Eccidio di Fantina

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Voce principale: Giornata dell'Aspromonte.

L'eccidio di Fantina ebbe luogo il 3 settembre 1862, quando il Regio Esercito arrestò un drappello di volontari, che avevano programmato di raggiungere Garibaldi in marcia su Roma e ne passò per le armi sette, in quanto disertori.

Antefatti[modifica | modifica wikitesto]

Il 27 giugno 1862 Garibaldi era giunto a Palermo, accolto da una enorme folla plaudente. Si decise, allora, a condurre una nuova spedizione, dalla Sicilia allo Stato Pontificio, per liberare Roma e renderla all'Italia. La marcia venne fermata il 29 agosto 1862, dal Regio Esercito, dopo uno scontro sull'Aspromonte (conosciuto come Giornata dell'Aspromonte).

Gli sbandati garibaldini in Sicilia[modifica | modifica wikitesto]

La mobilitazione dei volontari per Garibaldi, tuttavia, era stata assai ampia. La colonna giunta in Calabria col generale era costituita solo di 3000 uomini. Molti di più si preparavano a raggiungerlo lungo il cammino. La lentezza delle comunicazioni e la incertezza delle notizie rendevano, quindi, inevitabile che vi fosse qualche strascico. Settecento volontari erano stati arrestati a Catania dal generale Ricotti che ne aveva mandati un centinaio a casa con foglio di via, oltre a questi il generale Cialdini segnalava, il 31 agosto, che «un certo maggiore Trasselli vagava alla testa di una banda la cui forza, da quanto ripetutamente dicevasi, sembrava di 800 o 900 uomini […] fu dunque mestiere di concertare la persecuzione di questa banda facendola eseguire da truppe di Catania e dalle poche di Messina».[1]

Un decreto emesso lo stesso giorno sempre dal generale Cialdini prescriveva alle truppe di trattare «come briganti» i garibaldini che non si fossero costituiti entro cinque giorni.[1]

L'eccidio[modifica | modifica wikitesto]

La “colonna Trasselli” si trovava a corto di viveri, il 4 settembre, presso il villaggio di Fantina, piccolo centro in provincia di Messina, con l'intenzione di recarsi a Novara di Sicilia (di cui Fantina era all'epoca frazione) per consegnare le armi al sindaco di quella città e non arrendersi quindi all'autorità militare.[2]

Il maggiore Trasselli spedì degli uomini a Novara per comprare del pane e svolgere un'azione di ricognizione con la quale verificare la presenza di reparti del Regio Esercito in zona (e infatti un battaglione di soldati governativi venne avvistato a Tripi); inoltre mise di sentinella su un picco i bersaglieri disertori presenti nella Colonna e ordinò a tutti i garibaldini di raggiungerli spedendo poi degli ufficiali a recuperare i dispersi presenti a valle, presso Fantina e la sua fiumara. Una cinquantina di volontari sfuggì però al controllo.[3]

Il gruppetto fu sorpreso nel sonno, poco dopo mezzanotte, da una compagnia di soldati del 47º reggimento fanteria agli ordini del maggiore Giuseppe De Villata. All'atto della resa un ufficiale, a nome del comandante, dichiaro che: «… se in mezzo a voi si celano dei disertori, si facciano innanzi. Il re li perdona e li lascerà immediatamente raggiungere i loro corpi».[4][5]

I sette che si presentarono furono circondati da un drappello armato e interrogati da un ufficiale; mentre ciò avveniva giunse il De Villata che comunicò che i disertori sarebbero stati immediatamente passati per le armi.[6][4]

Ai condannati non fu concesso di scrivere alle famiglie.[4] L'elenco completo di coloro che furono passati per le armi è il seguente:

  • Giovanni Balestra, nato a Roma nel 1841, bersagliere
  • Costante (Costantino) Bianchi, di Graffignana (oggi provincia di Lodi), sergente del 25º battaglione bersaglieri
  • Giovanni Botteri, nato a Parma il 9 aprile 1841, combattente del 1859 e del 1860. Passato dall'Esercito alla spedizione garibaldina
  • Giovanni Cerretti, nato a Trecenta (provincia di Rovigo) il 13 gennaio 1845, bersagliere del 25º battaglione bersaglieri
  • Barnaba della Momma, nato a Roma, bersagliere del 25º battaglione bersaglieri
  • Ulisse Grazioli, di Parma
  • Ernesto Pensieri, anch'egli di Parma.[7]

In realtà gli ultimi due non appartenevano al Regio Esercito e chiesero, invano, di ritirarsi.

