Discussione:Roma (nave da battaglia 1940)

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Marina
Guerra
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L'ARMISTIZIO DELL'ITALIA E IL DRAMMA DELL’AMMIRAGLIO CARLO BERGAMINI COMANDANTE IN CAPO DELLE FORZE NAVALI DA BATTAGLIA

Nelle condizioni di resa fissate dagli anglo-americani, era stato stabilito che al momento dell’entrata in vigore dell’armistizio, siglato a Cassibile il 3 settembre 1943, il governo italiano doveva dare ordine alla flotta, al naviglio mercantile e agli aerei militari di dirigere verso le basi degli Alleati e di distruggere le navi e gli aerei impossibilitati a partire per impedire che cadessero in mano ai tedeschi. Per l’attuazione di detti movimenti, pretesi dagli Alleati sotto la promessa che la consegna della flotta e degli aerei avrebbe permesso di concedere all’Italia condizioni di pace più favorevoli, furono consegnati al generale Giuseppe Castellano, che firmò la resa in nome del capo del governo maresciallo Pietro Badoglio, vari documenti. Tra essi vi era un promemoria del commodoro Royer Dick, capo di stato maggiore del Comandante navale alleato, ammiraglio Andrew Browne Cunningham, ove erano stabilite le rotte e le modalità tecniche per il trasferimento delle navi italiane nei porti sotto controllo degli anglo-americani. Come è noto Badoglio e il Capo del Comando Supremo, generale Vittorio Ambrosio mantennero il più assoluto riserbo sui contatti con gli Alleati fino alla firma dell’armistizio, che essi stessi non sapevano quando sarebbe entrato in vigore poiché gli anglo-americani, non fidandosi, si erano riservati di farlo conoscere soltanto poche ore prima del loro sbarco sulle coste campane del Golfo di Salerno. A Roma, basandosi su una ipotesi di Castellano, si pensò che l’armistizio sarebbe entrato in vigore il 12 settembre, ma tale supposizione si dimostrò errata poiché, come vedremo, il generale Eisenhower, Comandante in Capo Alleato, nel corso del giorno 8 fece sapere che l’accordo con l’Italia sarebbe stato diramato nella serata. Vediamo ora come l’ammiraglio de Raffaele Courten, Ministro e Capo di Stato Maggiore della Regia Marina, fu informato dell’armistizio, in base ad una lettera dell’allora Sottocapo di Stato Maggiore, ammiraglio Sansonetti, spedita nel dopoguerra al Ministro della Difesa Emilio Taviani, e nella quale riferì: “Che si trattasse di un’ armistizio’ fu comunicato al Ministro e Capo di Stato Maggiore della Marina – sotto il vincolo del più assoluto segreto, anche verso di me, suo diretto collaboratore – soltanto il 3, quando invece l’armistizio era già stato firmato. Le clausole navali – le sole veramente importanti – gli furono comunicate solo il giorno 6. Perciò la mattina del 7 de Courten portò al Comando Supremo – evolle essere accompagnato da me per testimonianza – una vibranteprotesta scritta per essere stata tenuta la Marina completamente all’oscuro di trattative che così direttamente la riguardavano.” Il generale Ambrosio rispose a de Courten che il “Promemoria Dick” poteva considerarsi lettera morta, poiché era stato richiesto agli Alleati di poter concentrare tutte le navi alla Maddalena, e si poteva presumere che ciò sarebbe stato concesso, mentre in realtà, come avremo modo di vedere, fu nettamente rifiutata dagli anglo-americani, perché non prevista dai termini dell’armistizio.

De Courten prima di trasmettere l’ordine, confermato dal Re, Vittorio Emanuele III, di fare dirigere le navi verso i porti Alleati,il 6 settembre si consultò con il grande ammiraglio Paolo Thaon de Revel. Solo dopo aver ricevuto da quest’ultimo prestigioso rappresentante della Marina “il consiglio di obbedire lealmente” agli ordini che arrivavano dal Governo e dal Sovrano, de Courten informò degli avvenimenti il suo diretto collaboratore Sansonetti e lo incarico di convocare telefonicamente per il mattino seguente a Supermarina gli ammiragli comandanti delle squadre navali e dei dipartimenti.

Nella riunione che ebbe inizio alle ore 16.00 del 7 settembre, de Courten non fece parola dell’importante “Promemoria Dick”, che sarebbe stata una rivelazione dell’armistizio, ma nello stesso tempo cercò di far capire la situazione politica e militare che si stava evolvendo, dando istruzioni intese a fronteggiare la possibilità di un colpo di mano contro il Governo per riportare il fascismo al potere. “Quali potessero essere le cause determinanti della minaccia tedesca – ha scritto l’ammiraglio Alberto Da Zara, allora Comandante della 5^ Divisione Navale di Taranto, nel suo Diario degli avvenimenti – il Ministro non disse né noi chiedemmo. Nondimeno non sfuggì a tutti che non si trattava delle solite direttive contornate di “se” e di “ma” cautelasi e prudenti; erano ordini precisi e perentori di un pericolo imminente che occorreva fronteggiare con la massima energia”. Tali ordini, letti ai presenti da Sansonetti, ed autorizzati ad essere trascritti da ogni ammiraglio nel proprio taccuino, prescrivevano tra l’altro di trasferire, alla ricezione dell’ordine esecutivo “Attuate misure ordine pubblico promemoria n. 1 Comando Supremo”, tutte le navi nei porti della Sardegna , Corsica, Elba, Selenico e Spalato, e quelle mercantili nei porti a sud di Livorno e Ancona. Con tale decisione gli alti responsabili del Governo e delle Forze Armate italiane, oltre a tentare logicamente di evitare la cattura del naviglio da parte dei tedeschi, cercavano di eludere le clausole dell’armistizio e del “Promemoria Dick”, che invece prescrivevano l’immediato approdo delle navi in porti sotto controllo degli anglo-americani; e ciò, indubbiamente, finì per rendere gli Alleati più dubbiosi ed esigenti nei confronti degli italiani. Nello stesso tempo si continuò ad ingannare i tedeschi, dal momento che lo stesso giorno 7 l’ammiraglio de Courten assicurò il feldmaresciallo Albert Kesselring, Comandante delle Forze Armate tedesche in Italia, che la Forza Navale da Battaglia dislocata nell’Alto Tirreno sarebbe salpata dalla Spezia e da Genova l’indomani o nella giornata del giorno 9 per intervenire contro il nemico, segnalato in movimento verso il Golfo di Salerno, in una battaglia dalla quale sarebbe uscita vincitrice o distrutta. E per rendere più plausibile verso l’alleato il convincimento che la flotta italiana si apprestava realmente ad affrontare l’ultima battaglia, de Courten il mattino dell’8 settembre inviò il capitano di fregata Virginio Rusca da Kesselring, a Frascati, per concordare, secondo norma già fissate da tempo, la protezione aerea rinforzata da assegnare alle navi italiane, prevista in 30 velivoli (dei quali 20 tedeschi e 10 italiani) per ogni turno di scorta.

Sulle discussioni di resa che si svolsero prima a Lisbona e poi a Cassibile , e che portarono all’armistizio tra gli Alleati e l’Italia, l’ammiraglio Carlo Bergamini, Comandante delle Forze Navali da Battaglia, rimase completamente all’oscuro fino al 7 settembre, quando fu chiamato a Roma assieme agli altri Ammiragli di Squadra e di Dipartimento. Da un colloquio che egli ebbe con de Courten e dalla lettura dell’estratto del Promemoria n. 1 del Comando Supremo letto da Sansonetti, l’ammiraglio Bergamini si rese conto che la flotta italiana, che egli stava preparando per affrontare l’ultima battaglia, non sarebbe andata all’auspicato e disperato combattimento contro la flotta britannica, quando fosse iniziata l’imminente invasione dell’Italia.

Bergamini, rientrò a La Spezia il mattino dell’8 settembre, con istruzioni che tra l’altro tenevano anche conto di un eventuale auto-affondamento della flotta, per non farla cadere in mano ai tedeschi. Questa ipotesi, da attuare all’arrivo della frase convenzionale “Raccomando massimo riserbo”, gli fu confermata da de Courten nel corso della mattinata, dopo che le navi avevano ricevuto l’ordine, compilato da Supermarina alle ore 10.00, di tenersi pronte a salpare in due ore. Ma poi, nelle prime ore del pomeriggio, dopo l’arrivo arrivò a Roma, alle 16.30, di un minaccioso ultimatum trasmesso dal generale Eisenhower, che chiedeva a Badoglio di assumersi subito tutte le sue responsabilità nel combattere i tedeschi e nell’appoggiare lo sbarco alleato a Salerno, e che fu subito dopo seguito, alle 17.00, dalla diramazione attraverso la radio di Algeri dalla notizia che l’Italia si era arresa senza condizioni alle Nazioni Unite, si verificò un radicale mutamento della situazione. Alle 17.00 – riferisce nella sua relazione il generale Giuseppe Santoro, Sottocapo di Stato Maggiore dell’Aeronautica – viene intercettata “una comunicazione relativa alla conclusione di un armistizio”; notizia portata al Capo di Gabinetto del Ministro dell’Aeronautica (Renato Sandalli), generale Aldo Urbani. Santoro è presente. Viene chiesta conferma. Il maggiore Giovanni Vassallo, che si trova al Comando Supremo, conferma. In seguito a questa notizia venne subito ordinato di sospendere le azioni aeree contro gli anglo-americani, e di richiamare gli aerosiluranti in volo inviati contro i convogli diretti a Salerno. Nel contempo, alle 17.30, riferì il generale Ambrosio (Capo di SM Generale) alla Commissione d’Inchiesta per la mancata difesa di Roma, giunse l’ultimatum del generale Eisenhower a Badoglio, il quale “dispose che si riunissero al Quirinale” i capi politici e militari; riunione, non prevista, ma concordata con il Re e passata alla Storia come Convegno della Corona.

L’annuncio dell’armistizio doveva procedere l’inizio dello sbarco di quattro divisioni anglo-americane a Salerno, a cui partecipavano oltre 600 navi. Il piano dell’operazione anfibia, denominato “Avalance”, prevedeva che lo sbarco a Salerno avvenisse nelle prime ore del 9 settembre; e fu proprio sulla base di questo progetto che nelle discussioni dell’armistizio svoltesi tra i generali Giuseppe Castellano e Walter Bedell-Smith (il primo Capo dell’Ufficio Piani del Comando Supremo italiano e uomo di fiducia di Ambrosio, e il secondo Capo di Stato Maggiore del Comandante in Capo Alleato generale Eisenhower) era stato messo in chiaro che la notizia dell’entrata in vigore dell’armistizio sarebbe stata trasmessa da Radio Algeri sei ore prima dell’inizio dell’invasione. Un altro chiaro sintomo dell’armistizio era poi il bombardamento dei Comandi tedeschi di Frascati, che era stato attuato a mezzogiorno di quel giorno 9 da ben 130 fortezze volanti statunitensi B. 17 della 12^ Air Force. Venne invece a mancare, per motivi inspiegabili, un terzo avvertimento, quello della trasmissione di attività tedesche in Argentina, seguita da musica di Verdi. L’ammiraglio Bergamini, le cui potenti stazioni d’ascolto a bordo delle sue navi avevano evidentemente intercettato le notizie diramate degli Alleati, dopo aver chiesto a Supermarina conferma della trasmissione di radio Algeri delle ore 17.00, ricevette dal Ministro della Marina l’ordine di recarsi a Malta per consegnare le sue navi agli anglo-americani, in quanto quella drastica misura era contemplata negli accordi dell’armistizio.

A questo punto la sua reazione, nel respingere una simile imposizione, fu estremamente violenta, tanto che, come hanno riferito l’ammiraglio Sansonetti e il generale Sandalli, Bergamini minacciò di fare affondare la flotta, oppure di dare le dimissioni, perché non intendeva andare a Malta “a fare il guardiano delle navi da consegnare agli inglesi”. In effetti la sua opposizione a recarsi a Malta continuò ad essere molto decisa, tanto che il Ministro della Marina, conversando nel pomeriggio dell’8 settembre con il collega dell’Aeronautica, riferì a Sandalli: “Ho parlato con Bergamini. Non vuole partire. Minaccia di affondare le navi”.

L’acceso scontro verbale tra Bergamini e de Courten, che prospettò al Comandante della flotta l’opportunità di “partire al più presto”, si interruppe quando il Ministro della Marina fu chiamato al Quirinale per il famoso Convegno della Corona, che fu rapidamente organizzato dopo il minaccioso ultimatum del generale Eisenhower. Nella riunione al Quirinale, che iniziò alle ore 18.00, mezz’ora prima che il generale Eisenhower, sempre tramite radio Algeri, desse ufficialmente comunicazione del concluso armistizio tra le Nazioni Unite e l’Italia, l’annuncio del Comandante in Capo Alleato, che secondo gli italiani anticipava la data dell’armistizio di quattro giorni, lasciò in tutti i presenti uno stato di costernazione e di angoscia. E questo perché, basandosi fiduciosamente su un ipotesi comunicata da Castellano, che aveva indicato l’entrata in vigore dell’armistizio probabilmente per il 12 settembre, ogni preparativo per opporsi all’ex alleato era stato pianificato per quella data. Ne seguirono accese discussioni, durante le quali parecchie personalità, tra cui lo stesso ammiraglio de Courten, si dissero propense a respingere l’armistizio; una proposta assurda, che fu respinta dai più ragionevoli, perché avrebbe portato l’Italia nel profondo di un baratro, rendendo furiosi i tedeschi e assetati di vendetta gli Alleati, che già stavano preparando, come immediata ritorsione, il bombardamento di Roma.

