fa in modo che sia quest'ultimo membro del trio ad emergere nettamente[272].

Questa posizione preminente assunta da Maffeo Olivieri decade infine nel 1977, quando Camillo Boselli, nel Regesto artistico dei notai roganti in Brescia dall'anno 1500 all'anno 1560, frutto di ricerche nell'allora insondato fondo notarile dell'Archivio di Stato di Brescia, oltre a ricostruire parzialmente l'albero genealogico dei Cairano[273] pubblica una serie di documenti fondamentali per ricostruire la commissione del mausoleo Martinengo, a partire dal contratto del 1503 tra Bernardino delle Croci e i fratelli Francesco e Antonio II Martinengo di Padernello, con altri documenti successivi fino al 1516[274]. La fabbrica del monumento viene quindi retrodatata di quasi vent'anni, viene esclusa la connessione con le esequie di Marcantonio Martinengo della Pallata, che vi troverà sepoltura solo in seguito, e soprattutto cade l'attribuzione a Maffeo Olivieri di questa e di tutte le altre opere a lui assegnate dal Morassi, secondo una ricostruzione che si fondava appunto sulla paternità del mausoleo[275]. I documenti non risolvono tuttavia l'attribuzione delle parti lapidee, che rimane ancora oggi in sospeso. Al contrario, nella seconda metà del XX secolo sono emersi, da archivi civili e ecclesiastici, numerosi documenti che confermano l'attività di Maffeo Olivieri come intagliatore del legno, assieme ad alcune opere a lui attribuite con sicurezza[276][277]. La questione del Maffeo Olivieri artista del marmo viene definitivamente chiusa nel 2010 da Vito Zani che, dopo una lunga trattazione, conclude:

«Nessuno sembra essersi mai domandato perché di questo presunto protagonista bresciano del marmo non siano emersi a tutt'oggi né un solo documento né una sola opera in grado di offrire il benché minimo indizio plausibile di una sua attività come lapicida.»

Anni 1980-90: arriva il riconoscimento critico

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La ricaduta in ambito critico delle scoperte pubblicate da Camillo Boselli nel 1977[N 36], unitamente a quanto già noto dalla letteratura, fanno la prima comparsa in una serie di volumi su temi differenti pubblicati durante gli anni 1980, in particolare la monografia sul santuario dei Miracoli edita da Antonio Fappani e Luciano Anelli nel 1980[278] e quella su San Pietro in Oliveto di padre Stipi nel 1985[279], mentre più specifica in tal senso è la monografia di Valerio Terraroli sulle due cattedrali di Brescia, del 1987, che diventa l'occasione per una nuova rielaborazione critica per l'arca di sant'Apollonio[280].

Sulla base degli atti del convegno su piazza della Loggia tenuto da Ida Gianfranceschi nel 1986[281], viene pubblicata tra il 1993 e il 1995 la grande monografia in tre volumi sulla Loggia e la sua piazza, contenente un saggio di Giovanni Agosti specifico sul ciclo dei Cesari che traccia un innovativo profilo artistico di Gasparo Cairano a partire dalla riconsiderata citazione di Pomponio Gaurico e dall'ambiente umanistico con cui lo scultore ebbe rapporto[282]. Viene inoltre recuperata la testimonianza del Michiel sul fratello Anzolino, attivo a Milano come plasticatore di terracotta. Lo studioso redige quindi un ipotetico catalogo di sue opere, proponendo in collaborazione con Alessandro Bagnoli e Roberto Bartalini una distinzione di autografia nel Cesari tra Cairano e Tamagnino[283], ancora oggi accolta dalla critica[284], e ricostruisce per la prima volta la storiografia dell'Adorazione Caprioli, attribuita tuttavia a un più prudente "anonimo lombardo di fine Quattrocento"[285]. L'apertura del museo di Santa Giulia nel 1998, invece, è stata l'occasione per la pubblicazione di una serie di testi illustrativi sul materiale inserito nell'esposizione, tra cui il mausoleo Martinengo per il quale sono state rese note una serie di importanti immagini storiche[286].