Secondo altre fonti era presente un'ottava persona, identificata con Pietro Castagna (ex frate di Verona e reduce dai Mille che avrebbe in seguito raccontato la sua avventura al giornale di Brescia il Fascio della Democrazia)[8] che si sarebbe salvato buttandosi a terra appena prima degli spari e fingendosi morto, riuscendo così a scappare la mattina dopo, guadagnandosi il soprannome di "fucilicato di Fantina" e morendo a Verona nel 1903.[9]

Anche riguardo al Botteri si disse che, ferito nella fucilazione, si sarebbe svegliato l'indomani mattina venendo però trucidato per ordine del Villata.[9]

Questi ultimi avvenimenti sono però smentiti dalla deposizione prestata davanti alla giunta di Novara da un fantinese, Antonio Milici,[10] che al riguardo dichiarò che alla fucilazione vi furono «quattro morti e tre semivivi», questi ultimi ricevettero subito il colpo di grazia per ordine del comandante De Villata.[9]

Oltre ai sette si sarebbe fatto avanti Augusto Ceresini che, dopo la notizia della fucilazione, si sarebbe salvato perché disse: «Io non sono soldato, sono un vivandiere dei bersaglieri, e li seguitava vendendo acquavite e sigari per guadagnarmi un pezzo di pane»; egli non venne quindi mai incluso tra i sette condannati a morte.[11]

In onore dei sette caduti una lapide venne posta, il 1º settembre 2002 (140º anniversario dell'eccidio), presso il luogo dove avvenne la fucilazione; la lapide riporta la seguente iscrizione:

Alle sette giovinezze
garibaldine che cadendo
su questa terra
affermarono
nell'idea di Roma
l'unità degli italiani e
la fraternità dei popoli
per le civiltà del futuro

Angelo Sofia
[12]

Le polemiche politiche[modifica | modifica wikitesto]

Ancor oggi alcuni storici riprendono le polemiche mazziniane dell'epoca, parlando di barbaro eccidio. E certamente non si trattò di un atto generoso, umano o lungimirante.

Il governo ebbe facile gioco a sostenere che vigeva in Sicilia lo Stato d'assedio, proclamato in agosto proprio per fermare il Garibaldi.

Ma meno generoso ancora è il commento, ancor oggi ripreso, che la causa della brutalità fu la circostanza che tra i regolari vi fossero ex ufficiali e soldati borbonici, i quali avrebbero profittato delle circostanze per trattare, di nuovo, i garibaldini come nemici. A quei giorni appartenne, in effetti, il grido: “al sessanta tu ed al sessantadue noi!”.

Tale commento, in effetti, riprende tutta un filone polemico mazziniano che condannava la integrazione dei soldati ex-borbonici nell'Esercito italiano, come se si trattasse, "en bloc", di fedeli servitori di Francesco II delle Due Sicilie e non di italiani, come tutti gli altri. Anche qui, invece, traspare l'ambiguità con la quale, in quegli affannosi anni, ressero le sorti del Paese gli uomini della destra storica e la monarchia. Dopo aver osteggiato segretamente la spedizione dei Mille, non paghi della repressione effettuata in Aspromonte, essi diedero ordine di agire con la massima durezza verso tutti i volontari che, pur provenendo dalle file dell'esercito "regolare" avevano anteposto la fede mazziniana repubblicana e la fedeltà a Garibaldi alla volontà di potere del nuovo Re d'Italia.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b Ghirelli, p. 59.
  2. ^ Ghirelli, p. 62.
  3. ^ Ghirelli, p. 63.
  4. ^ a b c I martiri di Fantina di Edoardo Pantano, riportato in Mais, Zappone, p. 278
  5. ^ Ghirelli, pp. 64-65.
  6. ^ Ghirelli, p. 66.
  7. ^ Mais, Zappone, p. 47.
  8. ^ Ghirelli, p. 65.
  9. ^ a b c Sofia, p. 92.
  10. ^ Sofia, p. 85.
  11. ^ Sofia, p. 93.
  12. ^ Mais, Zappone, p. 167.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Antonio Ghirelli, L'eccidio di Fantina, Palermo, Sellerio editore, 1986.
  • Leandro Mais e Bruno Zappone, Roma o morte! Garibaldi e il tragico episodio dell'Aspromonte, Roma, Finmeccanica – Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico, 2009, pp. 47, 167 e 278, ISBN 978-88-96260-02-9.
  • Angelo Sofia, I martiri di Fantina del 3 settembre 1862, in Novara di Sicilia nel Risorgimento italiano – I martiri di Fantina, Marina di Patti, editrice Pungitopo, 1986, pp. 67-125.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]