Nel frattempo, spiegando a Bergamini quale importanza avesse per il futuro dell’Italia la necessità che la Marina ottemperasse lealmente alle condizioni di armistizio, perché, si sperava, avrebbero influito nell’ottenere condizioni di pace più favorevoli per la Nazione, l’ammiraglio Sansonetti era riuscìto, almeno in parte, a mitigare l’ira del Comandante della flotta e quasi a convincerlo a partire con le sue navi per Malta.

Quando poi Bergamini nel tardo pomeriggio parlò al telefono con de Courten, rientrato in sede dal Quirinale, egli si riservò di dare una risposta affermativa dopo aver riunito i Comandanti della flotta per spiegare quello che doveva essere fatto per il bene della Patria. Occorre anche tener conto che la dichiarazione dell’armistizio portava ad ammiragli, comandanti ed equipaggi della flotta uno stato di tensione immensa, che l’ammiraglio Bergamini, come era suo dovere, dovette giustamente mitigare e rassicurare nel corso del pomeriggio, ed in particolare dopo l’annuncio dell’armistizio fatto da Badoglio alla radio, alle ore 19.15 dell’8 settembre. Nel corso di due riunioni che si svolsero la prima alle 18.00 a bordo della corazzata Roma, la seconda alle 22.00 sulla Vittorio Veneto, presenti tutti i Comandanti delle divisioni e delle navi della flotta che si trovavano a La Spezia, Bergamini – sottolineando l’importanza della gravità della situazione e le misure da affrontare senza esprimersi con frasi esaltanti per l’attività futura della Marina come taluni hanno voluto far credere – face conoscere quanto sapeva degli avvenimenti in corso. Nulla disse sulla destinazione finale delle navi, ma soltanto che dovevano andare a La Maddalena, ove, in effetti, la flotta avrebbe dovuto restare durante la notte sul 10 settembre, e dove erano state inviate, tramite l’ammiraglio Bruno Brivonesi chiamato appositamente a Roma il mattino dell’8, le istruzioni definitive di Supermarina da consegnare, in busta sigillata, allo stesso Bergamini al suo arrivo. Istruzioni, non rintracciate, e di cui, pertanto, non conosciamo il contenuto, ma che dovevano riguardare: la rotta da seguire per raggiungere i porti Alleati; i codici da impiegare nelle comunicazioni; i segnali da adottare, tra cui il famoso pennello nero da issare sugli alberi delle navi; e il comportamento da tenere con le autorità anglo-americane. Occorre però dire, che nella prima riunione delle ore 18.00 Bergamini aveva specificato di non sapere quali sarebbero stati gli ordini che stava attendendo, poiché il tutto era subordinato alle istruzioni che l’ammiraglio de Courten avrebbe ricevuto dal maresciallo Badoglio. Istruzioni, sull’ordine di partenza della flotta, che stavano per essere impartite da Supermarina, e che, secondo quanto scrisse nella sua inconfutabile relazione, inviata a de Courten, il capitano di vascello Aldo Rossi, Capo Ufficio Piani di Supermarina, furono trasmesse per telefono allo stesso Bergamini alle 20.30, assieme alle “condizioni di armistizio e l’ordine di eseguirle”, facendo esclamare l’ammiraglio: “Ora chi lo dice ai Comandanti”. Era quest’ultima un’effettiva e inquietante preoccupazione, che Bergamini fu costretto ad affrontare nel suo secondo colloquio con gli ufficiali della flotta, chiedendo loro, se qualche comandante non si sentiva di partire, doveva dirlo subito. Tutti rimasero in silenzio. Ad un ultimo colloquio telefonico tra de Courten e Bergamini, che si trovava sulla corazzata Vittorio Veneto, sulla quale alle 22.00 aveva convocata un’altra riunione dei Comandanti delle unità della flotta per spiegare loro il significato dell’armistizio e gli ordini che provenivano dal Re e dal Governo ai quali occorreva ubbidire lealmente, vi assistette l’ammiraglio Enrico Accorretti, Comandante della 9^ Divisione Navale . Il colloquio si verificò alle ore 23.00 e fu talmente burrascoso che Accorretti dovette chiudere le porte del locale in cui si trovava assieme a Bergamini, per non far sentire all’esterno le concitate parole del suo superiore che, continuava a rifiutarsi di partire. Questa testimonianza fu riportata, in una lettera spedita nel dopoguerra a de Courten, dallo stesso Accorretti, che scrisse: Bergamini buon anima ti fece molto disperare, io mi misi a chiudere le porte perché ti parlava dal “Vittorio Veneto”…. Io assolutamente senza volerlo sentii tutto il vostro colloquio. Per calmarlo tu affermasti che andassimo a Maddalena dove si troverebbe il Re etc... Se come tu avevi ordinato facevamo con tutte le possibili regole di guerra il viaggio da te ordinato per Malta, accostando la sera come se andassimo altrove e procedessimo a Malta, forse si sarebbe evitata la fine della “Roma”.

Dovendo rispettare le clausole del “Promemoria Dick”, e per convincere Bergamini a lasciare La Spezia al più presto, anche per impedire che le sue navi potessero essere imbottigliate dai tedeschi, de Courten autorizzò il Comandante delle Forze Navali da Battaglia a trasferirsi con la flotta alla Maddalena, “dove si sarebbe trovato il Re” Fu soltanto a questo punto che Bergamini dette al Ministro l’assicurazione che avrebbe ottemperato agli ordini ricevuti, e che sarebbe salpato per la Maddalena con tutte le navi disponibili, comprese quelle che si trovavano ai lavori. In realtà quella della presenza del Re alla Maddalena era una scappatoia, fatta ad arte da de Courten al solo scopo di convincere Bergamini a partire. A quell’ora i paracadutisti tedeschi della 2^ Divisione, muovendo rapidamente da Pratica di Mare, avevano già occupato Ostia e Fiumicino. Essi pertanto minacciavano la strada per Civitavecchia – ove convergevano da nord aliquote della 3^ Divisione meccanizzata – nel cui porto dovevano arrivare l’indomani i cacciatorpediniere Vivaldi e Da Noli, per imbarcare il Re e il suo seguito – una cinquantina di persone con i membri del Governo – che avrebbero dovuto arrivare da Fiumicino con due veloci motoscafi. Ma il Sovrano – che in Sardegna non avrebbe più potuto usufruire della protezione della flotta in quanto gli Alleati pretendevano che le navi si recassero a Malta – si era invece portato al Ministero della Guerra, considerato più sicuro del Quirinale, da dove poi, alle 04.30 del 9 settembre, forse con il salvacondotto di Kesselring, sarebbe partito in macchina per Pescara, con il suo triste seguito di pavidi responsabili dell’armistizio, compresi i tre ministri militari, che abbandonarono Roma al suo triste destino, conclusosi con la resa ai tedeschi. Essendosi Bergamini opposto tenacemente prima di accettare a portare le sue navi a Bona, ne conseguì per la flotta un tardivo ordine di partenza da parte di Supermarina, questa volta con destinazione, temporanea, La Maddalena. Tale ordine fu spedito alla corazzata Roma alle 23.45 dell’8 settembre, e subito dopo, alle 23.56, la Roma trasmise a tutte le navi, per mezzo del radio-segnalatore: “Attivare pronti a muovere”. Seguì poi, ma con un certo ritardo l’emanazione dell’ordine operativo di partenza, con destinazione la Maddalena, compilato dal Comando Squadra alle ore 02.00 del 9. Mezz’ora dopo le navi cominciarono a lasciare gli ormeggi. L’ultima a salpare, la corazzata Vittorio Veneto, uscì dal porto, seguendo la Roma e l’Italia, alle 03.40. Ciò avvenne dopo che le corazzate avevano ricevuto l’ordine, trasmesso alle 03.13, “Salpate”, a cui seguì alle 03.16, quello di “Uscite immediatamente”. Sul ritardo della partenza della flotta l’ammiraglio de Courten ha scritto, testualmente, nella sua relazione: “Bergamini ritardò la partenza da La Spezia perché volle che partissero anche le navi rapidamente approntabili”. Questa tesi è stata poi sostenuta da quanto l’ammiraglio Sansonetti riferì nel dopoguerra al comandante Marc’Antonio Bragadin, affermando: Bergamini disse a de Courten che sarebbe partito portando “con se tutte le unità in condizioni di navigare”. Fu quindi “Per questa ultima ragione” che, “ probabilmente, la partenza della Squadra è avvenuta con un certo ritardo rispetto a quanto si prevedeva a Roma e anche la navigazione è stata più lenta di quanto non si pensasse e quindi l’arrivo nei pressi di Maddalena è avvenuto verso mezzogiorno anziché all’alba come si prevedeva. Per quanto riguarda la possibile conoscenza del “Promemoria Dick”, da parte dell’ammiraglio Bergamini dobbiamo rifarci, come unica prova, a quanto nel dopoguerra ha scritto l’ammiraglio Sansonetti all’ex Ministro della Marina. Sansonetti che ricordando a de Courten quanto era avvenuto con Bergamini, nel pomeriggio dell’8 settembre, specificò: “gli parlasti della necessità di eseguire le disposizioni del promemoria DICK”, di cui “Egli si mostro molto riluttante”. Il capitano di vascello Marini, comandante della 12^ Squadriglia Cacciatorpediniere, ha riferito nella sua relazione che l’ammiraglio Bergamini, parlando ai suoi ufficiali riuniti alle 22.00 sul Vittorio Veneto, informò che “nella riunione dell’indomani mattina” avrebbe trasmesso “ai Comandanti eventuali nuove comunicazioni”. Lo stesso Bergamini parlando per l’ultima volta, alle 00.30 del 9 settembre, con l’ammiraglio Biancheri, Comandante della 8^ Divisione Navale che si trovava a Genova, pur mostrandosi molto amareggiato, affermò che intendeva obbedire all’ordine di partenza, e poi aggiunse che vi sarebbe stata l’occasione di parlarne a lungo alla Maddalena. Da tutto ciò si comprende che egli era ancora molto fiducioso di restare in quell’ancoraggio della Sardegna. All’incirca alla stessa ora, poco dopo la mezzanotte 9 settembre, l’ammiraglio Alberto Da Zara, Comandante della 5^ Divisione Navale dislocata a Taranto, avendo ricevuto da Supermarina l’ordine di trasferirsi a Malta, telegrafò al suo diretto Superione e Comandante in Capo delle Forze Navali da Battaglia, chiedendo “ordini”, e pertanto cosa dovesse fare. Nello stato di incertezza che attanagliava gli animi, la risposta imbarazzata che gli arrivò con molto ritardo dalla corazzata Roma fu quella di: “Rivolgetevi a Supermarina”.

Quando la sera dell’8 settembre i tedeschi seppero da radio Algeri dell’armistizio italiano, che si verificava nell’imminenza di uno sbarco nemico su vasta scala sulle coste italiane essi, particolarmente irritati, lo considerarono, come scrisse il Comandante della Marina Germanica in Italia, ammiraglio Wilhelm Meendsen-Bohlken, “un meschino tradimento”; opinione che noi personalmente condividiamo, se non altro per la forma con cui il voltafaccia si verificò senza dignità, abbandonando spudoratamente i tedeschi per schierarsi apertamente con gli Alleati. Tuttavia, pur essendo assetati di vendetta, i tedeschi non si trovarono in condizioni di reagire a massa con l’aviazione contro i porti dell’ex alleato durante quella notte, né poterono celermente farvi affluire le truppe in tempo per impedire la partenza delle navi italiane. Ciò, in effetti, permise alle navi della flotta di prendere il mare dai principali porti della penisola italiana, in ottemperanza alle tassative disposizioni dell’armistizio, contenute nel noto “Promemoria Dick”, diramate nelle prime ore del 9 dall’ammiraglio Sansonetti.

