Utente:Jtorquy/Sandbox3

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Poster pubblicitario per un concerto di Louis Armstrong a Beirut, in Libano (1959)

Con ambasciatori del jazz[1] (in inglese Jazz ambassadors) si intendono quei musicisti jazz statunitensi inviati dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America della presidenza Eisenhower in una tournée in Europa orientale, nelle regioni centro-sud asiatiche e in Africa con lo scopo di diffondere la cultura e i valori statunitensi nel mondo.[2]

La cosiddetta «diplomazia del jazz», nel contesto delle discriminazioni razziali interne al Paese e di uno scenario internazionale sempre più aperto e polarizzato (i primi anni della Guerra fredda), era una forma di diplomazia culturale che aveva lo scopo di promuovere un'immagine degli Stati Uniti più accogliente e distante dalle accuse sovietiche di instabilità interna legata alle tensioni razziali.[3][4] Tra i primi ambasciatori nel 1956 figurano artisti del calibro di Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Dave Brubeck, Benny Goodman e Duke Ellington.[5]

Antefatti[modifica | modifica wikitesto]

All'inizio degli anni Cinquanta, durante le lotte dei movimenti per i diritti civili, la decolonizzazione e la guerra fredda, i politici statunitensi si resero conto che era necessario un nuovo approccio alla diplomazia culturale statunitense.[6][7] L'allora presidente in carica, Dwight Eisenhower, era particolarmente preoccupato di come le tensioni razziali interne influenzassero la reputazione internazionale del Paese.[7] Vedeva la guerra fredda come una battaglia di idee, pensando che un programma di scambio culturale avrebbe potuto affrontare alcune di queste preoccupazioni.[6] Nel 1956 il Congresso formalizzò il President's Special International Program for Participation in International Affairs, conosciuto anche come Cultural Presentations Program; funzionari statunitensi spiegarono che lo scopo principale del programma era quello di «contrastare la propaganda russa».[6]

Il programma fu supervisionato dal Dipartimento di Stato, che ha avuto l'approvazione finale per la scelta dei musicisti,[6] e dall'American National Theatre and Academy. Fu sponsorizzato dall'emittente televisiva governativa Voice of America.[8] Nonostante il programma includesse un'ampia varietà di forme artistiche e culturali, il jazz venne ben accolto dal Dipartimento di Stato per il suo essere una forma d'arte indigena americana.[7] L'associazione del jazz con gli afroamericani, così come le sue band miste a livello razziale, potevano servire come una dimostrazione di equità razziale ed armonia.[9][10] Il Dipartimento di Stato si assicurò che le commissioni di selezione scegliessero solo artisti adatti, tenendo conto del loro talento musicale, della loro "americanità", della loro integrità, del loro carattere personale e della composizione razziale della band.[6]

Inizialmente Armstrong sarebbe dovuto andare in tournée nel novembre 1955, come approvato dal Dipartimento di Stato; tuttavia, il rifiuto del presidente Eisenhower di inviare truppe federali alla Little Rock Central High School (nell'ambito della desegregazione razziale sancita da Brown v. Board of Education) per sostenere i Little Rock Nine fece indignare il musicista. Rifiutò il suo ruolo come primo ambasciatore ufficiale, aggiungendo: «per il modo in cui stanno trattando la mia gente nel sud, il governo può andare all'inferno!». Passata alla storia come "Crisi di Little Rock", l'evento mise alla luce l'ipocrisia dei «valori americani» che si intendeva mostrare durante il tour: democrazia, uguaglianza e libertà – tutti valori negati ai nove studenti di Little Rock e più ampiamente a tutti gli afroamericani mentre la lotta per i diritti civili, in particolare nel Profondo Sud, andava avanti.[10]

La «diplomazia del jazz» ebbe un ruolo più sottile e significativo nella guerra fredda rispetto a quanto previsto: non fu unicamente Armstrong a vedere l'ironia di rappresentare un Paese che predicava la democrazia all'estero mentre veniva negata all'interno dei suoi confini. Con il proseguire delle tournée, sempre più musicisti jazz influenti espressero la loro opinione, spesso condannando le azioni del governo statunitense nell'ottica dei diritti civili. Infine, gli stessi diplomatici statunitensi interpretarono la dichiarazione iniziale di Armstrong come un esempio della superiorità americana nella libertà di parola: «anche un uomo di colore può criticare il proprio governo e non essere punito».[10]

