Discussione:Un Souvenir de Solférino

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Nelle mie peregrinazioni ferroviarie sono arrivato su questa "non-voce". Da 5 anni dovrebbe (IMHO) essere spostata su Wikisource. Se qualche anima buona volesse... :) --Silvio Gallio (msg) 18:46, 14 set 2015 (CEST)[rispondi]

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Sposto qui sotto gran parte del contenuto della voce, in attesa che si veda cosa farne.--Bramfab Discorriamo 10:09, 16 set 2015 (CEST)[rispondi]

Paragrafo I[modifica wikitesto]

Il testo si apre con una breve introduzione in cui si chiama in causa la battaglia di Magenta, vista come punto di partenza per i successivi attacchi austriaci. Data un’approssimativa descrizione degli schieramenti dei due eserciti, Dunant conclude il primo paragrafo annunciando che la Battaglia di Solferino fu inaspettatamente violenta, in quanto i due eserciti si erano “ingannati sui rispettivi movimenti degli avversari”.

Paragrafo II[modifica wikitesto]

Dunant si dichiara “semplice turista” in terra italiana, “estraneo a questa grande lotta” che si è “deciso di riportare alla memoria”. Inoltre chiarisce subito che quelle che verranno narrate a seguire sono soltanto delle impressioni personali, senza alcun taglio moralistico, intento didascalico o storiografico.

Paragrafo III[modifica wikitesto]

Comincia la descrizione vera e propria della battaglia, combattutasi in una giornata calda, il 24 giugno, su una linea di battaglia lunga cinque miglia per più di quindici ore. Dunant cita anche lo stress subito dall’esercito austriaco, in marcia da tutta la notte del 23 giugno, e di quello francese, “già in movimento dalle prime luci del giorno”. Alle sei del mattino la battaglia è già viva.

Paragrafo IV[modifica wikitesto]

Tra le difficoltà vi sono quelle territoriali: il terreno è irto e scosceso, pertanto difficilmente praticabile. Gli Austriaci attaccano immediatamente i Francesi, preoccupati di occupare le posizioni prescelte.

Paragrafo V[modifica wikitesto]

Dunant passa alla descrizione della lotta: “corpo a corpo, orribile, spaventosa (…) non v’è più alcuna misericordia, è un macello, un combattimento di bestie feroci, furiose ed ebbre di sangue”. L’esercito francese sfodera il meglio della sua artiglieria, le mitraglie, quello austriaco attua un’eccellente trincerazione “nelle case e nelle chiese di Medole, di Solferino e di Cavriana”. Solferino diviene punto nevralgico della battaglia, a causa della sua strategica e cruciale posizione.

Paragrafo VI[modifica wikitesto]

Le rappresaglie continuano sulla “collina dei Cipressi, resa per sempre celebre, insieme alla Torre e al cimitero di Solferino, dall’orribile carneficina di cui queste località furono gloriose testimoni e il sanguinoso teatro”. Si narra di generali stremati dalla fame e dalla fatica, disarcionati e mortalmente feriti.

Paragrafo VII[modifica wikitesto]

Ci sono ancora descrizioni del campo di battaglia, ma tutto viene dilatato, visto più da vicino. Dunant pone una lente d’ingrandimento sulla realtà della guerra in maniera graduale e finalmente mette in evidenza alcuni aneddoti, che mostrano il cruore della guerra, frammisto alla grande umanità di molti. Da una parte il misero infierire sui deboli, i tiragliatori algerini, che raddoppiano il loro furore nel vendicare i loro morti, “come tigri assetate di sangue”; a questo proposito, Dunant lascia ampio spazio anche alla narrazione di una sorta di episodio all’interno del libro, in cui racconta del capitano Pallavicini, ufficiale dei bersaglieri, che si ritrova ferito a San Martino: “i suoi soldati lo raccolgono tra le loro braccia, lo portano e lo adagiano in una cappella dove riceve le prime cure, ma gli Austriaci, momentaneamente respinti, ritornano alla carica e penetrano nella chiesa: i bersaglieri, in numero troppo esiguo per resistere, sono obbligati ad abbandonare il loro capitano; subito dei Croati afferrano delle grosse pietre che si trovano vicino alla porta e schiacciano la testa del povero capitano, il cui cervello schizza sulle loro divise”. D’altro canto, vi sono anche figure caratterizzate da grande umanità: tra immagini dalla grande forza descrittiva emergono figure come “l’elemosiniere dell’imperatore Napoleone, l’abate Laine”, che “visitava le ambulanze portando ai morenti parole di conforto e di simpatia”. Ancora un ufficiale ungherese, che ordina ad un suo soldato di non infierire su un sottotenente di linea francese, gravemente ferito al braccio, a cui “stringe la mano con compassione e ordina di portarlo in un angolo meno pericoloso”. Non mancano neanche le figure femminili, le “vivandiere”, che, rischiando la vita e rimanendo ferite “vanno a dar sollievo a dei poveri soldati mutilati che chiedono con insistenza dell’acqua”, cercando di curarli. Infine fa un elogio ai valorosi soldati che rischiano la vita nei combattimenti, non cedendo al nemico neanche in condizioni estreme.