L’ammiraglio de Courten all’atto di partire per Pescara al seguito del Re aveva lasciato Sansonetti a Roma a dirigere Supermarina, con l’ordine di “Far seguire lealmente le clausole dell’armistizio”. Ciò fu dallo stesso Sansonetti raccomandato a Comandi e navi, specificando: “Con questa leale esecuzione la Marina renderà ultimo altissimo servizio al Paese”. Subito dopo il Sottocapo di Stato Maggiore fece trasmettere le modalità di esecuzione contenute nel “Promemoria Dick”, aggiungendo di propria iniziativa e con libera interpretazione di quanto sostenuto in quel documento, la frase: “Ricordate che non è prevista cessione di nave ne ammainata di bandiera”. Con ciò, indubbiamente, egli contribuì a rassicurare tutti quegli ammiragli e quei comandanti che erano restii ad accettare l’armistizio, e che avrebbero preferito salvare l’onore della bandiera auto-affondando le proprie navi. Al momento dell’armistizio, pur avendo perduto fino a quel momento ben 391 unità di ogni tipo, la Marina italiana disponeva ancora di un complesso navale ancora elevato, potendo contare (comprese le navi in riparazione ed escludendo quelle che si trovavano in costruzione) su 7 corazzate, 12 incrociatori, 27 cacciatorpediniere, 51 torpediniere, 25 corvette, 66 sommergibili, Vi era poi un gran numero di unità minori ed ausiliarie, senza contare le numerose navi in costruzione nei cantieri. Come abbiamo detto, i due nuclei principali delle Forze Navale da Battaglia dell’ammiraglio Bergamini erano dislocati nel Mar Ligure, alla Spezia e a Genova, e nello Ionio, a Taranto. In quest’ultimo porto erano in piena efficienza, agli ordini del comandante della 5^ Divisione Navale, ammiraglio Alberto Da Zara, le corazzate rimodernate Andrea Doria e Duilio, con tre incrociatori leggeri (Cadorna, Scipione e Pompeo) e alcune unità di scorta. Alla Spezia era invece concentrato il grosso della flotta, con le tre moderne e potenti corazzate della 9^ Divisione Navale (ammiraglio Enrico Accorretti) Roma, Vittorio Veneto e Italia, sei incrociatori, dei quali però soltanto il piccolo Attilio Regolo e i tre leggeri della 7^ Divisione Navale (ammiraglio Romeo Oliva), Eugenio di Savoia, Aosta e Montecuccoli erano efficienti – trovandosi in riparazione gli incrociatori pesanti Bolzano e il Gorizia – e a cui si aggiungevano per la scorta appena otto cacciatorpediniere in grado di prendere il mare. A Genova vi era invece la 8^ Divisione Navale (ammiraglio Luigi Biancheri), con i due incrociatori Giuseppe Garibaldi e Duca degli Abruzzi, mentre altri due cacciatorpediniere, il Da Noli e il Vivaldi, si trovavano in rotta per Civitavecchia; destinazione che non fu raggiunta perché, quando il mattino del 9 settembre il Re Vittorio Emanuele decise di andare a Pescara, con i membri della corte e del governo, le due siluranti furono deviate per la Maddalena. Il mattino del 10 settembre, le navi di Taranto raggiunsero tranquillamente Malta, seguite nei giorni successivi dalla corazzata Giulio Cesare e da altre unità minori e ausiliarie salpate dai porti dell’Adriatico. Contemporaneamente le torpediniere e le corvette del Tirreno andarono nel porto di Palermo, occupato dagli statunitensi. Mentre i trasferimenti di tutte quelle navi si svolsero tranquillamente, le unità della Forza Navale da Battaglia di La Spezia, che si erano ricongiunte a nord della Corsica con i due incrociatori dell’8^ Divisione Navale provenienti da Genova, dovettero affrontare la minaccia della Luftwaffe di base negli aeroporti della Francia meridionale. Vi si trovava dislocata, alle dipendenze del generale Johannes Fink, la 2^ Divisione della 3^ Flotta Aerea (generale Hugo Sperle) il quale, agendo in conformità con l’ordine operazione del piano “Achse” che specificava per la Luftwaffe “Le navi da guerra italiane che fuggono o provino a passare dalla parte del nemico debbono essere costrette a ritornare in porto o essere distrutte”, impartì alle unità dipendenti l’ordine di attacco. In effetti, dopo l’avvistamento, da parte dei ricognitori, delle navi italiane che, dirette alla Maddalena, scendevano a ponente della Corsica, Fink decise di attaccarle subito con il 100° Stormo da Bombardamento, i cui bimotori Do. 217 dei gruppi II. e III./KG.100, comandati rispettivamente dal capitano Friz Hollweg e dal maggiore Bernahrd Jope, erano armati con le nuove bombe antinave a razzo PC 1400 X, a caduta libera, e Hs. 293, radiocomandate.

Quando il mattino del 9 l’ammiraglio di divisione Bruno Brivonesi, Comandante della Marina della Sardegna, comprese che la Forza Navale da Battaglia, dovendo proseguire per Bona, poteva evitare la sosta alla Maddalena, propose a Supermarina di inviare alla corazzata Roma le istruzioni con un mezzo veloce a sua disposizione; ma l’ammiraglio Franco Giartosio, Capo Ufficio Operazioni di Supermarina – forse perché non sapeva cosa volesse fare l’ammiraglio Bergamini che non aveva dato il ricevuto a quattro messaggi inviatigli – confermò a Brivonesi di consegnare le istruzioni dopo l’arrivo della flotta, la cui sosta alla Maddalena (fuori dai recinti) doveva essere breve, come risulta dai messaggi scambiati da Brivonesi con la Roma. Sulla mancata diramazione alla flotta di alcuni cifrati ricevuti dalla Roma da Supermarina con tabelle non in possesso dai Comandi di Divisione, l’ammiraglio Oliva, Comandante della 7^ Divisione Navale è stato alquanto polemico; ed ebbe anche il sospetto, rimastogli dalla partenza da La Spezia fino al momento dell’affondamento della Roma, che l’ammiraglio Bergamini intendesse autoaffondare le navi. Alla stessa conclusione era arrivato anche il comandante Nicola Tedeschi, amico di Bergamini, al quale lo stesso ammiraglio aveva confidato: “Intendo portare la flotta in un ancoraggio italiano o in un altro ancoraggio al di fuori di ogni estranea ingerenza. Non consegnerò le navi al nemico”. La decisione di far sostare la flotta alla Maddalena, che contrastava nettamente con l’ordine impartito dal Comando Alleato di raggiungere Bona (“Promemoria Dick”), fu seguita da avvenimenti imprevisti e drammatici. Infatti, nella tarda mattinata del 9 settembre, mentre la flotta italiana si stava avvicinando a quella prima destinazione, si verificò, evidentemente per scarsa vigilanza e per pressappochismo precauzionale e difensivo, l’occupazione del Comando della base da parte di un piccolo nucleo di soldati tedeschi , sbarcati da cinque motozattere che si trovavano in rada. Immediatamente informato per telescrivente da Brivonesi, l’ammiraglio Sansonetti ordinò alla Forza Navale da Battaglia, di puntare direttamente su Bona, dove era in attesa un nucleo di unità britanniche della Forza H, comprendenti le corazzate Warspite e Valiant. Ma vediamo quale fu la successione degli ordini ricevuti da Bergamini, da Supermarina, primi di invertire la rotta per Bona. Alle 11.05 Supermarina trasmise per macchina cifrante, onda 55 e precedenza PAPA (Precedenza Assoluta sulle Precedenze Assolute), il seguente fondamentale e incontestabile messaggio, diretto al Comando delle Forze Navali da Battaglia, alle divisioni navali 5^, 7^ e 8^, e all’incrociatore Cadorna: “Partite subito per Malta con navi alle vostre dipendenze……091009”. Poi, alle 12.30 del 9 settembre, Supermarina trasmise “A tutti” di raggiungere i porti alleati, specificando: “Per FF.NN. principali del Tirreno località è Bona”. Quindi, con messaggio 97424, fu trasmesso ai cacciatorpediniere Vivaldi e il Da Noli, che erano stati inizialmente destinati a raggiungere Civitavecchia per imbarcarvi il Re: “Proseguite per Bona aggregandosi possibilmente Forza Navale da Battaglia (alt) Milano [parola convenzionale per indicare che gli ordini arrivavano dall’ammiraglio de Courten] – 132909”. Alle 14.27, la corazzata Vittorio Veneto intercettò un telegramma diretto ai cacciatorpediniere Vivaldi e Da Noli e al Comando delle Forze Navali da Battaglia, in cui Supermarina ordinava: “Uscite da Estuario [Stretto di Bonifacio] et affondate tutti mezzi tedeschi che eseguano traffico Sardegna Corsica (alt) 134909”. Infine, alle 14.24, era stato trasmesso alla Roma: “SUPERMARINA 23124 – Davanti Bona troverete nave inglese o americana che indicherà porto da raggiungere (alt) Armamento principale et lanciasiluri per chiglia (alt) Libertà azione per artiglieria contraerea in caso attacco… [gruppo indecifrabile] ostilità da parte aerei (alt) Ciascuna nave alzi pennello nero o bleu scuro della massima grandezza possibile (alt) Disegnare sui ponti grandi dischi neri come segnali riconoscimento per aerei (alt) In caso di incontro navigazione notturna accendere fanali di riconoscimento e segnalare con elettrosegnalatore gruppo Gamma Alfa – 134509”. L’ammiraglio Bergamini, che con le sue unità in lunga linea di fila si apprestava ad entrare da ponente nello Stretto di Bonifacio per raggiungere la Maddalena, alle 14.24 effettuò prontamente l’inversione di rotta ad un tempo, trasmettendo a Supermarina “Dirottamento fatto”. L’inversione di rotta della squadra per 180° era stata appena ultimata quando, con le navi che dirigendo a nord-ovest manovravano nel Golfo dell’Asinara, si svilupparono gli attacchi dei Do. 217 del KG.100, che complessivamente impiegò fino a sera 28 velivoli. Essi cominciarono ad arrivare sull’obietto poco prima delle ore 16.00, quando, avvistata allo zenit dal cacciatorpediniere Legionario che dette l’allarme, sopraggiunse una prima formazione di undici aerei Do. 217 del III./KG.100, guidati dal maggiore Jope. I velivoli tedeschi, che erano ripartiti in tre pattuglie, volando ad alta quota (6500 metri), quindi al disopra della portata dei modesti pezzi contraerei delle unità italiane, sganciarono le loro speciali bombe razzo “PC. 1400 X” nel momento in cui passarono sopra la perpendicolare delle navi. Tre bombe andarono a segno, due sulla corazzata Roma e una sul castello dell’Italia (ex Littorio). Su questa ultima nave da battaglia, che per una falla a prora imbarco 800 t d’acqua, i danni non furono gravi, mentre invece fatali risultarono quelli della Roma che fu centrata a distanza di cinque minuti dai Do. 217 della 11^ Squadriglia del III./KG.100, guidati dal capitano pilota Heinrinch Schmetz. Per la deflagrazione dei proietti della torre sopraelevata prodiera di grosso calibro, determinata dalla seconda bomba –radio-guidata sul bersaglio dal sergente Eugen Degan e che arrivò a segno alle 15.52 dopo una discesa di 52 secondi – la corazzata, orgoglio della cantieristica italiana, s’inclinò sul fianco destro, con il torrione piegato in avanti e sormontata da un’altissima colonna di fumo determinata dall’esplosione e dagli incendi. Quindi, spezzandosi in due tronconi, affondò rapidamente, alle 16.29, portando nell’abisso 1.392 uomini, compreso il comandante della nave, capitano di vascello Adone del Cima, l’ammiraglio Bergamini e tutti gli ufficiali del suo Stato Maggiore. Altra vittima degli aerei tedeschi, che rimasero sull’obiettivo fino al tramonto mancando di poco molte altre navi, fu il cacciatorpediniere Vivaldi (capitano di vascello Francesco Camicia), che assieme al gemello Da Noli (capitano di fregata Pio Valdambrini) aveva ricevuto l’ordine di raggiungere la Maddalena e poi di ricongiungersi alla Forza Navale da Battaglia, impegnando ogni nave tedesca incontrata tra la Sardegna e la Corsica. In questa loro azione offensiva, inseguendo con il loro tiro alcune motozattere, i due cacciatorpediniere finirono sotto il fuoco di batterie costiere tedesche, e poi su uno sbarramento minato tedesco, posato il 26 agosto 1943 a sud di Capo Fenu dai posamine Pommer e Brandemburgo, in cui il Da Noli affondò, con gravi perdite umane. Ma anche la sorte del Vivaldi era segnata. Danneggiato da proiettili d’artiglieria, esso ricevette verso sera il colpo di grazia dall’esplosione in prossimità dello scafo di una bomba radiocomandata Hs. 293, sganciata da un Do. 217 del II./KG.100. Il sopraggiungere della notte mise fine agli attacchi dei velivoli tedeschi, che si conclusero con la perdita di un solo velivolo del II./KG.100, finito in mare sulla rotta di rientro alla base. Nel frattempo la Forza Navale da Battaglia proseguì per Bona, lasciando indietro l’incrociatore Regolo, tre cacciatorpediniere e due torpediniere, che si trovavano impegnati a recuperare i naufraghi della Roma. Dopo molte incertezze, anche perché i Comandanti delle sei navi ritennero che gli ordini ricevuti fossero falsi, fu presa la decisione di raggiungere l’isola di Minorca, nell’arcipelago delle Baleari, ove l’ Attilio Regolo e i cacciatorpediniere Mitragliere, Fuciliere e Carabiniere rimasero internati fino al gennaio del 1945. Fecero eccezione a questa sorte le torpediniere Impetuoso e Pegaso. Sbarcato il personale che avevano a bordo, le due unità si autoaffondarono in alti fondali al largo della costa della baia di Pollensa, per decisione dei loro comandanti, capitani di fregata Riccardo Imperiali e Giuseppe Cigala Fulgosi. Nel frattempo, subito dopo l’affondamento della corazzata Roma, il dramma che aveva attanagliato l’animo di Bergamini si ripercosse anche negli ammiragli delle sue divisioni navali. Nell’assumere il Comando della Forza Navale da Battaglia, quale ufficiale più anziano, l’ammiraglio Oliva, che si trovava sull’incrociatore Eugenio di Savoia, non aveva alcuna idea di dove le sue navi dovessero dirigere, anche perché, non disponendo delle tabelle dei cifrari impiegati dal Comando Squadra, non era riuscito a decifrare i messaggi diramati da Supermarina alla Roma in cui vi era l’ordine di raggiungere Bona. Sapeva soltanto che i cacciatorpediniere Da Noli e Vivaldi, inizialmente diretti alla Maddalena, avevano ricevuto l’ordine di proseguire per Bona aggregandosi possibilmente alla Forza Navale da Battaglia. Pertanto si trovò in uno stato d’incertezza sul da farsi, che ebbe però breve durata poiché gli venne subito in aiuto l’ammiraglio Accorretti, il quale, avendo assistito la sera dell’8 settembre alla forte discussione tra Bergamini e il Ministro della Marina, sapeva quale fosse la esatta destinazione della flotta. Il Comandante della 9^ Divisione Navale trasmise pertanto ad Oliva il seguente messaggio: “Da intercettati sembra dobbiamo andare Bona 160509 ”. Tuttavia l’ammiraglio Biancheri, che si trovava sull’incrociatore Duca degli Abruzzi e che assolutamente non condivideva l’idea di andare a consegnare le navi agli Alleati, segnalò ad Oliva: “Ti propongo raggiungere La Spezia”. La risposta a Biancheri del nuovo Comandante della Forza Navale da Battaglia, espressa dopo una lunga riflessione, fu alquanto tagliente e decisa, segnalando: “Non posso accogliere proposta. Mi atterrò e ti prego di attenerti ordini Sua Maestra”. L’ammiraglio Biancheri ha spiegato lo stato d’animo che lo angosciava, e che lo aveva indotto a consigliare il rientro della flotta alla Spezia, scrivendo nel suo rapporto di navigazione: L’ordine di consegnarci al nemico ci ha stordito. Il primo annuncio dell’armistizio aveva provocato un’effimera gioia negli equipaggi ma senza che qualche Ufficiale la sentisse in cuor suo; e subito l’aveva sopita: ma in noi Comandanti l’idea di arrendersi, come i tedeschi a Scapa Flow, sembrava ordine ineseguibile. Il trasferimento alla Maddalena ci dava un certo affidamento che consegna non vi sarebbe stata; ma dopo l’occupazione tedesca di La Maddalena, il dietro front della squadra e l’affondamento della ROMA, l’ordine di dirigere su Bona toglieva qualunque dubbio. A prima impressione quest’ordine pareva ineseguibile. In ognuno dei capi si è svolta una tragedia interiore e qualche indecisione affiorò anche nei sottoposti: Tutti abbiamo deciso di eseguire l’ordine perché ci veniva dal RE. A superare ogni stato di incertezza e a convincere Oliva di prendere la rotta per Bona contribuì poi, alle 18.40, l’ordine n. 57847 di Supermarina in cui si affermava: “Confermo ordine Bona ripeto Bona precedentemente trasmesso”. La deviazione di rotta della flotta, avvenne intorno alle ore 21.00, dal momento che, allo scopo di disorientare eventuali ricognitori tedeschi inviati a sorvegliare le mosse delle navi italiane, l’ammiraglio Oliva, dopo l’affondamento della Roma e dovendo ancora fronteggiare gli attacchi aerei della Luftwaffe, aveva continuato a dirigere verso occidente fino al sopraggiungere della notte. Il mattino del 10 settembre, dopo una navigazione notturna alquanto tranquilla, le unità italiane incontrarono nella zona di appuntamento a nord di Bona le corazzate britanniche Warspite e Valiant, la cui scorta comprendeva sette cacciatorpediniere, tra cui il Vasilissa Olga e il Le Terribile in rappresentanza delle marine greca e francese, invitate a partecipare all’atto di resa dell’ex nemico. Quindi, le navi italiane proseguirono la rotta per Malta ove, passando per il Canale di Sicilia, terminarono la loro tragica odissea il mattino dell’11 settembre. Nelle ore che precedettero l’arrivo a Malta si verificò per i Comandanti delle Divisioni Navali uno stato di disagio, determinato da un messaggio di Supermarina in cui, dopo aver trasmesso a tutte le unità i dettagli per raggiungere i porti Alleati, riferiva: “Clausole armistizio non dico non contemplano cessione abbassamento bandiera consentono però accogliere personale controllo”.