Studi e dibattiti del XXI secolo

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In due contributi pubblicati nel 2001[287] e nel 2003[288], lo studioso Vito Zani procede a una rilettura del panorama scultoreo della Brescia rinascimentale, ricollocando Maffeo Olivieri entro il corretto contesto artistico, mediato dai documenti a lui riferiti, e proponendo Gasparo Cairano come protagonista definitivo della parabola artistica bresciana dell'epoca, considerato alla stregua di un "Amadeo bresciano"[289]: un intraprendente impresario, attivo in commissioni pubbliche e private, con una carriera artistica in rapida ascesa. Nei due testi, lo Zani attribuisce a Gasparo Cairano le opere già generalmente accettate dalla critica, aggiungendovi l'Adorazione Caprioli, come già aveva congetturato il Meyer un secolo prima, le parti lapidee del mausoleo Martinengo e un gruppo di sculture disperse in musei e collezioni in Italia e all'estero[287]. La proposta dello Zani viene rapidamente accettata dalla critica artistica del XXI secolo, per primo da Valerio Terraroli che la riporta nel volume Lombardia rinascimentale. Arte e architettura del 2003, un volume di grande diffusione anche fuori dall'Italia, un vero e proprio testo di lancio per l' "emblematica figura di Gaspare Coirano da Milano"[290].

Nel 2010 viene finalmente pubblicata, per mano di Vito Zani, la prima monografia interamente dedicata a Gasparo Cairano[291]. Il testo, per la prima volta, si prepone di ricostruire interamente la vicenda critica della scultura rinascimentale bresciana attraverso i secoli dedicando ad essa un intero capitolo[292], preceduto da una ricostruzione del panorama artistico bresciano dalla seconda metà del XV secolo in poi[293] e seguito da un terzo e ultimo capitolo in cui sono tracciate le biografie bresciane degli scultori riconosciuti nelle numerosissime fonti consultate[294], da ovviamente Gasparo Cairano a Antonio della Porta, Antonio Mangiacavalli e i Sanmicheli[N 37]. Il contributo dello Zani si è rivelato fondamentale soprattutto grazie alla pubblicazione di numerosi documenti inediti, in particolare il fondamentale estimo del 1517[295], che fissa la morte dello scultore a prima di questa data, e l'estimo del figlio Simone datato 1534[296], che ha permesso di ricostruire gran parte della genealogia successiva a Gasparo. L'apporto maggiore rimane comunque la ricostruzione del catalogo di opere dell'artista, di fatto tutte i maggiori lavori in pietra nella Brescia di inizio XVI secolo, ad esclusione dell'arca di san Tiziano e con l'aggiunta delle opere erratiche sparse in musei e collezioni di tutto il mondo, rivelanti una chiara affinità con lo scalpello di Gasparo Cairano[297]. Una sintesi della linea storiografica proposta da Vito Zani è stata accolta anche nella monografia dedicata alla scultura lombarda tra XV e XX secolo edita a cura di Valerio Terraroli nel 2011, dove occupa il capitolo sulla scultura rinascimentale bresciana[298].

Poco tempo dopo, sempre nel 2010, Giuseppe Sava pubblica su "Arte Veneta" un articolo che ricostruisce la figura di Antonio Medaglia[299], il misconosciuto architetto della chiesa di San Pietro in Oliveto, proponendone un catalogo di opere tra cui alcune figure dell'altare di san Girolamo, il quale, pertanto, sarebbe stato realizzato in collaborazione tra Medaglia e Cairano[300]. Lo studioso, in alcuni passi dell'articolo, trova anche l'occasione di commentare quanto messo in luce da Vito Zani, lasciando più volte intendere di non condividerne appieno la ricostruzione proposta[301]. Nel 2012, tuttavia, Vito Zani ha avuto modo di replicare alle considerazioni espresse da Sava nell'ambito di un articolo sulla rivista online Antiqua, di cui si parlerà ancora tra poco, accogliendo solo parzialmente quanto ricostruito circa Antonio Medaglia e difendendo in generale le sue tesi su Gasparo Cairano[302].

A un'asta fiorentina del 2011 viene presentato un gruppo scultoreo raffigurante Tre angeli reggicorona, il cui commento illustrativo nel catalogo d'asta viene curato da Marco Tanzi[N 38]. Lo studioso, ragionando sulla datazione e sulla collocazione stilistica dell'opera, muove una serie di critiche significative alla ricostruzione avanzata nel 2010 da Vito Zani del catalogo di Gasparo Cairano e del panorama scultoreo della Brescia rinascimentale, senza tuttavia dare un seguito alla questione su altre pubblicazioni. L'anno successivo, nel 2012, Vito Zani risponde al Tanzi mediante un articolo pubblicato in tre parti dalla rivista d'arte online Antiqua: nella prima parte rivede, e di fatto ribalta, l'attribuzione avanzata da Tanzi per i Tre angeli[303], mentre nella seconda ribatte alle contestazioni presentate dallo studioso nel catalogo d'asta[85]. Nella terza e ultima parte, invece, Vito Zani affronta nuovamente la questione del catalogo dello scultore bresciano, ribadendo quanto già esposto nel 2010 e servendosi soprattutto di un ricco apparato fotografico sul quale formulare i giusti raffronti tra le opere da lui raggruppate sotto l'unica mano di Gasparo Cairano[304].