Paragrafo VIII[modifica wikitesto]

I soldati continuano a combattere instancabilmente (“sembrava che ci avesse spinto il vento”- dice uno di loro). Reagiscono in maniera diversa ai dolori della guerra, chi “dimostra una calma e un sangue freddo ammirevoli”, chi piange e si dispera davanti a questo disastro, “spinto dal dolore”, e rimprovera i fuggiaschi per la loro vigliaccheria. L’imperatore d’Austria si commuove: “grosse lacrime colano sulle sue guance e solo per le insistenze dei suoi aiutanti di campo acconsente a lasciare Volta e a partire per Valeggio”. Altri ufficiali non sopportano di sopravvivere ad una tale disfatta, quindi si immolano per il dispiacere e la collera. Intanto si organizzano i soccorsi: “i medici curavano le loro ferite, li ristoravano con qualche vivanda e li spedivano con i vagoni della ferrovia a Verona, dove l’affollamento divenne spaventoso”, tuttavia alcuni sfortunati venivano lasciati a giacere abbandonati sulla terra umida del loro stesso sangue. Dunant delinea immagini ricche di carità, al calar della sera ciascun soldato o ufficiale cerca un compatriota, un militare di sua conoscenza e, inginocchiandosi, cercava di rianimarlo, gli stringeva la mano, asciugava il suo sangue o cingeva con un fazzoletto l’arto fratturato. Ambulanze volanti sostavano nelle case, nelle chiese, nei conventi, all’aperto. I chirurghi francesi lavoravano costantemente, sino anche a svenire, allo stremo delle forze. Dettaglio importante, evidenziato dall’autore, è la presenza di una convenzione orale tra i combattenti, ossia quella di issare una bandiera nera nel luogo in cui erano ricoverati i feriti e si trovavano le ambulanze dei reggimenti impegnati nell’azione. “Per tacito e reciproco accordo non si sparava in quella direzione (…) talvolta vi arrivavano delle bombe, senza risparmiare né gli ufficiali responsabili, né gli infermieri, né i furgoni carichi di pane (…)”.

Paragrafo IX[modifica wikitesto]

Manca l’acqua, l’arsura si fa sempre più sentire, in preda alla sete ed alla disperazione i “soldati ricorrono alle pozze fangose e melmose e piene di sangue rappreso”. Il 25 giugno arriva, il sole illumina uno degli spettacoli più squallidi ed orrendi che si possano presentare all’immaginazione: morti da ogni parte, feriti che non vengono risparmiati e le cui braccia e gambe sono state spezzate dalle ruote dei pezzi d’artiglieria che sono passati sul loro corpo. Molti soldati sono stati derubati anche della poca biancheria che rimaneva loro, “privati dei loro effetti personali, forse delle loro modeste economie, (…) degli oggetti d’affezione che ricordano loro la famiglia, la patria, o donati dalle madri, dalle sorelle, dalle fidanzate”. In questo clima di spoliazione generale, tuttavia, il pensiero fisso è quello di calmare l’aridità, ma nei luoghi in cui si trova un po’ d’acqua, vi sono sempre “delle sentinelle con le armi cariche, che controllano l’acqua destinata ai malati”. Nell’esercito francese, per riconoscere e sotterrare i morti si organizzano delle pattuglie per recuperare i compagni d’arme. Anche i contadini, opportunamente retribuiti, partecipano a queste operazioni di riconoscimento e di spedizione degli ultimi effetti dei defunti alle famiglie, anche se spesso questo lavoro era fatto con incuria e grossolana negligenza, “tutto porta a credere che più di un vivo sia stato interrato con i morti”.