Questa segnalazione, che era giustamente interpretata come una vera temuta resa al nemico, rese nuovamente perplesso l’ammiraglio Oliva sul da farsi, e fu nuovamente osteggiata dall’ammiraglio Biancheri. Questi, in seguito ad una segnalazione di Oliva che “in mancanza di istruzioni” particolareggiate da parte di Supermarina, chiedeva ai Comandanti della 8^ e 9^ Divisione quale fosse la loro opinione sulla parziale preventiva distruzione degli archivi segreti, rispose che quella misura si poteva per il momento evitare poiché nel caso si fosse determinato, da parte degli Alleati, un tentativo “di occupazione violenta” delle navi, si doveva rispondere anche con “l’autoaffondamento”. Oliva, mostrando di condividere quell’estrema misura, compilò allora un inequivocabile ordine di autoaffondamento da diramare al momento opportuno a tutte le unità dipendenti. Dovette però nuovamente mettere in riga il dubbioso Biancheri il quale, alle 05.30 dell’11 settembre, prese l’iniziativa di trasmettere al Comando della 7^ Divisione Navale un messaggio dal carattere drastico con il quale, proponeva di autoaffondare le navi subito dopo l’arrivo a Malta, trasmettendo l’ordine convenzionale “massimo riserbo”. L’ammiraglio Accorretti, che al pari di tutti i comandanti delle navi aveva intercettato il messaggio di Biancheri, trasmesso dal Duca degli Abruzzi con onde ultracorte, fece sapere: “Dopo matura riflessione non dico non condivido parere Comando 8^ Divisione. Quest’intervento del Comandante della 9^ Divisione Navale fu forse decisivo per convincere Oliva a rispettare gli ordini ricevuti da Supermarina, e con un messaggio privato per Biancheri egli tagliò corto ad ogni ulteriore discussione, ribadendogli: “non posso accogliere proposta. Mi atterrò e ti prego attenerti ordini Sua Maesta”. All’arrivo a Malta e avendovi trovato a Marsa Muscetto le navi della 5^ Divisione Navale, giunte da Taranto, l’ammiraglio Oliva si mise subito a disposizione dell’ammiraglio Alberto da Zara, al quale furono trasmessi dall’ammiraglio Cunningham gli ordini per il disarmo delle navi, che comportarono, da parte di specialisti britannici, l’asportazione degli otturatori dei cannoni. A quel momento apparve chiaro a tutti che si trattava di un vero e proprio atto di resa, anche se ancora non comportava sulle navi l’abbassamento della bandiera.

In definitiva, la Regia Marina pagò duramente l’illusione di ottenere, consegnando la flotta agli Alleati, condizioni di pace più favorevoli, perché quelle condizioni erano legate a quanto gli italiani avrebbero potuto fare per impedire agli anglo-americani di impantanarsi in una guerra, poi chiamata “di liberazione”, che secondo alcuni malinformati sarebbe addirittura iniziata in Sicilia, dimenticando o facendo finta di ignorare che l’Esercito italiano combatteva per difendere l’isola. La verità è ben altra, dal momento che gli Alleati non intendevano allora combattere nella penisola. Vi furono poi costretti perché non ricevettero dalle Regie Forze Armate quasi nessun aiuto, come gli anglo-americani speravano, in primo luogo per agevolare gli sbarchi a Salerno e per il controllo dell’Italia centrale; ragion per cui gli Alleati finirono per maledire il giorno in cui il generale Castellano si era presentato ai delegati del generale Eisenhower per trattare la resa. Questo fatto finì per indispettire non soltanto il Comandante in Capo delle forze Alleate, ma soprattutto le diplomazie di Londra e di Washington, degli statunitensi in particolare che non mitigarono mai, nei confronti dell’Italia, la punizione della resa incondizionata pretesa fin dalla conferenza di Casablanca del gennaio 1943. Ne conseguì che l’armistizio, ratificato a Malta il 28 settembre dal maresciallo Badoglio, con condizioni ancora più dure di quelle fissate a Cassibile, pretese il disarmo e la smobilitazione di molte navi per un lungo periodo, e non permise alla Regia Marina di partecipare alle molte operazioni alleate di sbarco e di appoggio al fronte terrestre – o di scorta ai grandi convogli degli anglo-americani che percorrevano il Mediterraneo combattendo contro gli aerei e i sommergibili tedeschi – relegando le unità italiane soltanto a compiti sussidiari: ossia praticamente a fare i facchini, come più volte è stato scritto, per la causa degli Alleati, mentre gli altri, comprese le poche e modestissime navi polacche, greche e Iugoslave, combattevano. E questa triste e umiliante situazione si verificò nonostante il 23 settembre 1943 fossero stati fissati a Taranto, tra gli ammiragli de Courten e Cunningham, alcuni accordi di collaborazione che sembrarono allora incoraggianti, poiché stabilivano fossero utilizzate “al più presto” le unità da guerra minori italiane per i trasporti alleati e nel lavoro di scorta. Particolarmente umiliante fu il trasporto, con l’impiego degli incrociatori, del sale dalla Sardegna sul continente; e alquanto discutibile quello del rimpatrio dei prigionieri dal nord Africa che, invece di utilizzare gli incrociatori con tutti i rischi di navigazione di guerra che ne derivavano, avrebbe potuto svolgersi con semplici navi mercantili.

Il trattato di pace del 1947, non tenne assolutamente conto dei tanto decantati meriti cobelligeranti e resistenziali dell’Italia, poiché, occorre dirlo, furono di natura particolarmente modesta. Esso poi dette alla Marina il colpo finale, costringendola a cedere molte navi alle nazioni vincitrici (Russia, Francia, Grecia, Iugoslavia e perfino alla Cina) e a smantellare tutti i sommergibili e, fatto forse ancora più doloroso, le corazzate Italia e Vittorio Veneto, che erano state confinate dopo l’armistizio ai Laghi Amari del Canale di Suez, dove rimasero inutilizzabili per tutto il restante periodo della guerra.

Francesco Mattesini

Roma, 23 marzo 2007

Francesco Mattesini, “La Marina e l’8 settembre”, I Tomo “Le ultime operazioni offensive della Regia Marina e il dramma della Forza Navale da Battaglia”; II Tomo “Documenti”, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 20002.

Francesco Mattesini, "Alcune immagini della nostra guerra sul mare": Parte undicesima. 1° luglio - 8 settembre 1943; Parte dodicesima. 9 settembre - 31 dicembre 1943, in Bollettino d'Archivio dell'Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, Settembre - Dicembre 2003.

Rirtengo, considerando le fonti bibliografica, che le informazioni, di carattere ufficiale, che ho fornito possano servire nella VOCE. _________________________________

Stato delle cose ad apile 2011[modifica wikitesto]

Vedendo il documentario dell'Istutito Luce, ho iniziato la revisione della voce che necessita principalmente di note, ma anche di una depurazione da alcune frasi forse poco enciclopediche. Tanto lavoro è stato fatto, credo principalmente da Gaetano56 sloggato, ma spero che un gruppo di lavoro adesso porti la voce al massimo della forma. --Pigr8 ...libertà é partecipazione! 19:24, 27 apr 2011 (CEST)[rispondi]

Ct Da Noli[modifica wikitesto]

Vorrei segnalare che il cacciatorpediniere Da Noli, come rilevabile nella voce riguardante tale unità, non "accompagnava la Roma durante il suo ultimo viaggio": ho corretto il passaggio, ma credo che tutto il paragrafo che segue possa essere influenzato da questo erronea convinzione.--Olonia (msg) 15:48, 30 gen 2012 (CET)[rispondi]

No, è tutto ok, grazie della correzione. --Zerosei - Speak to me 15:54, 30 gen 2012 (CET)[rispondi]
Comunque, Olonia, tu che usi spesso il template infobox nave, sappi che ora è rinnovato. Io l'ho inserito in voce lasciando molti campi vuoti, se puoi compilarli fai pure (magari aggiungi delle ref). Ci sono ancora dei piccoli errori dovuti alla messa a punto del template, se li vedi segnalali cortesemente qui. Ciao e grazie. --Zerosei - Speak to me 16:12, 30 gen 2012 (CET)[rispondi]

Guardando la crono ho trovato questo diff secondo cui la Roma non portava a bordo i caccia Re.2000 (della squadriglia speciale contraddistinta dalla paperella, e così chiamati) il giorno dellì'affondamento, però il periodo è basato su una fonte, il libro di Petacco che io non posseggo. Quindi, io non so se i Re.2000 fossero o no a bordo quel giorno perchè nessuno dei miei libri lo riporta, e ho bisogno di verificarlo. Non ho rollbackato però visto che il periodo è basato su fonte sarei per farlo se non ci sono altre fonti. Pareri? --Pigr8 Melius esse quam videri 19:08, 14 set 2012 (CEST)[rispondi]

Puoi rollbacckare: era a bordo un solo Re.2000. Dettagli qui. Se aggiusti tu tutto, aggiornando le info con tanto di fonte e libro aggiunto in biblio, mi fai una grossa cortesia, ciao. P.S. Il Vittorio Veneto ne aveva due di aerei, il Littorio uno come la Roma. --Zero6 11:03, 15 set 2012 (CEST)[rispondi]

Comunicazioni radio[modifica wikitesto]

Su questo sito http://www.corazzataroma.info/gli_avvenimenti_ pare che ci siano alcuni radiomessaggi tra il comando e la flotta da battaglia. --Ipvariabile (msg) 21:26, 5 dic 2012 (CET)[rispondi]

Deflagrazione vs esplosione[modifica wikitesto]

