Discussione:Tazza Farnese

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Posso assicurare che quanto scritto è di mia propietà e si tratta di un mio studio personale su cui non vi è altro possessore. Il manufatto è stato da me pubblicato in diversi articoli di mia spettanza e di ia proprietà. Ecco il mio studio, che dà una diversa interpretazione e cronologia alla Tazza: La Tazza Farnese ovvero “L’Apoteosi di Antinoo”


La coppa, un cammeo in agata sardonica di 20 cm di diametro, è certamente l'esempio più celebre della glittica ellenistica, unico per il livello formale, per la complessità della scena figurata e per la sua importanza storica. Ricavata da un'antica pietra, presenta all'esterno, in rilievo, una magnifica immagine apotropaica della Medusa, dalle lunghe chiome, entro le quali si notano due alette e solo due serpenti, mentre lungo gli orli del disco, nell’interno di una pelle serpentina squamosa, si vedono altri rettili, forse vipere. Nella parte interna invece la scena, composta da otto figure è ambientata in Egitto, come indica la presenza della Sfinge, rappresenta un'allegoria, o meglio, come io credo una scena religiosa, e, per questo, l’opera venne utilizzata nelle cerimonie rituali ufficiali. Sulla interpretazione e sulla datazione non si è ancora raggiunto un accordo definitivo tra gli studiosi, poiché lo stile fortemente eclettico aggrava la risoluzione di questi problemi. Eppure io credo, e qui lo dimostrerò, che proprio tale eclettismo possa far datare il pezzo ad epoca piuttosto tarda, addirittura romana: al II sec. d. C., in età adrianea per l’appunto. La Tazza Farnese è testimonianza artistica eccezionale: fu incisa in un unico pezzo di agata sardonica a quattro strati, decorata a rilievo su ambedue le facce e ha la forma della phiale, la coppa usata nelle libagioni. Al centro, simbolo dell'Egitto, siede una figura in abito isiaco, verosimilmente Iside stessa (qui anche come Euthèneia, raffigurazione simbolica della piena del fiume), nella sua assimilazione a Demetra (tiene nella mano destra alcune spighe di grano), dea delle messi; a sinistra, al posto di Ade/Plutone, assimilato a Osiride, come i più ritengono, io credo vi sia l’immagine divina del dio Nilo con la cornucopia, simbolo appunto di fecondità e di abbondanza (già il Furtwaengler nel 1900, seguendo una teoria che era già stata del Visconti, aveva affermato che il vecchio seduto ed appoggiato ad un albero poteva essere la personificazione del fiume Nilo); al centro Horus/Trittolemo con il giogo o il timone dell'aratro sollevato, il sacco delle sementi e nella mano sinistra un coltello; a destra due figure femminili, due Horai, personificazioni delle Stagioni o delle inondazioni del Nilo (dietro ad esse vi sono delle spighe): una regge una coppa, simbolo delle piogge e l’altra un corno di abbondanza, simbolo del raccolto. Al di sopra si librano in volo due giovani, uno dei quali soffia nella buccina. La maggior parte degli studiosi ritiene che ambedue siano i venti Etesii, che spirano durante l'estate e che, secondo un’antica tradizione, provocano la crescita del Nilo. Per costoro la scena sarebbe un’allegoria della prosperità del regno tolemaico in Egitto. Così la triade divina rappresentata nella scena interna raffigurerebbe, secondo alcuni, Cleopatra III, il marito Tolomeo VIII (morto nel 116 a.C.) e il figlio Tolomeo X Alexandros; secondo altri, invece, vi è rappresentata Cleopatra VII, ultima regina d'Egitto, sconfitta da Ottaviano nel 31 a.C. Seguendo queste ipotesi, dopo la conquista dell'Egitto ad opera dei Romani, la Tazza sarebbe entrata a far parte del Tesoro di Stato di Roma; trasferita in seguito a Costantinopoli, ritornò verosimilmente in Occidente dopo la presa di Bisanzio nel 1204 da parte dei crociati e deiu veneziani. Di sicuro, però, sappiamo che dalla corte di Federico II di Svevia passò agli inizi del XV secolo, alla corte persiana di Herat o Samarcanda e poco dopo arrivò a Napoli alla corte di Alfonso di Aragona. Nel 1471 si trovava a Roma, qui pervenuta grazie all’acquisto di papa Paolo II. A fine Quattrocento, infatti, Pietro Barbo, eletto papa con il nome di Paolo II, portò da Venezia a Roma la cultura umanistica del nord e il collezionismo archeologico, istallando la sua collezione nel palazzo di San Marco a Roma, l’attuale Palazzo Venezia. Tra le preziosità possedute dal papa umanista spiccano alcune monete antiche appartenute a Pisanello e cammei preziosi come la gemma di Apollo e Marsia acquistata in seguito dai Medici e finita in collezione Farnese a seguito del matrimonio di Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’ Medici, con