Lo stesso argomento in dettaglio: Opere di Gasparo Cairano.
Note al testo
  1. ^ Questa variante non è presente nelle fonti storiche ed è stata introdotta da Adriano Peroni nel 1963 (si veda Peroni, pp. 619-887) e poi canonizzata dalla critica successiva. Si veda anche Zani 2010, p. 102, n. 85.
  2. ^ Si veda anche un'annotazione in Boselli, p. 289 di un documento bresciano del marzo 1531 dove si fa menzione del primogenito di Gasparo come "Simone q. Gasparis de Chayrate de Mediolano".
  3. ^ Dato che il primo documento che attesta l'esistenza dell'artista è il pagamento di un'opera nel 1489, la data di nascita è da far risalire almeno a un ventennio prima.
  4. ^ Le fonti storiche forniscono altre varianti del cognome di Gasparo. Si veda Zani 2010, p. 102, n. 85 e le note riportate nella presente pagina alle varianti del cognome esposte in apertura.
  5. ^ a b Si veda il paragrafo "I rapporti col Tamagnino" per un appofondimento in merito alla vicenda
  6. ^ Ceriana, pp. 146, 148-149. Si ricorda anche il San Gregorio, ultimo medaglione per i pennacchi della cupola a completamento del ciclo di Dottori della chiesa lasciato incompiuto dal Tamagnino e anch'esso databile al 1495-1500 circa. Per la datazione di quest'opera si veda Zani 2010, p. 121.
  7. ^ Forse nel 1805, ancora prima che la chiesa venisse indemaniata. Si veda Zani 2010, p. 117.
  8. ^ La produzione delle generiche partiture decorative proseguì ancora per qualche anno, fino all'interruzione dei lavori per motivi bellici, ma non necessariamente sotto la guida di Gasparo, che poteva comunque visitare sovente il cantiere per seguire questa fase conclusiva. Si veda Zani 2010, p. 107.
  9. ^ Sul basamento della colonna di sinistra è presente un'effige di papa Giulio II desunta dal recto di una medaglia del Caradosso e Gian Cristoforo Romano fusa a partire dal 1506. Si veda Zani 2010, p. 125.
  10. ^ Sul mito di Brixia magnipotens si veda Zani 2010, pp. 24-25. con relative note al testo, bibliografia e documentazione citate.
  11. ^ Vi sono varie ipotesi in merito e possibili ricostruzioni della vicenda, molto complessa dal punto di vista sia storico, sia critico. Si vedano Zani 2010, pp. 109, 135-138 e la bibliografia specifica su questo monumento segnalata in Zani 2010, p. 138.
  12. ^ Si tratta di un complesso discorso storico-critico intessuto su quanto attestato dai documenti pervenutici e, di fatto, ancora aperto a diverse voci critiche. Oltre a Zani 2010, pp. 109, 135-138 si vedano le considerazioni in merito presentate in Vito Zani, Un marmo lombardo del Rinascimento e qualche precisazione sulla scultura lapidea a Brescia tra Quattro e Cinquecento (seconda parte), articolo su www.antiqua.mi.it, su antiqua.mi.it, 3 settembre 2012. URL consultato il 9 gennaio 2014. e Vito Zani, Un marmo lombardo del Rinascimento e qualche precisazione sulla scultura lapidea a Brescia tra Quattro e Cinquecento (terza e ultima parte), articolo su www.antiqua.mi.it, su antiqua.mi.it, 1º novembre 2012. URL consultato il 9 gennaio 2014. con relative note al testo e bibliografia citata.
  13. ^ Verosimilmente, Gasparo non avrà modo di vedere l'opera completata, alla cui esecuzione potrebbe essere subentrata la bottega e, in particolare, il figlio Simone. Si veda Zani 2010, p. 138.
  14. ^ Non è esclusa una iniziale partecipazione dei Sanmicheli, ossia Bartolomeo e forse anche il figlio Matteo, alla progettazione ed esecuzione del monumento. Si veda Zani 2010, p. 137.
  15. ^ Boselli, p. 289 (regesto). I documenti recuperati vanno dal 1519 al 1548.
  16. ^ a b Camillo Boselli ha reso noti alcuni documenti su "Gasparo Cairano il Giovane" che lo attestano tra il 1545 e il 1558: si veda Boselli, p. 150 (regesto). Tra questi sono registrati la sua adesione al paratico dei lapicidi nel 1557 e, datato allo stesso anno, un contratto per l'esecuzione di alcune colonne per il monastero di Santa Giulia a Brescia.