Testimonianza del superstite Agostino Incisa Della Rocchetta tratta dal suo libro < L'ultima missione della Corazzata Roma >« La vampata durò pochi secondi e in quel brevissimo tempo condannò a morte la nostra più moderna nave da battaglia, ma nel dramma vi fu una fortuna: si trattò di una deflagrazione e non di una esplosione e questo fu dovuto ad una qualità del nostro munizionamento "di lancio": la progressività. Si chiamano cariche di lancio quelle munizioni che si introducono nel cannone per lanciare fuori il proietto. Esse debbono avere una combustione piuttosto lenta e graduale. L'esplosivo usato era la cordite, un derivato della nitroglicerina, confezionato in bacchette cave simili a maccheroni di colore bruno. All'aria aperta bruciavano poco più rapidamente di un bastone di ceralacca....... Dunque il nostro munizionamento di lancio era stabile, contrariamente a quello britannico. Le cariche di lancio di 2 torri da 152 e di 1, forse 2 torri da 381, presero fuoco tutte insieme; diverse tonnellate di cordite, si badi, che produssero un soffio potentissimo, un'immensa fiammata, però non detonarono. L'esplosivo contenuto nei proietti non fu coinvolto, perché allora la nave sarebbe stata polverizzata. Nei proietti si usava il tritolo (trinitrotoluene: toluolo, idrocarburo aromatico al quale vengono sostituiti 3 atomi di idrogeno con gruppi nitrici), che può essere fuso e quando si solidifica può essere impunemente preso a martellate, segato, fresato, maltrattato in tutti i modi. Ma se nella sua massa si introduce un cilindretto di tritolo compresso e questo lo si innesca, poniamo, con una pastiglia di tetrazoturo d'argento che, colpita da un qualsiasi percussore a spillo, prende subito fuoco, il cilindretto di tritolo detona e fa detonare tutta la massa di tritolo fuso: si ha, cioè, una combustione istantanea con enorme aumento di volume e sviluppo di calore. Insomma il tritolo detona, la cordite deflagra, almeno quella nostra.» Da qui http://www.corazzataroma.info/Testimonianze --Ipvariabile (msg) 21:55, 5 dic 2012 (CET)[rispondi]

E allora? --Zero6 22:00, 5 dic 2012 (CET)[rispondi]
E allora nella voce c'e' una nota criptica riguardo cio'. A me piacerebbe che la cosa venga espansa e possibilmente che la testimonianza qui sopra venga riportata in voce nei modi opportuni. Pero' dato che ci potrebbero essere opinioni diverse mi astengo dall'intervenire direttamente --Ipvariabile (msg) 13:24, 6 dic 2012 (CET)[rispondi]
Magari coinvolgi il progetto Marina --Zero6 14:38, 6 dic 2012 (CET)[rispondi]

L’AFFONDAMENTO DELLA CORAZZATA ROMA[modifica wikitesto]

Nel mio Libro “La Marina e l’8 settembre”, edito dall’Ufficio Storico della Marina Militare, mi sono particolarmente concentrato sul dramma delle Forze Navali da Battaglia, della Spezia, avvenuto in un clima di grande incertezza e ritardi che comportarono:

1°) le lunghe discussioni per l’invio della Flotta a Malta e la sua ritardata partenza dalla Spezia, non prevista negli accordi armistiziali;

2°) l’affondamento della corazzata “Roma” che poteva essere evitato se, invece di stare a discutere, in modo drammatico, fra Supermarina (ammiraglio de Courten) e La Spezia (ammiraglio Bergamini), le navi fossero partire in orario per Bona, subito dopo il tramonto dell’8 settembre.

Ciò avrebbe comportato di effettuare, come pianificato dagli Alleati (promemoria Dick) la navigazione notturna senza troppi rischi fino al sud della Sardegna in modo da trovarsi dopo l’alba sotto la scorta degli aerei da caccia Alleati della Tunisia e italiani della zona di Cagliari, e nel contempo mantenersi lontano dagli aerei tedeschi concentrati sugli aeroporti della Francia meridionale. Invece, salpando dalla Spezia alle 03.30 del 9 settembre, con un ritardo di ben nove ore, e dirigendo la flotta sulla Maddalena come richiesto con puntiglio da Bergamini, fu offerta alla Luftwaffe la possibilità di avvistare per tempo con i ricognitori le navi italiane nelle ore del mattino, e poi di attaccarle nel pomeriggio con i bombardieri decollati dagli aeroporti della Provenza, senza che le nostre unità avessero potuto disporre di alcuna scorta aerea.

Spiego ora come si svolse l’attacco degli aerei tedeschi, che determinò l’affondamento della corazzata, dopo che l’ammiraglio Carlo Bergamini, Comandante delle Forze Navali da Battaglia, aveva invertito la rotta in seguito all’ordine pervenuto da Supermarina, confermante che il Comando della Maddalena (a dispetto della sua guarnigione di oltre 10.000 uomini, fortemente armata, e delle unità navali in rada) era stato occupato da truppe tedesche, sbarcate da cinque motozattere. Quindi circa 250-300 uomini al massimo.

La manovra ad un tempo di 180° fu effettuata dalle Forze Navali da Battaglia in una zona ristretta dello Stretto di Bonifacio, con le navi che procedevano in linea di fila per la presenza di campi minati. Essa portò la formazione, già molto allungata, ad avere le corazzate “Vittorio Veneto” (nave ammiraglia della IX Divisione Navale), “Italia” e “Roma” in testa nell’ordine seguite da sei incrociatori, otto cacciatorpediniere e cinque torpediniere. La rotta nordovest, per tornare verso l’uscita del Golfo dell’Asinara, era imposta dal canale di sicurezza che passava tra gli sbarramenti difensivi, ragion per cui fu in questa formazione molto allungata, la meno adatta per fronteggiare un attacco aereo, che si svilupparono le micidiali incursioni dei velivoli tedeschi Do 217, di base nella Francia Meridionale, e armati con la bomba razzo perforante e radiocomandate.

Per quanto alle unità aeree della 2a Luftflotte del feldmaresciallo von Richthofen (di base nella penisola italiana, in Sardegna e Corsica) non fossero state assegnate speciali disposizioni per attaccare le navi italiane, la sera dell’8 settembre 1943 venne data attuazione immediata al piano “Achse”, diramato dall’ O.b.DL., l’ Alto Comando Operativo della Luftwaffe, il quale specificava: “Le navi da guerra italiane che fuggono o provino a passare dalla parte del nemico devono essere costrette a ritornare in porto, o essere distrutte”.

In quel momento l’unità aerea della Luftwaffe più prossima alle Forze Navali da Battaglia era la 2^ Divisione Aerea (2^ Fliegerdivision) del generale Johannes Fink, alle dirette dipendenze del generale Hugo Sperrle, Comandante della 3^ Luftflotte dislocata negli aeroporti del territorio della Francia e dei Paesi Bassi. Il compito di attacco alla flotta italiana fu assegnato al 100° Stormo Bombardamento (KG.100) “Wiking”, comandato dal maggiore pilota Fritz Auffhammer, che era stato messo alle dipendenze temporanee del Comandante della 2^ Luftflotte, feldmaresciallo Albert Kesselring.

Il 100° Stormo Bombardamento aveva disponibili per il pronto impiego il 2° e il 3° Gruppo (II. e III./KG.100), rispettivamente dislocati sugli aeroporti provenzali di Cognac e Istres. Essi erano agli ordini del capitano Franz Hollweck e del maggiore Bernhard Jope, ed erano equipaggiati con i nuovi bombardieri in quota “Do.217”, che trasportavano speciali bombe perforanti, con propulsione a razzo e radiocomandate del tipo “Hs.293”, e a caduta libera, con possibilità di modifica nella traiettoria, del tipo “PC.1400X”, costruite appositamente per la lotta contro obiettivi navali.

La “Hs.293”, progettata dal professor Herbert Wagnes e in dotazione ai velivoli del II./KG.100, bomba radioguidata munita di due superfici portanti, era praticamente un piccolo velivolo senza pilota, con un’apertura alare di quattro metri e dal peso di novecento chili, dei quali trecentocinquanta costituiti da esplosivo ad alto potenziale. Azionata da un motore di 2160 hp, utilizzante permanganato potassico, che gli imprimeva una velocità di cinquecento chilometri orari, tale arma rivoluzionaria aveva il vantaggio di poter essere sganciata da una quota di millesettecento metri e a circa sette chilometri dalla nave attaccata; una distanza che permetteva al velivolo “Do.217”, nella versione E2/R10, di guidare l’ordigno, dotato di una visibile codetta luminosa, a mezzo di radiocomando fino all’impatto con il bersaglio prescelto, e quindi, volando ad alta quota, circa 7.000 metri, di sottrarsi, abbastanza agevolmente, alla difesa contraerea delle navi.

A differenza dell’”Hs.293”, la bomba “PC.1400 X”, progettata dal dottor Max Kramerm e in dotazione ai velivoli del III./KG.100, era un’arma tutt’altro che “sperimentale”, come sostenuto da taluni storici, dal momento che fu impiegata per la prima volta il 23 luglio 1943 contro navi all’ancora nel porto di Siracusa e poi, il 29 agosto, contro unità da guerra britanniche in navigazione presso l’Isola di Alboran (a nord di Orano), entrambe le volte senza conseguire alcun successo. Mentre l’impiego della “Hs.293” era previsto contro bersagli scarsamente corazzati, la “PC.1400 X”, bomba perforante corazzata di una tonnellata e mezzo, doveva essere impiegata, di massima, contro bersagli molto protetti. Essa corrispondeva all’incirca alla bomba mina da 1400 chili e aveva una carica di scoppio relativamente piccola, di trecentoventicinque chili di alto esplosivo. Per contro, la bomba, la cui traiettoria in caduta libera poteva essere controllata per mezzo radio dall’aereo che l’aveva sganciata, possedeva un’enorme forza di penetrazione. Tuttavia, partendo d’alto, sulla perpendicolare del bersaglio, poteva essere comandata durante la caduta soltanto in misura limitata (800 m nella direzione del volo, 400 m lateralmente).(1)

Quanto alle bombe radiocomandate “Hs.293”, in dotazione al 2° Gruppo del 100° Stormo, esse furono impiegate per la prima volta il 25 agosto 1943 nel Golfo di Biscaglia, quando una formazione di dodici “Do.217 E5” del medesimo II./KG.100, comandata dal capitano pilota Heinz Molinus, e scortata da sette caccia pesanti “Ju.88 C” del 1° Gruppo del 1° Stormo Caccia Pesante (I./ZG.1), attaccò tre unità di scorta britanniche, danneggiando con colpi caduti vicini allo scafo lo sloop “Landeguard”. In una successiva azione, portata a compimento il giorno 28 del mese da altri tredici “Do.217” del medesimo gruppo, fu distrutto lo sloop “Egret” e danneggiato gravemente il cacciatorpediniere canadese “Athabaska”. Ciò costituì un netto successo della Luftwaffe, perché costrinse all’allontanamento delle unità di scorta britanniche nel Golfo di Biscaglia, dove esse operavano per dare la caccia ai sommergibili tedeschi partenti dalle basi atlantiche della Francia occidentale.

Riguardo al velivolo Dornier “Do.217 E2/R 10”, che equipaggiava i due gruppi del 100° Stormo Bombardamento, esso era un bimotore dalla lunga fusoliera, dotato di due motori radiali B.M.W. in grado di erogare 1580 cavalli al decollo e di imprimere una velocità massima di 515 Km/h a 6.000 metri di quota. Poteva portare fino a 4.000 chili di bombe, in parte sistemate in rastrelliere esterne ordinate sotto le ali. Nelle azioni con bombe radiocomandate, gli ordigni, uno o due per velivolo, erano appunto ubicati sotto le ali.

Per attaccare la Forza Navale da Battaglia italiana, localizzata alle 09.41 da un ricognitore Ju 88 al largo della costa occidentale della Corsica, nel pomeriggio del 9 settembre, ad iniziare dalle ore 14.00, decollarono in tre ondate, dall’aeroporto di Istres, ventotto “Do.217”, dei quali undici del II./KG.100 (trasferiti da Cognac) e diciassette del III./KG.100. Di tutti questi velivoli, come vedremo, ben ventiquattro riuscirono a localizzare e ad attaccare le navi ricercate, che pure si trovavano ad una considerevole distanza rispetto alla base di partenza degli aerei germanici: 300 chilometri percorso in un’ora e un quarto. Per motivi che non conosciamo, non ebbero l’ordine di decollo gli aerosiluranti He 111 e Ju 88 del I. e III./KG.26, anch’essi della 2a Flieger Divisione e anch’essi a disposizione della 2a Luftflotte, che pure erano disponibili in Provenza per partecipare all’attacco.

Subito dopo l’accostata della Forza Navale da Battaglia nello Stretto di Bonifacio, poco prima delle ore 14.00 del 9 settembre, il cacciatorpediniere “Legionario” segnalò aerei allo zenit, riconoscendoli per tedeschi. Nessuna segnalazione preventiva era stata fatta dai radiolocalizzatori, i mediocri “Gufo” e i germanici “Dete”, di cui erano dotate quasi tutte le navi. Secondo il rapporto del Comando della 7a Divisione Navale, sull’incrociatore “Eugenio di Savoia”, l’allarme a vista scattò alle 15.10. Doveva trattarsi di un ricognitore tedesco, che alle 15.15 segnalò la flotta italiana, come costituita da tre navi da battaglia, sei incrociatori e sei cacciatorpediniere, con rotta sud a circa 20 miglia a sud-ovest di Bonifacio. Circa venti minuti più tardi, alle 15.37, ebbe inizio il primo attacco aereo da parte di cinque “Do.217”, dalle navi italiane scambiati per “Ju.88”, che fu contrastato dalle unità della Squadra, dopo una qualche esitazione, aprendo il fuoco con i cannoni e contro manovrando.

Dai diari e dalle pubblicazioni tedesche risulta che la prima ondata d’attacco dei velivoli tedeschi era costituita da undici “Do.217” del III./KG.100, al comando del maggiore Bernhard Jope. Era un pilota famosissimo essendo stato l’affondatore del grande transatlantico britannico “Empress of Britain”, di 42.348 t.s.l. (già danneggiato dal sommergibile tedesco “U 32”), conseguito il 26 ottobre 1940, a 110 miglia a nord-ovest della Baia Donagal (Irlanda). Jope realizzo quel successo alla guida di un velivolo quadrimotore “FW.200” della 2a Squadriglia del 1° Gruppo del 40° Stormo Bombardamento (2./KG.40), e per quell’impresa straordinaria era stato insignito da Hitler della Ritterkreuz, la croce di cavaliere dell’ordine della Croce di Ferro.