Paragrafo X[modifica wikitesto]

Ci sono anche coloro che non perdonano le sofferenze patite, neanche se a queste si tenta di riparare con atti pacifici di carità e di benevolenza. In particolare si vede che Dunant descrive con maggiore attenzione gli atti di bontà e magnanimità dell’esercito francese, mentre quello austriaco viene quasi dipinto a tinte fosche: “l’ufficiale francese è, d’abitudine, non soltanto affabile, ma anche cavalleresco e generoso”. L’autore racconta che un soldato francese, vedendo un austriaco steso a terra e gravemente mutilato, cercò di raccoglierlo, ma questo, avendo vicina una pistola carica, se ne impadronì uccidendolo senza remissione di colpe. Dice che si aveva una grande opinione dei francesi: “Che nazione è la vostra! Vi battete come leoni e trattate i vostri nemici, dopo averli vinti, come se fossero i vostri migliori amici!”.

Paragrafo XI[modifica wikitesto]

Il servizio dell’Intendenza continua a far raccogliere i feriti che vengono trasportati sino alle ambulanze volanti, che li condurranno ai luoghi dove sono stati ritrovati, dove tutto è ormai trasformato in ambulanze provvisorie. Tutto è adattato per il soccorso, coperto di paglia e riparato da assi, che fanno ombra ai feriti, che altrimenti sarebbero al sole. Adesso le scorte di vivande e bende sono state organizzate, manca invece il personale infermieristico, ed è difficile organizzarlo in mezzo ad un simile disordine. Si teme il ritorno dell’esercito austriaco: molti si barricano nelle loro case, altri fuggono, altri ancora accolgono i primi feriti austriaci che avvistano per la strada e li ospitano nelle loro case, riempiendoli di riguardi e di premure, sperando così di essere, in caso di un eventuale attacco, risparmiati. I feriti temono di essere definitivamente massacrati e corrono via dai loro ricoveri improvvisati, per fuggire, non sapendo neanche fin dove potranno arrivare, viste le loro condizioni.

Paragrafo XII[modifica wikitesto]

Dunant descrive le dure giornate del 25, 26 e 27 giugno 1859: esalazioni mefitiche inquinano l’aria, rendendola irrespirabile, il numero di infermieri è insufficiente, arrivano continuamente feriti da Castiglione delle Stiviere. Dunant racconta della sua esperienza personale tra i feriti della battaglia del giorno precedente. Narra del timore che alcuni feriti avevano di farsi inumidire le ferite con l’acqua fredda, per paura che questa producesse vermi. Racconta delle modalità con cui soccorreva i malati e feriti e come pianificava il soccorso sul campo, riunendo un certo numero di donne del popolo, organizzava coloro che dovevano dar da mangiare, da bere, curare le ferite o lavare i corpi sanguinanti. Dunant racconta dei primi soccorsi organizzati in una chiesa di Castiglione. Le ragazze del paese con la loro bellezza e bontà riuscivano a portare un po’ di coraggio e serenità ai malati, i volenterosi ragazzi del quartiere si adoperavano per riempire secchi, bidoni ed annaffiatoi di acqua, distribuendo brodo, pane e zuppa.

Castiglione delle Stiviere, lapide commemorativa

Le donne del paese donarono tutta la loro vecchia biancheria, Dunant invia il suo stesso cocchiere a cercare delle provviste. Nuove leve si aggiungono al nucleo di soccorsi guidato da Dunant, tutti desiderosi di dare una mano, curiosi. Vi sono turisti, ufficiali e soldati semplici, un giornalista, un sacerdote. Molti svengono a causa di certi spettacoli strazianti. Un negoziante si dedica alla medicazione delle piaghe e a scrivere per i moribondi delle lettere d’addio alle loro famiglie. L’intendente francese, stabilitosi a Castiglione, accorda l’autorizzazione di sfruttare i prigionieri in buona salute negli ospedali. I medici si dedicano ormai alla cura dei feriti di ambedue gli eserciti. Anche i feriti mostrano grande riconoscenza per l’opera di Dunant. Alcuni dei feriti nemici rifiutano le cure per diffidenza, altri, invece, mostrano sincera riconoscenza. Le donne di Castiglione seguono l’esempio di Dunant e ripetono con commozione il famoso “Tutti fratelli”. Dunant dice di loro: “Nulla le ha disgustate, stancate o scoraggiate e la loro umile dedizione non ha voluto fare i conti né con le fatiche, né con la ripugnanza, né con i sacrifici”. Dunant narra anche di come tutto ciò ha segnato profondamente la sua esistenza: “Succede che talvolta, tutto ad un tratto, il cuore si spezzi, e come colpito all'improvviso da una amara ed invincibile tristezza, alla vista di un semplice incidente, di un fatto isolato, di un dettaglio imprevisto, che va più direttamente all'anima, che conquista il nostro intimo e che scuote tutte le fibre più sensibili del nostro essere”. Si scorge qui l'idea che darà animo alla Croce Rossa.