  17. ^ Per cenni di biografia, documenti e opere attribuite a Ambrogio Mazzola si veda Zani 2010, p. 110, n. 145.
  18. ^ Sono note solamente pochissime opere, quasi tutte di committenza pubblica e praticamente tutte perdute. Sono inoltre noti alcuni scultori di provenienza bresciana presenti in quegli anni a Roma e Bergamo, i quali tuttavia hanno lasciato opere di scarso interesse e, anche in questo caso, quasi tutte perdute. Si veda Zani 2010, p. 89, n. 2.
  19. ^ Si segnalano in particolare la cappella del Santissimo Sacramento nel duomo di Mantova, tra l'altro unica opera sanmicheliana quattrocentesca certa e sopravvissuta integralmente fino ai giorni nostri, e una cappella perduta nella chiesa di Santo Spirito a Bergamo. Per la cappella mantovana si veda Ferrari, Zanata, pp. 84, 94, 98 n. 45., per il resto Zani 2010, p. 93, n. 29.
  20. ^ A sostegno di questa tesi esistono sia una fonte diretta, nello specifico un atto notarile bresciano del 1503 che qualifica Bartolomeo cittadino bresciano, sia una indiretta, ossia l'anagrafe veronese del 1501 e del 1502 che censisce Paolo Sanmicheli come figlio di Bartolomeo "de Brixia". Si veda Zani 2010, p. 93, n. 30.
  21. ^ "Intagliatore", in dialetto bresciano.
  22. ^ "Tagliapietra", in dialetto bresciano.
  23. ^ L'identificazione si basa su una serie di riscontri stilistici e documentari che coinvolgono anche quanto riferito da Giorgio Vasari nelle Vite circa i suoi studi umanistici. Si veda Zani 2010, p. 94 e note al testo.
  24. ^ Anche in questo caso interviene un'analisi di tipo stilistico sulla sofisticata componente intellettualistica dimostrata da Matteo nelle sue opere piemontesi, come evidenziato in Ferretti, p. 258. Si veda anche Zani 2010, p. 94.
  25. ^ Le fonti storiche indirette sull'attribuzione di queste opere non sono unanimi. Il memoriale Martinengo del 1731 (si veda Guerrini 1930, pp. 189-218) attribuisce i tre medaglioni con Sant'Ambrogio, Sant'Agostino e San Girolamo al Tamagnino, mentre il Sala (si veda Sala, p. 90.) gli attribuisce anche il quarto, San Gregorio, anche se l'analisi stilistica critica lo esclude. Si veda anche Zani 2010, p. 98, n. 59. e p. 121
  26. ^ Gasparo Cairano viene pagato nove lire per ciascuna statua degli Apostoli, per un totale di 108 lire, mentre il Tamagnino riceve 106 lire per i dodici Angeli e i cinque rilievi. Si veda la trascrizione in Guerrini 1930, pp. 209-210. del documento perduto in già Archivio Storico di Santa Maria dei Miracoli, cart. A, fasc. 3.
  27. ^ A titolo di paragone, noto che venti soldi costituiscono una lira veneziana, si consideri che il 27 maggio 1500 allo scultore vengono saldate otto protomi leonine a 45 soldi l'una (poco più di due lire), mentre in altre note contabili, per gli stessi manufatti, il lapicida Gaspare da Carsogna riceve tre lire ciascuna, Iacopo Campione due lire e Girolamo di Canonica tre lire, senza contare Gasparo Cairano a cui vengono pagate anche 8 lire per ogni protome virile consegnata. I dati sono ottenuti da Baldassarre Zamboni, Collectanea de rebus Brixiae, Biblioteca Queriniana, Ms. H. III. M. 2.
  28. ^ In particolare, sono andati perduti i documenti contabili del Comune di Brescia relativi al cantiere della Loggia, l'archivio della chiesa di Santa Maria dei Miracoli, l'intera documentazione relativa al cantiere di San Pietro in Oliveto, i dettagli delle commissioni del Mausoleo Martinengo e dell'arca di sant'Apollonio e le carte della famiglia Caprioli. Vi sono varie e differenti ragioni in merito alla perdita di ciascun archivio: si veda la bibliografia citata in merito alle singole opere d'arte.