Ripartiti in tre pattuglie, i “Do.217” del III./KG.100 restarono sull’obiettivo tra le 15.35 e le 17.40, ed attaccarono a circa 15 miglia a sud-ovest di Bonifacio da altezze comprese tra 6.500 e i 7.000 metri, sganciando le bombe “PC. 1400 X” nel momento in cui passavano, con rotta inversa, sulla perpendicolare delle unità navali italiane. Gli equipaggi dei velivoli germanici affermarono di aver inquadrato due corazzate ed un incrociatore con tre bombe e di aver colpito in pieno con altre tre bombe due corazzate, su una delle quali si verificò una grande esplosione accompagnata da fiamme e da denso fumo nero.

In effetti l’attacco ebbe pieno successo, e le valutazioni degli equipaggi dei “Do.217” risultarono quasi esatte. Fin dal primo passaggio, effettuato dalla formazione dei cinque velivoli avvistati dal cacciatorpediniere “Legionario”, che era guidata dallo stesso maggiore Jope, una delle cinque bombe cadde di prora all’”Eugenio di Savoia”, ad una cinquantina di metri di distanza dall’incrociatore, nave ammiraglia della 7a Divisione Navale. Un’altra bomba, sganciata dal velivolo del maggiore Jope e manovrata nel puntamento dal caporale Klapproth, mancò di pochissimo la poppa della corazzata “Italia” (ex “Littorio”), causando, con la concussione dell’esplosione in acqua, lo scatto di tutti gli interruttori di massima con conseguente avaria momentanea del timone principale.

Questo primo attacco tedesco avvenne con la reazione contraerea delle unità, sempre modesta da parte italiana e non adeguata alla situazione. Al momento in cui il cacciatorpediniere “Legionario” avvistò allo zenit gli aerei nemici, ai direttori del tiro che chiedevano di sparare fu ordinato dal comando di “aspettare”, e quando il fuoco ebbe inizio con poche salve sparate dai modesti cannoni contraerei da 90 mm, risultò, come vedremo, assolutamente insufficiente.

Secondo la Commissione d’Inchiesta Speciale della Marina italiana (SIS) la “sorpresa tecnica” che impedì ai cannoni contraerei di far fuoco con una certa celerità fu rappresentata dalla quota e dall’angolazione (sito di circa 80° invece dei 60° previsti in un attacco convenzionale) con cui i velivoli tedeschi sganciarono le loro bombe. Tuttavia non vi furono conseguenze, perché la “Roma”, che era in quel momento la terza unità della formazione delle corazzate, non rappresentò il bersaglio di quell’attacco. E’ quindi è assolutamente da escludere che a colpire la “Roma” sia stato il velivolo del maggiore Jope, o uno della sua formazione, com’é stato più volte sostenuto nel corso degli anni da giornalisti e storici male informati.

Intorno alle 15.50, nel corso di un altro passaggio effettuato, con la medesima tattica, da tre “Do.217” della 7a Squadriglia del III./KG.100, al comando del tenente Ernst Michelis, le cose andarono diversamente. La PC.1400 X sganciata dal Do. 217 del diciannovenne tenente pilota Klaus Duemling, alla sua prima missione di guerra, colpì la corazzata “Roma”. La bomba, guidata dal puntatore, il sottufficiale Penz, scendendo da 7.000 metri in quarantuno secondi, perforò il ponte corazzato della nave da battaglia, che in quel momento si trovava in accostata sulla sinistra, ad esplose a un metro circa dalla murata di dritta, sotto lo scafo, aprendovi una grossa falla, e determinando l’arresto di due caldaie con conseguente riduzione della velocità della corazzata a sedici nodi.

Fino a quel momento la “Roma” aveva sparato circa sei salve con i cannoni contraerei da 90 mm di dritta su uno dei velivoli attaccanti, e in particolare una decina di colpi furono sparati dal solo complesso n. 7. Il tiro contraereo della corazzata fu pertanto considerato dalla Commissione Inchiesta Speciale della Marina (CIS) abbastanza rapido, considerando il fatto che non era stato possibile impiegare le torri di medio calibro (152 mm.), che non poterono sparare perché gli aerei nemici avevano il sito troppo alto.

Meno intensa risultò la reazione della “Roma” al delinearsi del successivo attacco aereo, il terzo, che portò la corazzata ad essere colpita dalla seconda bomba, con effetti devastanti. Ciò fu dovuto, secondo la CIS, alla menomazione in cui erano venuti a trovarsi gran parte dei complessi contraerei da 90 mm. e di medio calibro, per effetto dell’esplosione della prima bomba, che raggiunse la nave da battaglia “dopo che essa aveva evoluito di circa 60°”.

L’azione fu realizzata da una formazione di tre Do. 217 della 11a Squadriglia del III./KG.100, guidata dal capitano pilota Heinrich Schmetz, che alla quota di 7.000 metri si avvicinarono alle navi italiane, mentre le granate della loro contraerea, dalla scarsa portata in altezza, esplodevano sotto i velivoli tedeschi, ognuno dei quali scelse il proprio bersaglio. Il sergente pilota Kurn Steinborn, che aveva per puntatore il sergente Eugen Degan (gli altri due membri dell’equipaggio erano il radiotelegrafista Anders e il meccanico di bordo Walther), diresse verso la nave italiana più grossa. Mantenendo la calma, Steimborn manovrò in modo da permettere a Degan, di effettuare, con più facilità e mano ferma, una precisa punteria nel dirigere la bomba sul bersaglio, mantenendo la mira sulla codetta luminosa posta nella coda della bomba che stava scendendo verso l’obiettivo. L’apparecchio fotografico per scattare immagini in sequenza fu attivato in modo che, nel caso l’obiettivo fosse stato colpito potesse essere fatto un fotogramma del momento d’impatto, per avere la certezza d’aver colpito il bersaglio, come in effetti avvenne.(2)

Alle 15.52, dopo quarantadue minuti dallo sgancio dal velivolo di Steimborn, la sua micidiale bomba “PC. 1400 X” colpì la “Roma” a prora, sotto il torrione Comando e vicino ad un deposito di cariche di lancio dei proietti da 381 mm. L’impatto avvenne ad un metro circa dalla murata di dritta, e ala bomba perforò il ponte corazzato della nave da battaglia, che in quel momento si trovava in accostata sulla sinistra, e scoppiando sotto lo scafo, aprendovi una grossa falla, determinò l’arresto di due caldaie con conseguente riduzione della velocità a sedici nodi. Un forte incendio fu fatale alla “Roma”, perché raggiunse il deposito delle cariche di lancio. Ne seguì un enorme calore che investendo il torrione determinò la morte pressoché istantanea dell’ammiraglio Carlo Bergamini, del contrammiraglio Stanislao Caracciotti suo Capo di Stato Maggiore, e del Comandante della Roma, capitano di vascello Adone Del Cima. Essi decedettero tra le fiamme con la totalità dei tanti collaboratori, ufficiali, sottufficiali e comuni, che si trovavano nelle plance Ammiraglio e Comandante della corazzata, e in tutti gli altri locali del torrione, con i quali, dal momento dell’esplosione, ogni collegamento cessò di esistere.

La “Roma”, splendida nave, di 41.650 tonnellate (42.615 tonnellate a pieno carico), orgoglio della cantieristica e italiana e della Regia Marina, sbandò sulla dritta, e alle 16.12 fu squarciata dalla deflagrazione della torre sopraelevata prodiera dei grossi calibri, che fu interamente asportata, lasciando al suo posto una grossa voragine da cui si sollevava un forte incendio, misto ad un’altissima e densa colonna di fumo nero.

Un altro incendio scoppio in prossimità del fumaiolo prodiero, mentre il torrione in fiamme, che si trovava in prossimità della torre dei 381 mm. asportata, si inclinò in avanti. In pochi minuti la nave da battaglia assunse un forte sbandamento sulla dritta, che andò aumentando velocemente. Quindi, ruotando, la corazzata si capovolse, per poi spezzarsi in due tronconi che, fotografati da un aereo britannico, affondarono entrambi verticalmente entro le ore 16.15. Il dramma della “Roma”, dal momento della deflagrazione del deposito munizioni all’affondamento, si era concluso nello spazio di soli tre minuti.

Scrisse la CIS nella sua relazione: “Venne perciò a mancare l’azione di comando che, più che a tentare di salvare la Nave colpita a morte, avrebbe mirato a ordinare ovunque il rapido abbandono e a convogliare tempestivamente la maggior parte della gente salvabile verso le zone idonee per effettuare lo sgombero della Nave. Donde forse una causa concomitante della notevole percentuale delle perdite di vite umane”.

Sul rapido affondamento della “Roma” e in particolare sulla morte di tanti uomini del suo equipaggio, nell’immediato dopoguerra la Commissioni Speciale d’Inchiesta Speciale della Marina (CIS), escluse nella sua relazione che vi fossero da fare addebiti “nei confronti del Comando di bordo della “Roma”, i cui membri, dall’Ammiraglio Comandante ai gregari e ai subalterni, “assolsero in pieno il loro dovere”.

Altrettanto “lodevole” fu considerato “il comportamento dell’equipaggio” della corazzata, che “nella grandissima contingenza si mantenne disciplinato”, senza esprimere “manifestazioni di panico e di sbandamento morale”, fino al momento in cui, aumentando pericolosamente lo sbandamento della “Roma”, il tenente di vascello Incisa della Rocchetta prese l’iniziativa di ordinare “l’abbandono della nave”. Fu anche lodata l’opera svolta dalle unità della scorta e delle torpediniere nella generosa opera di salvataggio dei naufraghi della corazzata; valutazione espressa dalla C.I.S., con cui concordò lo stesso Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio di squadra Franco Maugeri, che si disse d’accordo nell’avanzare proposte al Valor di Marina ai membri del personale più meritevoli.

Nel corso dell’attacco dei Do. 217 del III./KG.100, alle ore 16.29, quando la “Roma” era già affondata, la corazzata “Italia” (capitano di vascello Sabato Bottiglieri), ex “Littorio”, fu anch’essa colpita da una bomba “PC. 1400 X” sul castello prodiero, a circa due metri dalla murata di destra, al traverso della torre di grosso calibro n. 2. Perforando il castello e la murata del 1° corridoio, la bomba, forse sganciata da un aereo ritardatario della squadriglia 11./KG.100, esplose in mare producendo uno squarcio a prora, sulla sinistra dell’ ”Italia” di circa ventuno metri per nove. Tuttavia, nonostante avesse imbarcato, attraverso una falla apertasi sullo scafo, 800 tonnellate d’acqua, la corazzata poté continuare la sua navigazione mantenendo la velocità di ventiquattro nodi della Squadra Navale. La velocità della corazzata fu poi ridotta a ventidue nodi nella notte a causa del riscaldamento dei condensatori delle macchine esterne.

Non furono altrettanto fortunati i cacciatorpediniere “Antonio Da Noli” e “Ugolino Vivaldi” che, provenienti dalla zona di Civitavecchia, dove avrebbero dovuto imbarcare il Re d’Italia e il suo seguito da portare alla Maddalena, stavano seguendo la Squadra Navale per tentare di raggiungerla. Avendo ricevuto l’ordine di impegnare tutte le navi tedesche incontrate lungo la rotta, attraversando lo Stretto di Bonifacio i due cacciatorpediniere furono bersagliati da batterie di cannoni da 88 mm., dislocati sulla costa meridionale della Corsica, ed entrambi gravemente colpiti. Subito dopo, il “Da Noli”, affondò nell’attraversare uno sbarramento minato, posato il precedente 26 agosto in quelle acque dai posamine germanici “Pommer” e “Brandenburg”, e che da Supermarina doveva essere portato a conoscenza dei due cacciatorpediniere. La stessa sorte subì il “Vivaldi”, che nell’attraversare il Golfo dell’Asinara, ricevette il colpo di grazia da una bomba planate radiocomandata Hs 293, caduta vicino allo scafo e sganciata da un solitario velivolo “Do.217” del II./KG.100. Ingenti furono le perdite umane riportate dai due cacciatorpediniere: mancarono all’appello 205 uomini del “Da Noli”, incluso il comandante Pio Valdambrini, e 40 del “Vivaldi”, che era comandato dal capitano di vascello Francesco Camicia.

Le perdite tedesche furono limitate a un Do 217 della 4a Squadriglia del II./KG.100, finito in mare mentre al rientro dalla missione dirigeva verso la costa francese. Decedettero tutti i quattro membri dell’equipaggio, che avevano per pilota e capo equipaggio il tenente Erhard Helbig.

Secondo quanto ebbe modo di appurare la Commissione d’Inchiesta Speciale della Marina, dall’incrociatore “Duca degli Abruzzi”, nave ammiraglia della 8a Divisione Navale, che si trovava al momento del sinistro a soli 1.000 metri di distanza dalla “Roma”, al momento in cui essa venne colpita fu constatata la produzione di due enormi fiammate, senza rumore di scoppio. Ciò fu considerato dalla C.I.S.) come un indice di deflagrazione e non di esplosione del munizionamento che, se fosse avvenuto, avrebbe causato l’immediata scomparsa della corazzata, e quindi la perdita della totalità dell’equipaggio. Ricordo che nell’esplosione istantanea dell’incrociatore da battaglia britannico Hood, centrato il 24 maggio 1941 nello stretto di Danimarca da proietti della corazzata tedesca “Bismarck”, vi furono soltanto tre superstiti su un equipaggio di circa 1500 uomini.