Paragrafo XIII[modifica wikitesto]

Le strade di Castiglione si calmano, adesso il numero di feriti che arriva è accettabile. Il personale sanitario è ben organizzato: a Montechiaro ci sono tre piccoli ospedali locali funzionanti grazie alle donne del luogo. A Guidizzolo gli aiuti sono localizzati in un grande castello, a Volta vi è un antico convento trasformato in caserma. A Cavriana si ospitano feriti nella chiesa principale. Adesso le ambulanze sono ben tenute, gli abitanti meno turbati. Dunant racconta del viaggio che intraprese da Castiglione, il 27 giugno, fino a Brescia, il 30 giugno. Brescia è trasformata in un grande ospedale: dalle due cattedrali, alle chiese, ai palazzi, ai conventi, alle caserme, ai collegi. Il Duomo vecchio al centro della città accoglie un migliaio di feriti. “La popolazione accorre numerosa presso di loro e le donne di ogni classe sociale portano in abbondanza arance, gelatine, biscotti (…)”. La popolazione di Brescia, che ammontava a circa quarantamila abitanti è quasi raddoppiata per la presenza di oltre trentamila feriti o malati. Ci sono centoquaranta medici, “coadiuvati da studenti di medicina e da un piccolo numero di persone di buona volontà”. In questi luoghi, Dunant ritrova molti dei feriti che aveva per primo soccorso a Castiglione, lo riconoscono, “ora sono curati meglio, ma le loro sofferenze non sono finite”. Tra questi Dunant riconosce un eroico volteggiatore della Guardia, il quale era stato colpito da un’arma da fuoco alla gamba. Dunant descrive minuziosamente tutta l’operazione di salvataggio del ferito e l’amputazione dolorosissima dell’arto al terzo superiore della gamba, l’ansia fredda del medico, l’inesperienza dell’infermiere. Si descrivono alcune pratiche terapeutiche, alcune sofferenze emotive negli ospedali: “A volte si cerca invano di richiamare in vita chi qualche istante prima parlava ancora con voi”. Gli Austriaci non hanno gli stessi privilegi di cui godono i Francesi, Dunant fa di tutto per poterli assistere, “i loro sguardi dicono più di ogni possibile ringraziamento”. Negli ospedali venne portato anche il tabacco, perché ci si rese conto che questo era un ottimo metodo per tranquillizzare i pazienti prima o durante l’amputazione di un arto, “molti sono stati operati con la pipa in bocca e molti sono morti fumando”. Ovunque Dunant era ben accolto, unico diniego venne da un certo conte Calini, un medico lombardo, il quale non acconsentì, nell’ospedale di San Luca, i doni di sigari, con dispiacere dei degenti. “Questo piccolo contrattempo non mi fermò e debbo dire che quello fu il primo ostacolo incontrato e la prima difficoltà, sebbene in se stessa molto piccola, che mi si presentasse”. Per le strade sono in molti a fermare Dunant, per chiedergli di “fare da interprete presso gli ufficiali francesi feriti, comandanti, capitani o luogotenenti che hanno voluto ospitare nelle loro case e a cui offrono tutte le cure più solerti e affettuose (…) quando il loro malato muore, provano un’autentica afflizione”. Si comincia ad essere più organizzati anche nell’annotare i nomi ed i numeri dei morti, cosa che a Castiglione non avveniva. Si cominciano anche a fare raffronti sul trattamento dei feriti da parte degli Austriaci, questi “lasciavano morire senza cure i feriti dell’esercito franco-sardo”. Una nobildonna di Cremona, però, “consacrata con tutto il suo cuore agli ospedali, si premurò di testimoniare la sua disapprovazione, dichiarando di circondare delle stesse cure gli Austriaci e gli alleati, e che ella non faceva differenza fra amici e nemici <<Perché -aggiungeva- Nostro Signore Gesù Cristo non ha affatto stabilito simili distinzioni tra gli uomini quando si tratta di far loro del bene>> ”. Dopo otto o dieci giorni, però, i Bresciani erano molto affaticati e spossati. Alcuni cittadini inesperti o poco avveduti avevano portato nelle chiese o negli ospedali del cibo spesso nocivo per i feriti, per cui fu necessario impedire a chiunque di entrare, alcuni pertanto decisero di rinunciare alle attività di volontariato, dal momento che si doveva avere un permesso e fare delle pratiche per ottenerlo. Gli stranieri, che volevano prestare servizio come interpreti, venivano scoraggiati. Gli unici a non essere rifiutati erano gli “infermieri volontari ben scelti e capaci, inviati da associazioni aventi l’approvazione ed il permesso delle autorità”.