  29. ^ Si ricordano le edizioni di Anversa, Norimberga e Bruxelles rispettivamente del 1528, 1542 e 1603. Si veda Zani 2010, p. 43 per ulteriori approfondimenti.
  30. ^ Si contano almeno due pubblicazioni seicentesche che elogiano Giacomo Medici con chiaro riferimento al Rossi, ossia Calzavacca, p. 47 e Cozzando, p. 132. Si veda anche Zani 2010, pp. 48-49, nn. 63, 64.
  31. ^ Zani 2010, p. 57. Per ulteriori considerazioni sull'effettiva possibilità del Cicognara di ricostruire l'identità di Gasparo Cairano si veda Zani 2010, p. 56 n. 113.
  32. ^ Brognoli, p. 89. Il corsivo è anche nello scritto del Sala, segno che vuol essere una copiatura della fonte originale consultata.
  33. ^ Picenardi, p. 94. Questo autore, non nominato nella presente trattazione, aveva desunto dallo Zaist le attribuzioni bresciane del Pedoni per la composizione della sua guida di Cremona. Si veda anche Zani 2010, p. 55 n. 110.
  34. ^ Per alcune congetture sul motivo di queste strane omissioni si veda Zani 2010, p. 64 n. 159.
  35. ^ Nicodemi 1920-1925 ca, pp. 24, 32, 67, 52-53. Il Nicodemi vede nell'Adorazione Caprioli "iscolture dell'Amadeo", mentre nell'arca di sant'Apollonio trova "vivi punti di contatto con alcune scolture di Agostino Busti detto il Bambaia". Non avanza invece alcuna attribuzione per il mausoleo Martinengo, mentre parlando del santuario dei Miracoli evita di nominare i cicli di Angeli e Apostoli all'interno, con i relativi autori. Si veda anche Zani 2010, p. 77 n. 245.
  36. ^ Oltre al decisivo chiarimento offerto dal Boselli sulla storiografia del mausoleo Martinengo, lo studioso fu anche in grado di segnalare alcuni documenti che parlavano degli sconosciuti figli di Gasparo Cairano, a loro volta scultori. Si veda Boselli, pp. 150, 289.
  37. ^ Per quanto riguarda i Sanmicheli, Vito Zani aveva già tentato nel 2007 di tracciare la storiografia della loro parabola bresciana. Si veda Zani 2007
  38. ^ Tanzi, pp. 252-253. Il catalogo è liberamente consultabile a questo link o visualizzabile in formato pdf a questo link.
Fonti
  1. ^ a b c d Zani 2010, p. 102, n. 85.
  2. ^ Per una rassegna completa delle varianti del cognome si veda Frati, Gianfranceschi, Robecchi, II, pp. 68-69, n. 32.
  3. ^ In questa data viene dichiarato già morto dalla vedova Bianca in un estimo, si veda Zani 2010, p. 102, n. 85.
  4. ^ a b c d e Zani 2010, p. 102
  5. ^ a b Già Archivio Storico di Santa Maria dei Miracoli, cart. A, fasc. 3, perduto, si veda Guerrini 1930, pp. 209-210.
  6. ^ Zani 2010, pp. 102-103.
  7. ^ Zani 2010, p. 103, n. 90.
  8. ^ a b Zani 2010, p. 103.
  9. ^ a b c d e f g h i Zani 2010, p. 104.
  10. ^ Zani 2010, p. 98.
  11. ^ a b Zani 2011, p. 62.
  12. ^ a b Zani 2010, p. 99.
  13. ^ a b Zani 2010, p. 116.
  14. ^ Zani 2010, p. 117.
  15. ^ a b Zani 2010, p. 21.
  16. ^ Caglioti, pp. 67-109.
  17. ^ Zani 2010, pp. 22-23. Si vedano anche le note 70-71 a p. 22 della stessa pubblicazione per approfondimenti sul tema.
  18. ^ a b c Zani 2010, p. 105.
  19. ^ Adorno, pp. 214-222.
  20. ^ Fittschen, pp. 397-398.
  21. ^ Burnett, Schofield, p. 14, cat. 5.
  22. ^ a b c d e Zani 2010, p. 106.
  23. ^ a b Zani 2010, p. 24.
  24. ^ Zamboni, pp. 50-51 (n. 45), 53.
  25. ^ Zamboni, p. 53.
  26. ^ a b Zani 2011, p. 68.
  27. ^ Zani 2010, pp. 101-102, 105.
  28. ^ a b c d e f g h Zani 2010, p. 107.
  29. ^ Guerrini 1926, p. 206.
  30. ^ Zani 2010, p. 120.
  31. ^ Si veda Zani 2010, p. 120. per alcune ipotesi in merito.
  32. ^ Zani 2010, p. 107. e n. 117 alla stessa pagina.
  33. ^ Faino, pp. 32, 158.
  34. ^ Paglia, vol. I, p. 107.
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  50. ^ Tale è l'anno riportato sul fronte del cavalcavia verso la piazza, indicante verosimilmente la data di fine lavori.
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Fonti antiche (fino al XIX secolo)