Sullo svolgimento e sulle conseguenze degli attacchi aerei tedeschi cui fu sottoposta la Forza Navale da Battaglia durante il pomeriggio della giornata del 9 settembre 1943, l’ammiraglio Romeo Oliva, Comandante, sull’incrociatore “Eugenio di Savoia”, della 7^ Divisione Navale, e che dopo la morte dell’ammiraglio Carlo Bergamini aveva assunto il Comando delle Forze Navali da Battaglia, dirette a Bona, fece nel suo rapporto di missione le seguenti osservazioni:

“Se la Forza Navale fosse stata protetta anche da pochi aerei da caccia, l’opera degli aviatori tedeschi sarebbe stata certo notevolmente intralciata dato che gli attacchi venivano eseguiti da piccoli gruppi di aerei in ondate successive (all’incirca ogni mezz’ora). Il seguito della navigazione compiuta assieme alle navi inglesi, fortemente scortate da aerei da caccia, ha dimostrato chiaramente quali risultati si possono raggiungere, nei confronti della sicurezza della navigazione, con l’uso degli apparecchi efficaci e con l’impiego di aerei che abbiano basi in porti bene situati rispetto alla rotta.

Durante i numerosi attacchi aerei tutte le unità hanno sempre manovrato con prontezza e decisione e ciascuna per conto proprio; altrettanto prontamente la formazione veniva riordinata al cessare di ogni attacco riprendendo la marcia con direttrice ponente. Il fuoco c.a. è stato sempre nutrito ma si è rilevato poco efficace.

Con una formazione così numerosa e disposta, all’inizio, su una lunga fila, non erano possibili manovre d’insieme sotto gli attacchi aerei: esse non sarebbero certamente risultate tempestive per la maggior parte delle Unità, mentre la forte accostata individuale, spesso con aumento di velocità fatta all’incirca al momento dello sgancio, si è dimostrata molto efficace ed ha consentito agli incrociatori di evitare parecchie bombe ad essi dirette.”

Sul mancato intervento di velivoli da caccia terrestri che avrebbero potuto intervenire contro i Do 217 – inclusi i Re. 2001 del 161° Gruppo Caccia che fin dalla primavera del 1943 erano stati assegnati da Superaereo all’impiego della flotta assieme agli Mc. 200 del 2° Gruppo Caccia da Sarzana, inviati a Latina per aumentare la difesa aerea nella zona di Roma – occorre dire che vi fu indubbiamente da parte dei vertici della Marina molta leggerezza, aggravata dall’incertezza del Comando Squadra, e non ne conosciamo il motivo, che le tre corazzate facessero decollare al primo allarme i loro quattro caccia imbarcati Re.2000. Da parte sua il Comando dell’Aeronautica della Sardegna, aderendo ad una generica richiesta di appoggio aereo avanzata da Supermarina, sollecitata dell’ammiraglio Bergamini all’armato dalla presenza di ricognitori tedeschi e temendo di essere attaccato da aerosiluranti, fece decollare, al comando del capitano Remo Mezzani, una pattuglia di quattro Mc 202 del 13° Gruppo Caccia Terrestre. Essi, però, non trovarono le navi da scortare perché, incredibilmente, i piloti non erano stati informati dell’esatta rotta che la flotta stava seguendo.

Sulla scarsa reazione contraerea, sull’imprecisione del tiro, e sull’insufficienza di manovra opposta dalle navi italiane all’attacco dei bombardieri tedeschi, il capitano di fregata Marco Notarbartolo, comandante del piccolo incrociatore Attilio Regolo, fece le seguenti e interessanti osservazioni, trascritte nel suo “Rapporto di navigazione”, datato 22 settembre 1943:

“Le FF.NN., a giudizio dello scrivente, hanno scarsamente reagito con la manovra all’azione avversaria.

Non è stato ordinato il diradamento (E 6) previsto dalla S.M. 3, sì che le molte Unità della lunga linea di fila sono venute a trovarsi notevolmente imbarazzate nella manovra individuale per evitare l’offesa nemica.

Le due accostate ad un tempo durante la prima fase dell’attacco hanno portato, in certi momenti, a inopportuni avvicinamenti tra le Unità mentre nell’ultima fase il disordine determinatosi, sopratutto tra gli incrociatori, hanno fatto sì che l’attenzione dei Comandi dovesse essere rivolta più a scongiurare i pericoli di collisione che la minaccia dall’alto.

Il tiro c.a. delle Unità è stato alquanto fiacco e disordinato e quindi inefficace. Gli aerei attaccanti non ne sono stati menomamente disturbati: essi hanno proceduto sulle rotte di sgancio senza preoccuparsi degli scoppi delle granate c.a. che, d’altronde, erano radi e assai distanziati da essi.”

Queste dure considerazioni del capitano di fregata Notarbartolo furono giustificate, almeno in parte, dall’ammiraglio Oliva che, nella sua relazione, sostenne che tutte le unità navali della Forza Navale da Battaglia avevano sempre “manovrato con prontezza e decisione e ciascuna per proprio conto”, mentre “il fuoco contraereo è stato sempre nutrito ma si è rivelato poco efficace”.

Quindi Oliva specificò:

“Con una formazione così numerosa e disposta, all’inizio, su una lunga linea di fila [conseguenza dell’inversione di rotta nello Stretto di Bonifacio – N.d.A.] , non erano possibili manovre d’insieme sotto gli attacchi aerei: esse non sarebbero certamente risultate tempestive per la maggior parte delle Unità, mentre la forte accostata individuale, spesso con aumento di velocità fatta all’incirca al momento dello sgancio, si è dimostrata molto efficace ed ha consentito agli Incrociatori di evitare parecchie bombe ad essi dirette”.


Francesco Mattesini

Roma, 20 marzo 2013

Riferimenti:

Francesco Mattesini, “La Marina e l’8 settembre”, I Tomo “Le ultime operazioni offensive della Regia Marina e il dramma della Forza Navale da Battaglia”; II Tomo “Documenti”, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 20002.

Francesco Mattesini, "Alcune immagini della nostra guerra sul mare": Parte undicesima. 1° luglio - 8 settembre 1943; Parte dodicesima. 9 settembre - 31 dicembre 1943, in Bollettino d'Archivio dell'Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, Settembre - Dicembre 2003.

_______________________

(1) Le caratteristiche della bomba “PC 1400 X”, chiamata “Fritz” e dotata di quattro ali tronche disposte ad X, erano le seguenti: peso della bomba 1.570 chili; esplosivo contenuto 325 chili; velocità di caduta 280 metri/secondo, pari a circa 1.000 Km/ora; perforazione, nella fase della sperimentazione, lastre di acciaio spesse 120 mm.; sistema di radioguida che, mediante un trasmettitore radio a 18 canali, permetteva di agire parzialmente sul sistema ricevente sulla bomba; grosso bengala che, lasciando dietro di se una scia di fumo, permetteva all’operatore, sull’aereo, di seguire la traiettoria della bomba, e di correggerne la traiettoria agendo con una cloche su un sistema posto sulla coda della “Fritz” e costituito da quattro alette mobili a croce - fino a 600 metri di oscillazione laterale e per circa 400 metri in oscillazione longitudinale.” Era proprio la scia di fumo, aggiunta ad un forte bagliore lasciati nella caduta dalla “PC.1400 X, a dare sulle navi italiane l’impressione che si trattasse di bombe razzo, mentre in realtà non lo erano affatto.

(2) Il sergente Degan, assegnato quale osservatore al velivolo del comandante della 7^ Squadriglia del III./KG.100, capitano pilota Ernst Michelis, decedette dieci giorni più tardi, il 19 settembre 1943, assieme a tutti i membri dell’equipaggio del velivolo, nel corso di una missione nel Golfo di Salerno, iniziata con decollo dall’aeroporto di Foggia. Cfr. Ulf Balke, Kampfgeschwader 100 “Wiking”, cit., p 266-267.

Gentile Sig. Mattesini, posso provare a usare quanto da lei qui riportato per arricchire la voce. Se ne avessi bisogno (e ne avrò bisogno), sarebbe in caso disponibile a fornire i riferimenti precisi delle pagine dei suoi libri?
Per il futuro, comunque, cerchi se può di non fare interventi così lunghi: ne va della leggibilità degli stessi... magari qualche informazione alla volta sarebbe meglio. Se ha bisogno di aiuto tecnico su Wikipedia non esisti a contattarmi, anche via mail se vuole (fornirò l'indirizzo su richiesta). Cordiali saluti --Zero6 19:28, 20 mar 2013 (CET)[rispondi]

Come utilizare il materiale qui sopra[modifica wikitesto]

Zero. Posso fornire i riferimentio richiesti. Mi dovrebbe dire in quali voci (articoli) dovrebbero essere posti. Riconosco che nei mei interventùi sono molto lungo, ma dipende dal fatto che le notizie, secondo me, vanno date complete. Di aiuto tecnico ne avrei bisogno. Se mi fornisce la sua mail, possiamo discuterne privatamente. Cordiali saluti Francesco Mattesini

La voce principale in cui secondo me trattare la vicenda è Consegna della flotta italiana agli Alleati, paragrafo "4.1 La "Prima Squadra" a La Spezia" e relativi sottoparagrafi. Tra l'altro, in quella pagina è già citato un suo lavoro (7 - 11 Settembre 1943, su Storia Militare, in due parti, N° 168, Settembre 2007, pag 47-59 e N° 169 Ottobre 2007 pag 39-51). Poi via via possiamo ampliare le varie voci ancillari come, appunto, la voce sulla corazzata Roma. Mi ci vorrà un po' di tempo però, perché non è un lavoro facilissimo. La terrò comunque aggiornata sui lavori. Per inviarmi una mail può cliccare qui.
Cordiali saluti anche a lei. --Zero6 12:15, 21 mar 2013 (CET)[rispondi]
Un bentrovato a Francesco Mattesini, che da me avanza di certo una telefonata, e me ne scuso (ti ricordi che ci siamo sentiti mesi fa, credo, ma non sono sicuro di avere ancora il tuo numero, mea culpa). Questo intervento è ottimo, ma dovremmo inserirlo nella voce in qualche modo. Francesco, sei una risorsa preziosa e te l'ho già detto, nella tua veste di storico navale, ma dobbiamo trovare il modo di non disperdere il tuo lavoro. Sulle voci del Mediterraneo nella II GM abbiamo ancora grosse lacune, anche se in embrione gli episodi ci sono tutti. Se te la senti, potremmo scegliere una voce non ancora molto sviluppata, come l'impresa di Alessandria e magari ci metti mano direttamente seguito da vicino da noi. Io vorrei anche integrare quello che hai scritto qui nella voce, ma Zerosei ha ragione sul fatto che non sia facile. Dammi un cenno per Alessandria e partiamo, che quella voce mi solletica da tempo. --Pigr8 La Buca della Memoria 19:18, 22 mar 2013 (CET)[rispondi]
Appena ho una risposta io faccio quanto ho già detto. --Zero6 19:57, 22 mar 2013 (CET)[rispondi]


Sto già lavorando per il cambio delle note, basandole a quanto ho scritto sul mio libro ufficiale dell'Ufficio Storico della Marina Militare, "La Marina e l'8 settembre", sull'affondamento della corazzata ROMA. Comunque vorrei conoscere quale sarebbe il compito da affidarmi nella "Notte di Alessandria". Saluti a tutti. Francesco Mattesini

Sig. Mattesini, mi invii la sua mail cliccando qui e compilando il messaggio, così potremo tenerci meglio in contatto per la questione del numero delle pagine. Grazie. --Zero6 10:33, 25 mar 2013 (CET)[rispondi]
Ok, ma io avrei una domanda: il testo contenuto in questa sezione, che mi sembra comunque utilizzabile con alcune piccole modifiche e le note opportune, posso inserirlo in voce? Se si, pregherei Francesco di andare a mettere le note direttamente lì coem gli viene più comodo e poi provvediamo noi a sistemarle. Va bene?

--Pigr8 La Buca della Memoria 16:37, 25 mar 2013 (CET)[rispondi]


Benissimo. Metterò apposto le note che mi riguardano. Francesco

Ah volendo si può fare anche così, certo è più veloce. Pigr8 io avevo proposto di integrare le info in consegna della flotta italiana agli Alleati. Mi pare strano che la vicenda della corazzata Roma per intero debba stare in questa voce, quando insieme a lei partirono tante altre navi. In questa pagina può stare quello che riguarda la Roma in senso stretto, con una panoramica generale che IMHO deve essere completa e approfondita nella voce che ho detto. Fammi sapere, ciao --Zero6 19:39, 25 mar 2013 (CET)[rispondi]
Beh, anche quella sarebbe una idea, però secondo me anche questa voce ne beneficierebbe, quindi magari potremmo mettere il grosso delle informazioni nella voce sulla consegna della flotta e le parti specificatamente relative alla Roma anche qui. In fondo quella fu l'unica missione di combattimento della Roma, oltre che quella che la consegnò alla storia, e merita qualche info in più. --Pigr8 La Buca della Memoria 20:11, 25 mar 2013 (CET)[rispondi]
Si era quello che intendevo --Zero6 16:22, 26 mar 2013 (CET)[rispondi]

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L'ATTACCO ALLA FLOTTA ITALIANA DESCRITTO NEI RAPPORTI TEDESCHI


E interessante conoscere quale fu lo svolgimento degli attacchi del KG.100 secondo i rapporti tedeschi venuti in possesso degli inglesi alla fine della guerra. Da essi risulta, come io ho messo in risalto fin dal 1980 nel libro “La partecipazione tedesca alla guerra aeronavale nel Mediterraneo (1940-1945)”, che dei ventotto Do. 17 partecipanti agli attacchi contro la flotta italiana ventiquattro individuarono e attaccarono l’obiettivo.