Paragrafo XIV[modifica wikitesto]

I feriti per i quali i medici dicevano che non sarebbe stata efficace per loro alcuna cura morivano dimenticati ed abbandonati. Meglio per loro morire in battaglia che dopo una dolorosa agonia in ospedale, a coloro che morivano secondo queste modalità non rimaneva neanche la gloria di esser morti in battaglia. Dunant descrive il periodo immediatamente successivo alla guerra come un periodo in cui l’entusiasmo si era smorzato e si viveva soltanto la sofferenza come conseguenza del conflitto appena conclusosi. La battaglia viene considerata come un “disastro europeo”, che provocò molti danni e vittime: “È nei numerosi ospedali della Lombardia che si poteva vedere e apprendere a che prezzo si acquista quello che gli uomini chiamano pomposamente la gloria e quanto cara si paghi questa gloria!”. Dunant afferma che questo scontro può essere messo a confronto con quelli di Borodino, Lipsia e Waterloo, per l’entità delle perdite che comportò, ossia più di 40.000 caduti. “Fatta astrazione dal punto di vista militare e glorioso, questa battaglia di Solferino era dunque agli occhi di ogni persona neutrale ed imparziale un disastro per così dire europeo”.

Paragrafo XV[modifica wikitesto]

Dunant descrive il trasporto notturno dei feriti da Brescia a Milano, spettacolo drammatico quanto commovente: “Ad ogni stazione erano state costruite delle baracche lunghe e strette per ospitare i feriti”, c’è dappertutto della brava gente disposta ad aiutare chi ha più bisogno. Si sottolinea, ancora come nel resto del libro, la grande generosità che connota i cittadini italiani, dai giovani alle donne. Anche le ricche famiglie, desiderose di dare un po’ di aiuto, offrono le loro carrozze per accompagnare i feriti “fino alla soglia dei palazzi e delle case ospitali, dove li attendono le cure più assidue”. Addirittura ogni famiglia vuole avere presso di sé dei feriti francesi e cerca di sopperire, con ogni sorta di buoni comportamenti, la privazione della patria, dei famigliari e degli amici. Molte illustri dame milanesi mostrano gran sollecitudine continuamente, “trascorrendo mesi interi a fianco dei letti di dolore dei malati, di cui diventano gli angeli custodi”. Tutti questi favori vengono elargiti con umiltà, senza ostentazione, per questo, secondo Dunant, sono degni di ammirazione. Alcune di queste nobildonne erano delle madri, “i cui abiti di lutto rivelavano perdite dolorose molto recenti”, che cercavano di aiutare i francesi come se fossero stati loro figli. Tra queste, la signora Verri-Borromeo, presidente del grande comitato centrale di soccorso, che si occupava della raccolta di bende, filacce e materiale di questo genere a pro dei feriti, e che riusciva a dedicare sempre un po’ del suo tempo agli ammalati, per diverse ore al giorno, sfogliando delle letture. Un'altra donna impegnata assiduamente nel volontariato era la superiora delle orsoline, suor Marina Videmari, che dirigeva, con le sue consorelle, un ospedale divenuto modello di ordine e pulizia. I francesi vengono accolti con grande gratitudine, le loro camicie sporche di sangue vengono sostituite con delle altre pulite. Uomini un tempo forti e robusti guardano ormai al futuro con rassegnazione, mutilati si vedono già come oggetto di commiserazione e pietà altrui. Inoltre l’autore fa riferimento a fatti che secondo lui rimarranno nell’ombra nella storia, poiché ritenuti secondari, e quindi ritiene opportuno citarli: un medico francese che, mettendo da parte i suoi antichi rancori contro un austriaco che da bambino lo aveva reso sordo, cura i nemici con maggior cura e dedizione degli alleati, avendone grande compassione; una suora della carità che vedendo un sergente degli zuavi molto in pena sia per la sua condizione che per la sua mamma, inferma, per la quale lui era l’unico mezzo di sostentamento, decide di aiutarlo economicamente, inviando del denaro come pensione per la povera madre. Lui, povero, ad un’ulteriore offerta di aiuto da parte della suora risponde dicendo di destinare quel denaro a chi era più bisognoso di lui, sperando di poter presto riprendere a lavorare. Un’altra gran dama di Milano aiutò un giovane a realizzare il suo estremo desiderio, ossia di riuscire a rivedere la madre prima di morire.