Le tournée[modifica | modifica wikitesto]

L'arrivo dei musicisti ad Accra, capitale della Costa d'Oro britannica (1956)
Un manifesto pubblicitario del Sudan che raffigura gli ambasciatori Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Mahalia Jackson e Count Basie (ca. 1960)

Eredità culturale[modifica | modifica wikitesto]

I tour degli ambasciatori del jazz hanno esposto i musicisti statunitensi a nuovi stili e tradizioni musicali dei Paesi che hanno visitato. Gli album di Duke Ellington Far East Suite, Latin American Suite e Afro-Eurasian Eclipse hanno preso ispirazione dalle tournée di questo periodo,[11] e similmente il brano Rio Pakistan di Dizzy Gillespie prende ispirazione dal tour del 1956.[12] Quest'ultimo registrò diversi album durante i tour, come Dizzy in Greece e World Statesman. Anche l'album Jazz Impressions di Dave Brubeck del 1958 nasce dalla musica che aveva ascoltato durante il periodo da ambasciatore del jazz.[13] I ritmi sincopati che Brubeck sentì dai musicisti di strada turchi ispirarono il suo standard Blue Rondo à la Turk.[14]

Sebbene influenzati dalla musica tradizionale dei Paesi visitati durante le tournée, gli ambasciatori del jazz a loro volta furono in grado di influenzare la gente nei Paesi non allineati. La ricerca e l'incorporazione della musica locale di ogni Stato visitato permise ai musicisti finanziati dallo Stato di presentare degli Stati Uniti capaci di celebrare ed apprezzare le culture locali straniere.[10]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Satchmo, Dizzy e gli ambasciatori del Jazz, su rai.it, Rai, 15 settembre 2020. URL consultato il 9 novembre 2023.
  2. ^ (EN) Billy Perrigo, How the U.S. Used Jazz as a Cold War Secret Weapon, su time.com, Time, 22 dicembre 2017. URL consultato il 9 novembre 2023.
  3. ^ Paolo Petrocelli, Jazz e diplomazia, su treccani.it, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 3 maggio 2023. URL consultato il 9 novembre 2023.
  4. ^ Von Eschen, 2006, pp. 3-4
  5. ^ Marcello Lorrai, Ambasciatori del jazz, su rsi.ch, RSI, 1° dicembre 2015. URL consultato il 9 novembre 2023.
  6. ^ a b c d e Davenport, pp. 38-39
  7. ^ a b c Von Eschen, 2006, pp. 5-6
  8. ^ (EN) James E. Dillard, All That Jazz: CIA, Voice of America, and Jazz Diplomacy in the Early Cold War Years, 1955-1965, in American Intelligence Journal, vol. 30, n. 2, 2012, pp. 39-50, ISSN 0883-072X (WC · ACNP).
  9. ^ Davenport, p. 7
  10. ^ a b c d (EN) Fred Kaplan, When Ambassadors Had Rhythm, su nytimes.com, The New York Times, 29 giugno 2008. URL consultato il 31 maggio 2024.
  11. ^ (EN) Rebecca E. Coyne, The Jazz Ambassadors: Intersections of American Foreign Power and Black Artistry in Duke Ellington's Far East Suite, in Inquiries Journal, vol. 13, n. 5.
  12. ^ (EN) Ajay Kamalakaran, Jazz Diplomacy in South Asia, su The Friday Times, 20 settembre 2019. URL consultato il 31 maggio 2024 (archiviato dall'url originale il 26 novembre 2020).
  13. ^ (EN) Naresh Fernandes, America’s original ambassador of cool, su thehindu.com, The Hindu, 18 ottobre 2016. URL consultato il 31 maggio 2024.
  14. ^ (EN) Fred M. Kaplan, 1959: The Year Everything Changed, John Wiley & Sons, 2009, pp. 130-131, ISBN 978-0-470-38781-8.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]