Ottavio Farnese. Molti altri oggetti preziosi, tra cui la celebre Tazza Farnese, sono elencati nell’inventario del 1457, redatto forse dal celebre umanista-archeologo Ciriaco d’Ancona. La tazza venne poi acquistata da Lorenzo il Magnifico e in seguito passò in possesso di Margherita d'Austria e, alla morte di questa, alla famiglia Farnese, per cui, come tutte le collezioni archeologiche farnesiane, è oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Orbene io ritengo che la bellissima tazza sia stata fatta eseguire dall’imperatore Adriano proprio ad Alessandria d’Egitto, nel 130 d.C., poco dopo la morte del suo favorito Antinoo, per le pratiche religiose connesse al nuovo culto da poco diffuso per tutto l’impero. La tazza, come detto, è stata fatta eseguire proprio per pratiche cultuali, si tratta infatti di una patera, forma vascolare adatta per le libagioni sopra gli altari e in particolare per le cerimonie funebri, in cui la libagione era una cerimonia molto importante. Il foro al centro, ancor oggi presente, potrebbe essere dovuto ad un innesto per un umbone di altro materiale, forse d’oro o d’argento; e ciò si spiegherebbe come tentativo di avvicinare l’oggetto alla “patera mesonphalos”, adatta particolarmente alle cerimonie sacre di sacrificio. Naturalmente nella complessa scena dovrebbe essere rappresentato proprio Antinoo. Ebbene a tutti appaiono particolarmente evidenti, in alto, mentre volano nel cielo, due figure govanili: l’una è nuda e sospesa con la mano ad un manto, spinto in alto dal soffio del vento; l’altro è la personificazione di questo vento, forse Zefiro, il vento primaverile, figlio di Venere, per questo definita Zefirite, e quindi degli innamorati, come fu Antinoo del suo imperatore Adriano. Io ritengo che questa mia ipotesi interpretativa non ostacoli le interpretazioni delle altre figure, che anzi rappresenterebbero quelle divinità nilotiche, grecizzate, presso il cui consesso viene appunto introdotto, grazie all'apoteosi dovuta all'immersione e alla morte nel Nilo, il giovane dio. In base a quest’ultima interpretazione io ritengo che la bellissima gemma, senza mai andare sottoterra, sia passata di mano in mano da un imperatore all’altro sino a costituire parte fondamentale del ricchissimo tesoro imperiale, da Costantino trasferito a Costantinopoli. Di qui deve essere poi giunto nelle mani di Federico II, dopo il 1204, quando i Crociati conquistarono Costantinopoli, dove del resto erano stati trasferiti innumerovoli capolavori dell’antichità. Questa più precisa interpretazione cultuale ben spiega come all’esterno della Tazza sia incisa la grande maschera apotropaica di Gorgone, da interpretarsi, non come spiegano alcuni, come minaccia nei confronti dei nemici esterni dello Stato, ma come simbolo di immortalità e di deificazione, ben adatti ad un giovane dio come Antinoo (inoltre l’immagine della Gorgonie si ritrova spesso in contesti funerari). Medusa è una delle tre Gorgoni, figlie di Forco e di Ceto, dèi della prima generazione divina. Sono creature spaventose, espressioni dell'eccesso, letali per l'uomo, che se incontra il loro sguardo viene trasformato in pietra. E’, dunque, un simbolo di morte divina. Esiodo ricorda che "Medusa era mortale mentre le sue sorelle non dovevano conoscere né la morte né la vecchiaia. Ella sola in compenso vide adagiarsi accanto a sé il dio dal cuore d'azzurro nella tenera prateria, in mezzo ai fiori primaverili" (Teogonia, 275-280). L'impresa dell'uccisione di Medusa per mano di Perseo è narrata da Ovidio nelle Metamorfosi, principale fonte di questo mito nel Medioevo e nel Rinascimento. Perseo, scrive il poeta latino, "attraverso rocce sperdute e impervie attraverso orride forre, giunse alla casa della Gorgone, e qua e là per i campi e per le strade vedeva figure di uomini a di animali tramutati da esseri veri in statue per aver visto Medusa; lui comunque guardò la forma dell'orrenda Medusa, riflessa nello scudo di bronzo che portava al braccio sinistro e mentre un sonno pesante gravava sui serpenti e su lei stessa, le spiccò il capo dal collo" (IV, 776-785). Inoltre, secondo Apollonio Rodio, il poeta epico ellenistico (295 circa - 215 a.C.), dalle gocce di sangue che cadevano dal capo mozzato di Medusa, mentre Perseo volava verso casa, nacquero i serpenti velenosi che popolano il deserto. Ma dell’uccisione della Medusa, Ovidio ci dà anche altri particolari, che testimoniano una serie di attenzioni rispettose che l'eroe ha nei confronti del mostro che ha appena vinto. Scrive Ovidio: "Quanto a Perseo, attinge dell'acqua e si lava le mani vittoriose; ma perché la ruvida rena non rovini la testa