Paragrafo XVI[modifica wikitesto]

A coloro che, leggendo il suo libro, si chiedevano il perché Dunant si ostinasse a descrivere queste lacrimevoli scene di dolore, egli rispondeva proponendo un’altra domanda, che rappresenta in fondo la prima vera idea di Croce Rossa: “Non ci sarebbe modo, durante un periodo di pace e di serenità, di costituire delle società di soccorso il cui scopo sarebbe quello di far curare i feriti, in tempo di guerra, da volontari zelanti, vocati e ben qualificati per un simile compito?”. Ogni giorno agiscono inventori, che inventano mezzi di distruzione sempre più potenti. La situazione degli animi in Europa fa prevedere delle guerre che sembrano inevitabili in un futuro più o meno lontano. Così Dunant propone: “Perché non approfittare di un periodo di relativa tranquillità e di calma per studiare e cercare di risolvere un problema di tanta importanza e così universale, sotto il duplice punto di vista dell’umanità e del cristianesimo?”. Inoltre Dunant è consapevole del fatto che il suo libro provocherà riflessioni da parte di scrittori e pensatori, frattanto auspica che questo susciti attenzione e simpatia da parte di coloro che sono dotati di un animo elevato o di un cuore empatico. Inizia ad abbozzare la struttura delle società di Croce Rossa, dicendo che esse dovrebbero rimanere inattive nei periodi di pace, ma prepararsi per i tempi di guerra.” Dovrebbero avere l’appoggio dell’autorità del paese d’origine”, accogliere uomini noti e stimati e tutti coloro che “spinti da sentimenti di vera filantropia accettassero di dedicarsi momentaneamente a questa opera di carità, che consisterebbe nel portare (…) soccorsi e cure sul campo di battaglia nel momento stesso del conflitto; poi, proseguire negli ospedali ad assistere i feriti fino alla fine dell’intera convalescenza. Nel mondo ci sono molte persone votate al bene, molte persone desiderose di pace ed abnegazione. Altri due personaggi distintisi per la devozione eroica con cui aiutarono molti bisognosi furono: san Carlo Borromeo, Miss Florence Nightingale, la quale, insieme alla granduchessa Hèlene Paulowna di Russia, lasciò San Pietroburgo con circa trecento signore che la seguirono per recarsi a fare le infermiere negli ospedali della Crimea. Sydney Herbert, ministro della guerra dell’impero britannico, la invitò ad andare ad assistere i soldati inglesi in Oriente, essa partì con trentasette donne inglesi, per Costantinopoli e Scutari, nel novembre del 1854, per offrire cure ai numerosi feriti dell’Inkermann. Dunant racconta così l’opera della Nightingale: “Si sa tutto quello che il suo appassionato amore per l’umanità sofferente le ha fatto compiere durante questo lungo e sublime sacrificio”, molte opere buone sono rimaste sconosciute solo perché non hanno avuto appoggio da parte di simpatie collettive ed organizzate.