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Su temi bresciani
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  • Illuminato Calzavacca, Universitas heroum urbis Brixiae literis, et armis nulli secunda orbi universo exposita, Brescia, 1654.
  • Elia Capriolo, Dell'Istorie della Città di Brescia, Venezia, 1744.
  • Leonardo Cozzando, Vago, e curioso ristretto profano, e sagro dell'Historia Bresciana, Brescia, 1694.
  • Giovanni Battista Carboni, Notizie istoriche delli pittori, scultori e architetti bresciani, 1754-1758.
  • Giovanni Battista Carboni, Le Pitture e Scolture di Brescia che sono esposte al pubblico con un'appendice di alcune private Gallerie, 1760.
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  • Ottavio Rossi, Elogi historici di Bresciani illustri, Brescia, 1620.
  • Francesco Paglia, Il Giardino della Pittura, Brescia, 1675-1713.
  • Patrizio Spini, Il Supplimento dell'Istorie della Città di Brescia, in Dell'Istorie della Città di Brescia di m. Elia Capriolo, Venezia, 1744.
  • Giovanni Battista Zaist, Notizie istoriche de' pittori, scultori ed architetti cremonesi, Cremona, 1774.
  • Baldassarre Zamboni, Memorie intorno alle pubbliche fabbriche più insigni della città di Brescia raccolte da Baldassarre Zamboni arciprete di Calvisano, Brescia, 1778.
Su altri temi