irta di serpi della figlia di Forco, Medusa, egli rende più soffice il terreno con uno strato di foglie, vi stende sopra dei ramoscelli nati sott'acqua, e posa la testa sul mucchio, a faccia in giù. I ramoscelli ancora freschi e vivi assorbono nel midollo poroso il potere del mostro, e a contatto con questo s'induriscono, e assumono nel legno e nelle fronde, una rigidità inusitata." La tazza, dunque, creata ad Alessandria d’Egitto per volontà dell’imperatore Adriano, potrebbe essere stata impiegata in funzione rituale. E’ stato notato che la scena raffigurata nell’interno, e la grande testa di Medusa che ne fregia l’esterno, manifestano caratteri stilistici e tecnici assai differenti fra di loro: classicamente misurata, composta, perfino un po’ accademica, la prima; dinamicamente agitata, tutta pervasa di tragicità, simile a quella dell’ellenismo barocco, la seconda. Di solito si ritiene che questa differenza di stile sia dovuta a due diversi artisti o forse a due epoche diverse. Io ritengo, invece, con questa mia interpretazione, di poter risolvere il problema, pensando che la prima sia dovuta al classicismo adrianeo e che la seconda si debba a quelle correnti di ripresa dello stile barocco ellenistico presenti in quell’età, non solo in Asia Minore (vedasi l’importante scuola scultorea di Afrodisia), ma anche in altri centri di grandi tradizioni artistiche, quale ad esempio la stessa Alessandria d’Egitto. La composizione è lontana dalla densità che presentano, invece, i fregi dell’altare di Pergamo, mentre la rappresentazione dello spazio, trattata in modo attenuato e classicistico, ricorda la pittura romana (si veda il cosiddetto II stile pompeiano). La difficoltà di datazione è soprattutto data dal fatto che non possediamo un solo esemplare di artigianato di alto valore che possa essere paragonato alla tazza (questa considerazione, però, mette in evidenza l’eccezionalità dell’opera voluta espressamente da una personalità unica come appunto l’imperatore Adriano). Può anche darsi che la raffigurazione della piena e della fertilità del Nilo, pur nell’ipotesi di una secondarietà del mito di Antinoo, possa alludere all’età aurea (evidente allora risulterebbe il raffronto con opere romane come la patera d’argento di Aquileia e quella di Parabiago). In questo caso vi sarebbe un collegamento fra la raffigurazione di una mitica e felice età dell’oro ed un grande sovrano (che comunque potrebbe rimanere Adriano, dopo il suo viaggio in Egitto), il cui impero porterà prosperità e benessere (si ricordi il testo geroglifico dell’obelisco antioneo oggi sul Pincio). Certamente un simile capolavoro è stato realizzato per un evento straordinario e non può rappresentare, io credo, esclusivamente la fertilità di un fiume pur importante quale il Nilo. L’occasione, del tutto straordinaria, venne data dalla morte di Antinoo, proprio nel fiume qui rappresentato, fiume che, oltre ad essere fecondo e assicuratore di vita per l’Egitto, detto dai suoi antichi abitanti proprio “Kemet” ovvero “le terra nera di quel fiume”, era anche apportatore di eternità per chi vi moriva. Fu proprio per questo motivo che Antinoo, il giovane nudo rappresentato in alto, mentre è spinto dal fecondo e leggero soffio di Zefiro, ascese direttamente al cielo, in apoteosi, incarnandosi in una stella della costellazione dell’Aquila. Il mito di Antinoo, credo, dunque, sia la “chiave” di risoluzione del mistero di questo capolavoro artistico dell’antichità. Nemmeno il sacrificio finale ha potuto dare alla vita di Antinoo un valore positivo, ma anzi è stata l’ultima conferma di questa conclusione di inutilità del vivere stesso. Si trattò dunque di un tentativo di sincretismo religioso, imposto da un imperatore con un decreto, che ebbe fortuna ulteriore proprio perché espresse un sentimento umano comune: ciò avveniva in un momento psicologico, tipico di quei tempi, di ricerca senza base, di inquietudine senza forma, di religiosità senza profondità, che alla fine sfociò nelle teorie filosofiche dei neoplatonici. Fu l’ultimo grande mito dell’antichità, l’ultimo, forse disperato, tentativo di far rinascere la classicità in un’epoca ormai avviatasi verso una visione più dolorosa della vita. La vicenda di Antinoo è al riguardo emblematica, perché, alla fredda e retorica compostezza di un esangue classicismo di maniera, seppe aggiungere una sensibile, quasi fisica, malinconia, il rimpianto cioè di quella bellezza ellenica, che il più pratico spirito romano aveva nei decenni precedenti deliberatamente dimenticato, se non addirittura sconfessato. RAFFAELE MAMBELLA

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