Paragrafo XVII[modifica wikitesto]

“Se una società internazionale di soccorso fosse esistita al tempo di Solferino e se infermieri volontari si fossero trovati a Castiglione il 24, 25, 26 giugno a Brescia nello stesso periodo, come anche a Mantova o a Verona, quale inestimabile bene avrebbero potuto fare!”. Dunant auspica la nascita di queste società. Racconta di come già le donne sprovvedute di Castiglione avevano già fatto, essendo tuttavia delle persone che mancavano della preparazione necessaria alle cure, donne che avevano bisogno del supporto di qualcuno esperto nel campo e magari preparato in anticipo ad agire. Se, infatti, vi fossero stati aiuti per poter provvedere al servizio di ritrovamento dei feriti nella piana di Cedole, se vi fossero stati dei mezzi di trasporto per i feriti più perfezionati si sarebbero evitati molti morti. Dunant sosteneva che i feriti dovessero far nascere la voglia di migliorare gli aiuti. Molti non sarebbero morti maledicendo qualsiasi cosa, bestemmiando contro tutto e tutti se avessero avuto accanto qualcuno preparato a capirli, ascoltarli e consolarli. Nonostante lo zelo della popolazione, molte erano le cose che rimanevano da fare, “uno spiegamento di carità così bello (…) è stato completamente insufficiente e senza proporzione alcuna rispetto all’estensione dei mali da soccorrere”. Oltretutto i soccorsi erano mossi dalla riconoscenza nei confronti dell’esercito alleato, anche se alcuni curarono i nemici austriaci. Molti, a causa di febbri contagiose, si allontanarono dai campi e dagli ospedali per paura di essere colpiti dalle malattie. Dunant dice che, sebbene gli infermieri di professione fossero indispensabili, era necessario che fosse formato un corpo di volontari, poiché “troppo spesso gli infermieri salariati diventano rudi, o il disgusto li allontana dalla fatica e li rende pigri (…) per un impegno di tale natura, non ci vogliono dei mercenari”. Il fattore tempo, oltretutto, è importantissimo, difatti Dunant si accorse che molti morivano perché non venivano soccorsi tempestivamente. Gli “infermieri volontari”, come li chiama Dunant, avrebbero dovuto essere riconosciuti dalle autorità di ogni paese, in modo da essere facilitati e sostenuti nella loro missione. Auspica, inoltre, la cooperazione dell’opinione pubblica, poiché è solo con il consenso della maggioranza “che si può sperare di raggiungere lo scopo in oggetto”. Il bisogno di Dunant era di rivolgersi a tutti, uomini e donne, di tutte le classi sociali, senza distinzioni di sorta, poiché ciascuno, con le sue differenti capacità, desse un contributo notevole a quest’iniziativa. Anche gli scrittori potevano dare una mano, scrivendo sull’ argomento, “che abbraccia l’umanità intera (…) poiché nessuno può dirsi con certezza per sempre al riparo dai rischi della guerra”. Avviandosi alla conclusione del suo Souvenir, Dunant da un’idea: i governanti dovrebbero, in occasioni straordinarie, incontrarsi in congressi, “per formulare qualche principio internazionale, convenzionale e consacrato, che, una volta accettato e ratificato, servisse di base a delle Sociètà di soccorso per i feriti nei diversi Paesi d’Europa”. Oltretutto è opportuno mettersi d'accordo ed adottare delle misure preventivamente alla guerra, poiché in tempi bellicosi si è più mal disposti alla tolleranza. Fa poi appello alla solidarietà e bontà dei sovrani: “quale sovrano rifiuterebbe il suo appoggio a queste Società e non sarebbe felice di dare ai soldati del suo esercito la piena assicurazione che saranno immediatamente e convenientemente curati se dovessero essere feriti?”. I militari che difendono la propria Patria meritano la sollecitudine della stessa. Queste società nascerebbero dalla necessità, in un tempo che si dice connotato da incivilimento e progresso, di mitigare gli effetti delle guerre, che, con il migliorare delle tecniche di distruzione, possono portare a veri e propri orrori. È vero che quest’opera richiederebbe molto denaro per essere concretizzata, ma è anche vero che, quando la gente si sente colpita nel profondo e negli affetti più cari, diventa più buona e generosa. Dunque Dunant conclude con una serie di interrogativi suasori, l’ultimo dei quali dice: “In queste sole considerazioni non ci sono ragioni più che sufficienti per non lasciarsi prendere alla sprovvista?”.