Fonti moderne (dal XIX secolo)

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Su Gasparo Cairano
  • Giovanni Agosti, Intorno ai Cesari della Loggia di Brescia, in Vasco Frati, Ida Gianfranceschi, Franco Robecchi (a cura di), La Loggia di Brescia e la sua piazza. Evoluzione di un fulcro urbano nella storia di mezzo millennio, Brescia, Grafo, 1995.
  • Paolo Guerrini, Il Santuario civico dei Miracoli, in Memorie storiche della diocesi di Brescia, I, Brescia, Moretto, 1930.
  • Monica Ibsen, Il duomo di Salò, Gussago, 1999.
  • Valerio Terraroli, Committenza pubblica, invenzioni architettonico-decorative nella Brescia del Rinascimento e l'emblematica figura di Gasparo da Coirano da Milano, in Valerio Terraroli, Maria Teresa Fiorio (a cura di), Lombardia rinascimentale. Arte e architettura, Milano, Skira, 2003.
  • Vito Zani, Gasparo Coirano. Madonna col Bambino, in Spunti per conversare, n. 5, Milano, Galleria Nella Longari, dicembre 2001.
  • Vito Zani, Sulle nostalgie di Ambrogio Mazzola, scultore bresciano del Cinquecento, in Civiltà Bresciana, XII, 1, Brescia, 2003.
  • Vito Zani, Gasparo Cairano, Roccafranca, La Compagnia della Stampa, 2010.
  • Vito Zani, Maestri e cantieri nel Quattrocento e nella prima metà del Cinquecento, in Valerio Terraroli (a cura di), Scultura in Lombardia. Arti plastiche a Brescia e nel Bresciano dal XV al XX secolo, Milano, Skira, 2011.
Su scultura e civiltà rinascimentale bresciana
  • Luigi Arcioni, La chiesa dei Miracoli in Brescia, in Arte italiana decorativa e industriale, V, 10, ottobre 1896.
  • Luigi Arcioni, La chiesa dei Miracoli a Brescia, in Arte italiana decorativa e industriale, VI, 1, gennaio 1897.
  • Camillo Boselli, Regesto artistico dei notai roganti in Brescia dall'anno 1500 all'anno 1560, Brescia, 1977.
  • Antonio Fappani, Luciano Anelli, Santa Maria dei Miracoli, Brescia, 1989.
  • Vasco Frati, Ida Gianfranceschi, Franco Robecchi, La Loggia di Brescia e la sua piazza. Evoluzione di un fulcro urbano nella storia di mezzo millennio, Brescia, Grafo, 1995.
  • Aldo Galli, Il Maestro degli angeli cantori e le più antiche sculture lombarde in terracotta, in Nuovi Studi. Rivista di arte antica e moderna, n. 6, 1998.
  • Elena Lucchesi Ragni, Ida Gianfranceschi, Maurizio Mondini (a cura di), L'età veneta, l'immagine della città, la scultura monumentale. Santa Giulia, museo della città a Brescia, Milano, Electa, 1998.
  • Elena Lucchesi Ragni, Ida Gianfranceschi, Maurizio Mondini (a cura di), Il coro delle monache - Cori e corali, catalogo della mostra, Milano, Skira, 2003.
  • Alfredo Melani, Il monumento di Marc'Antonio Martinengo della Pallata a Brescia, in Arte e Storia, XVIII, 9-10, 1899.
  • Antonio Morassi, Per la ricostruzione di Maffeo Olivieri, in Bollettino d'Arte, anno XXX, 6, dicembre 1936.
  • Adriano Peroni, L'architettura e la scultura nei secoli XV e XVI, in Giovanni Treccani degli Alfieri (a cura di), Storia di Brescia, Brescia, Treccani, 1963.
  • Giuseppe Sava, Antonio Medaglia “lapicida et architecto” tra Vicenza e la Lombardia: il cantiere di San Pietro in Oliveto a Brescia, in Arte Veneta, n. 67, 2010.
  • Valerio Terraroli, Itinerario della scultura rinascimentale nelle Cattedrali, in AA.VV. (a cura di), Le cattedrali di Brescia, brescia, Grafo, 1987.
  • Vito Zani, Sulle tracce dei Sanmicheli a Brescia e Mantova, tra Quattro e Cinquecento, in Matteo Ceriana (a cura di), Tullio Lombardo. Scultore e architetto nella cultura artistica veneziana del Rinascimento, atti del convegno, Venezia, 2006.
Su altri temi di scultura e civiltà rinascimentale
  • Pietro Adorno, Il Verrocchio. Nuove proposte nella civiltà artistica del tempo di Lorenzo il Magnifico, Firenze, Edam, 1991.
  • Wilhelm Bode, Die italienische Bronzestatuetten der Renaissance, Berlino, 1906.
  • Carrol Brentano, Della Porta, Antonio, detto Tamagnino, in Dizionario biografico degli italiani, 37 (voce), Roma, Treccani, 1989.
  • Andrew M. Burnett, Richard V. Schofield, The Medallions of the Basamento of the Certosa di Pavia. Sources and Influence, in Arte Lombarda, n. 120, 1997.
  • Francesco Caglioti, Fifteenth-century reliefs of ancient emperors and empresses in Florence: production and collecting, in Nicholas Penny, Eike D. Schmidt (a cura di), Collecting sculpture in early modern Europe (atti del convegno), New Haven, Yale University Press, 2008.
  • M. Ferrari, I. Zanata, La cappella del "Sangue de Christo" nella cattedrale di Mantova, in AA. VV. (a cura di), Storia e arte religiosa a Mantova. Visite di Pontefici e la reliquia del Preziosissimo Sangue, Mantova, Casa del Mantegna, 1991.
  • Massimo Ferretti, Le sculture del Duomo nuovo, in Giovanni Romano (a cura di), Domenico della Rovere e il Duomo nuovo di Torino. Rinascimento a Roma e in Piemonte, Torino, Editris, 1990.
  • Klaus Fittschen, Sul ruolo del ritratto antico nell'arte italiana, in Salvatore Settis (a cura di), Memoria dell'antico nell'arte italiana, Torino, Einaudi, 1985.
  • George Francis Hill, A corpus of italian medals of the Renaissance before Cellini, Oxford, 1923.
  • Francesco Malaguzzi Valeri, Gio. Antonio Amadeo. Scultore e architetto lombardo /1447-1522), Bergamo, 1904.
  • Alfredo Melani, Dell'ornamento nell'architettura, Milano, 1899 ca.
  • Alfred Gotthold Meyer, Oberitalienische Frührenaissance. Bauten und Bildwerke der Lombardei, Berlino, 1900.
  • Giuseppe Merzario, I maestri comacini, Milano, 1893.
  • Giorgio Nicodemi, Il Bambaia, Gallarate, 1925.
  • Leo Planiscig, Venezianische Bildhauer der Renaissance, Wien, 1921.
  • Richard V. Schofield, James Shell, Grazioso Sironi (a cura di), Giovanni Antonio Amadeo. Documents, Como, New press Edizioni, 1989.
  • Richard V. Schofield, The Colleoni chapel and the creation of a local all'antica architectural style, in Christoph L. Frommel, Luisa Giordano, Richard V. Schofield (a cura di), Bramante milanese e l'architettura del Rinascimento lombardo, Venezia, Marsilio, 2002.
  • Marco Tanzi, Scultore lombardo (Bresciano?) tra Tamagnino e Coirano, 1500 circa. Tre angeli reggicorona. Scultura in marmo, cm 83x62x29., in Arredi, Mobili e Dipinti Antichi provenienti dalla famiglia Antinori-Buturlin e altre proprietà private, Firenze, catalogo della casa d'aste Pandolfini, 11-12 ottobre 2011.
  • Silvio Vigezzi, La scultura lombarda del Cinquecento, Milano, 1929.
Su altri temi bresciani
  • Paolo Brognoli, Nuova guida per la città di Brescia, Brescia, 1826.
  • Andrea Cassa, S. Francesco. S. Maria dei Miracoli. La Loggia. Il Cimitero. Appunti, Brescia, 1882.
  • Carlo Cocchetti, Brescia e la sua Provincia, in Cesare Cantù (a cura di), Grande illustrazione del Lombardo-Veneto diretta da Cesare Cantù. Volume III. Storia e descrizione di Brescia, Cremona, Como e loro contorni, Milano, 1859.
  • Alessandra Corna Pellegrini, Floriano Ferramola in Santa Maria del Carmine, Brescia, Tipografia Camuna, 2011.
  • Stefano Fenaroli, Dizionario degli artisti bresciani, Brescia, 1877.
  • Fiorenzo Fisogni, Scultori e lapicidi a Brescia dal tardo classicismo cinquecentesco al rococò, in Valerio Terraroli (a cura di), Scultura in Lombardia. Arti plastiche a Brescia e nel Bresciano dal XV al XX secolo, Milano, Skira, 2011.
  • Monica Franchi (a cura di), Le pergamene dell'Archivio Capitolare. Catalogazione e regesti, Travagliato, 2002.
  • Ida Gianfranceschi (a cura di), Piazza della Loggia. Una secolare vicenda al centro della storia urbana e civile di Brescia, atti del seminario didattico (Brescia, 1981-1982), Brescia, 1986.
  • Paolo Guerrini, Iscrizioni delle chiese di Brescia. Chiesa e chiostri di San Francesco, in Commentari dell'Ateneo di Brescia per l'anno 1925, 1926.
  • Federico Odorici, Storie bresciane dai primi tempi fino all'età nostra narrate da Federico Odorici, Brescia, 1853.
  • Gaetano Panazza, I Civici Musei e la Pinacoteca di Brescia, Bergamo, 1958.
  • Giorgio Nicodemi, Brescia, Bergamo, 1920-1925 ca.
  • Alessandro Sala, Pitture ed altri oggetti di belle arti in Brescia, Brescia, 1834.
  • Lorenzo Dionisio Stipi, Invito a San Pietro in Oliveto. Storia, tradizione, arte, leggenda, folclore, Brescia, Moretto, 1985.
  • Valerio Terraroli, Luigi Arcioni. Progetti e restauri a Brescia tra Ottocento e Novecento, Brescia, Musei civici di arte e storia di Brescia, 1999.
  • Gian Paolo Treccani, Questioni di "patrii monumenti". Tutela e restauro a Brescia, Brescia, 1988.
  • Antonio Ugoletti, Brescia, Bergamo, 1909.
Su altri temi
  • Antonio Morassi, Catalogo delle cose d'arte e d'antichità d'Italia. Brescia, Roma, 1939.
  • Giuseppe Papaleoni, Le chiese di Condino prima del 1550, Trento, 1890.
  • Giuseppe Picenardi, Nuova guida di Cremona per gli amatori dell'arti del disegno, Cremona, 1820.
  • Julius von Schlosser, La letteratura artistica. Manuale delle fonti della storia dell'arte moderna, (edizione aggiornata di Otto Kurz, Firenze 1964), 1924.

Voci correlate

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