Il primo attacco degli undici Do. 217 del III./KG.100 ebbe inizio alle 15.35 a 15 miglia ad ovest di Bonifacio e si prolungo fino alle 17.40, sganciando le bombe PC.1400 X da una quota fissata di 6500 metri, e fu agevolata dal tempo buono con grande visibilità che concesse agli operatori di dirigere le proprie bombe sul bersaglio prescelto fino al momento dell’impatto. Tutti gli aerei sganciarono la loro bomba. Fu ritenuto che tre di esse avessero colpito due corazzate e un incrociatore, e furono viste una corazzata e un incrociatore fermarsi. Inoltre furono osservati tre colpi diretti su due corazzate, e su una di esse fu vista una grossa esplosione accompagnata da denso fumo e fiamme. Fu in questo primo attacco che si verificò l’affondamento della corazzata ROMA e il danneggiamento della ITALIA.

Il secondo attacco avvenne tra le 19.30 e le 19.34 da un altitudine tra i 1.300 e i 1.700 metri, e in questa occasione furono sganciate, dai Do.217 del II./KG.100, sette bombe radiocomandate Hs.293. Fu ritenuto che una di queste bombe avesse colpito il fianco di un cacciatorpediniere (il VIVALDI), sul quale fu osservata una densa cortina di fumo. Una bomba cadde a 5 metri da un incrociatore e un’esplosione fu osservata a prora di quella nave. Un’altra bomba cadde tra i 5 e i 10 metri da un altro incrociatore, ma non ebbe effetti apparenti.

Il terzo attacco si sviluppò tra le 19.20 e le 19.40, e vi parteciparono sei Do. 217 del III./KG.100 che dopo essere rientrati alla base dal primo attacco si erano riforniti ad Istres e ripartiti per ripetere l’azione, suddivisi in due formazioni di tre velivoli. La prima formazione non riuscì ad individuare le corazzate italiane e sganciò le bombe PC.1400 X da un’altezza di 7.000 metri contro una squadra di incrociatori a 10 miglia a nord-nordovest da Punta Caprera, ma gli equipaggi dei Do. 217 non osservarono colpi a segno. La causa dell’insuccesso fu attribuita al fatto che due delle tre bombe ebbero un mal funzionamento a causa di problemi tecnici.

La seconda formazione del III./KG.10 individuò ed attaccò a 20 miglia a nord-ovest di Alghero la forza navale italiana nella seguente ripartizione: due linee di due - quattro cacciatorpediniere seguiti da due corazzate, che avevano gli incrociatori e altri i cacciatorpediniere sui fianchi. Fu osservata una PC. 1400 X colpire una nave da battaglia, e gli equipaggi dei velivoli dichiararono che essa era in fiamme. Il colpo a segno fu osservato da un aereo da ricognizione tedesco che, nel fare un buon servizio di mantenimento del contatto, alle 19.40 notò diverse esplosioni, ma soltanto su un incrociatore che poi fu visto arrestarsi in precarie condizioni. (1)

In realtà, come sappiamo, nel corso degli ultimi due attacchi vi fu molto ottimismo da parte degli equipaggi degli aerei tedeschi, poiché non vi furono colpi a segno sulle navi italiane, che sfuggirono alle bombe guidate con abili manovre dirette dai loro comandanti. Questa volta non si erano fatti sorprendere com’era accaduto nel primo attacco che aveva portato all’affondamento della corazzata ROMA e al danneggiamento dell’ITALIA. (2)

Francesco Mattesini

Roma, 26 marzo 2013

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(1) Francesco Mattesini, “La Marina e l’8 Settembre, II Tomo: Documenti”, (lettera dell’Ammiragliato britannico n. 324 f. 223 del 31 luglio 1953), Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 2002, Documento n. 99, pg.438-439. Gli Ju 88 che nel corso della giornata del 9 settembre svolsero il servizio di ricognizione, per scoprire la flotta italiana in modo da permetterne l'attacco alle formazioni offensive e controllarne i risultati, appartenevano alla 1.(F)/33 di base ad Istres, la sola squadriglia da ricognizione rimasta disponibile nella 2a Flieger Division, dopo il trasferimento a Frosinone della 3.(F)/33. Nel mese di settembre 1943 la 1.(F)/33 aveva disponibili dodici Ju 88 D1.

(2) Dopo il successo contro la flotta italiana nell’ambito del 100° Stormo Bombardamento in Francia vi furono vari cambi di responsabilità, ordinati da un euforico Alto Comando della Luftwaffe (Ob.D.L.). Con la data del 10 settembre il maggiore Bernhar Jope cessò dalla carica di comandante del 3° Gruppo e, sostituito nel III./KG.100 dal maggiore Gerhard Döhler, assunse il comando dello Stormo. Il maggiore Fritz Auffhammer, per far posto a Jope, fu mandato a Schatalowka, a comandare il KG.3, mentre a comandare il II./KG.100 fu destinato il capitano Heinz Molinnus, che subentro al capitano Franz Hollweg. Cfr., Ulf Balke, “Kampfgeschwader 100 “Wiking””, Motorbuch Verlag, Stuttgart, 1981, p. 265


Dopo aver inserito la terza parte del "Dramma delle Forze Navali da Battaglia" si potrebbe fare del tutto un testo unico, magari inserendolo nella Voce della "Marina e l'armistizio", oppure sulla storia della "corazzata Roma", il tutto con le note bibliografiche. Pensateci. Francesco Mattesini

Conto di fare delle aggiunte oggi. --Zero6 08:02, 29 mar 2013 (CET)[rispondi]


Apporto alla vostra Voce la seguente Variazione, per correggere un errore gravissimo:

Vostro testo: Alla partenza da La Spezia non erano stati imbarcati i tre caccia re2000 che ciascuna delle le corazzate classe Littorio poteva portare a bordo, i soli mezzi che avrebbero potuto contrastare l'azione ad alta quota dei bombardieri tedeschi (la contraerea riuscì comunque a far precipitare un velivolo).[13]

Nota 13) - E’ il solito Petacco!

Mia Variazione Le tre corazzate avevano sbarcato alla Spezia i loro ricognitori Ro. 43 per tenere pronti sulle catapulte i caccia Re 2000: uno ciascuno sulla ROMA e sulla ITALIA e due sulla VITTORIO VENETO, nave ammiraglia della IX Divisione Navale, da cui dipendevano le tre corazzate. Sulla ROMA vi era il Comando Squadra dell'ammiraglio Carlo Bergamini, che fino al giorno precedente (mattino dell'8 settembre) era sulla ITALIA (ex LITTORIO). Dopo l’avvistamento di un ricognitore Ju 88 tedesco della Squadriglia 1.(F)/33, che segnalò la flotta italiana, il Comando Squadra ordinò: “Preparatevi a catapultare Re. 2000”. Ma quando si preannunciò l’attacco tedesco, piuttosto improvviso, i velivoli non ebbero l’ordine di decollare. Dopo i primi attacchi, quando già il velivolo della ROMA erano andato perduto con la corazzata, il nuovo comandante delle Forze Navali da Battaglia, ammiraglio Romeo Oliva, sull'incrociatore EUGENIO DI SAVOIA, alle 17.26 ordinò alle due rimanenti navi da battaglia di fare decollare i loro Re. 2000, ma soltanto la VITTORIO VENETO alle 18.12 fece partire uno dei suoi due aerei, mentre l’ITALIA dovette lanciare il suo in mare perché rimasto danneggiato sulla catapulta quando la corazzata era stata colpita. Il Re. 2000 della VITTORIO VENETO non ebbe modo di intervenire contro gli aerei tedeschi anche perché, essendo al limite dell’autonomia, ricevette l’ordine di raggiungere Ajaccio, in Corsica. Nell’atterrare il velivolo si sfasciò causando il fermento del pilota, tenente Guido Parrozani. Conseguentemente soltanto un Re. 2000 rimase disponibile sulla VITTORIO VENETO, e con essa arrivò a Malta, com’è chiaramente dimostrato in una famosa foto della corazzata all’ancora. Quanto al velivolo tedesco non rientrato alla base, esso non fu colpito dalla contraerea. Il Do. 217, del II./KG.100, fu costretto ad ammarare per guasto meccanico. Morirono il pilota, tenente Erhard Helbig, e i tre uomini del suo equipaggio. Cfr. Francesco Mattesini, “La Marina e l’8 Settembre", Tomo I, "Testo", USMM, Roma 2002, p. 516 e p. 524.

Francesco Mattesini

Ha ragione, tra l'altro nella voce prima si dice che a bordo ce ne era uno al momento della partenza, salvo poi contraddirsi. Il punto è: è sicuro che a bordo della ROMA ce ne fossero 2? Perché la fonte in questa pagina dice uno, e anche nella voce del Reggiane Re.2000, dove è tutto spiegato in maniera corretta, si dice la stessa cosa, con tanto di fonte. Avendo curato la voce del Reggiane, posso confermare che la fonte dice quanto riportato in voce.
In ogni caso, anche queste informazioni le riporteremo nella voce sulla consegna della flotta, in più faccio un'aggiunta nella voce dell'aereo, grazie. Attendo quindi una risposta, saluti. --Zero6 20:16, 29 mar 2013 (CET)[rispondi]


Hai rafgione, la mia memoria non è più quella di una volta e, controllando sul mio testo, ho rettificato che due Re. 2000 erano a bordo della VITTORIO VENETO. Controllerò ancora meglio la Voce e se vi trovo altre inesattezze te la segnalerò. Francesco.


ALTRA VARIAZIONE (affondamento cacciatorpediniere DA NOLI e VIVALDI)

…ma costrette a passare attraverso le Bocche di Bonifacio le due unità vennero attaccate delle motosiluranti tedesche e subirono il bombardamento delle batterie costiere tedesche posizionate in Sardegna e in Corsica [27] L'Antonio da Noli, ripetutamente colpito, affondò causando la morte di 228 uomini su 267 dell'equipaggio, tra cui il comandante capitano di fregata Pio Valdambrini. L'Ugolino Vivaldi, pur gravemente danneggiato, proseguì per breve tempo verso est oltre l'Asinara, ma dopo avere urtato una mina, non essendo più in grado di proseguire, venne autoaffondato dal suo comandante, il capitano di vascello Francesco Camicia.[27] Le navi impegnate nel salvataggio dei naufraghi della corazzata Roma recuperarono anche i sopravvissuti dei due cacciatorpediniere.[28]


VARIAZIONE, basarsi su quanto ho scritto in DISCUSSIONE:

“Non furono altrettanto fortunati i cacciatorpediniere “Antonio Da Noli” e “Ugolino Vivaldi” che, provenienti dalla zona di Civitavecchia, dove avrebbero dovuto imbarcare il Re d’Italia e il suo seguito da portare alla Maddalena, stavano seguendo la Squadra Navale per tentare di raggiungerla. Avendo ricevuto l’ordine di impegnare tutte le navi tedesche incontrate lungo la rotta, attraversando lo Stretto di Bonifacio i due cacciatorpediniere furono bersagliati da batterie di cannoni da 88 mm., dislocati sulla costa meridionale della Corsica, ed entrambi gravemente colpiti. Subito dopo, il “Da Noli”, affondò nell’attraversare uno sbarramento minato, posato il precedente 26 agosto in quelle acque dai posamine germanici “Pommer” e “Brandenburg”, e che da Supermarina doveva essere portato a conoscenza dei due cacciatorpediniere. La stessa sorte subì il “Vivaldi”, che nell’attraversare il Golfo dell’Asinara, ricevette il colpo di grazia da una bomba planante radiocomandata Hs 293, caduta vicino allo scafo e sganciata da un solitario velivolo “Do.217” del II./KG.100. Ingenti furono le perdite umane riportate dai due cacciatorpediniere: mancarono all’appello 205 uomini del “Da Noli”, incluso il comandante Pio Valdambrini, e 60 del “Vivaldi”, che era comandato dal capitano di vascello Francesco Camicia”.

Cfr. Francesco Mattesini, “La Marina e l’8 Settembre", Tomo I, "Testo", USMM, Roma 2002, Capitolo LXI, “L’affondamento dei cacciatorpediniere Antonio Da Noli e Ugolino Vivaldi”, p.539 – 548. Il rapporto sull’affondamento dei due cacciatorpediniere si trova, in forma originale fotocopiata, nel “II Tomo – Documenti”, p. 553-567.

Faccio notare che non vi fu alcun attacco di motosiluranti tedesche, ma fu constatata soltanto la presenza sotto la costa della Corsica di alcune motozattere. Inoltre i naufraghi dei due cacciatorpediniere non furono recuperati dalle torpediniere italiane, che si trovavano molto lontane, ma altri mezzi aerei e navali. Ventuno uomini del DA NOLI furono recuperati il 10 settembre da un idrovolante tedesco Do.24 della 8a Squadriglia Soccorso (altri tre Do. 24, impegnati generosamente nell’opera di salvataggio, furono incendiati e distrutti dopo l’ammaraggio da un velivolo B.24 statunitense). Il 12 settembre il sommergibile britannico SPORTSMAN raccolse quarantadue uomini del DA NOLI, e il 15 settembre la motozattera Mz.780 (guardiamarina Alfonso Fappiano), raccolse altri sette uomini del VIVALDI portandoli poi alle Isole Baleari.

Come si vede i testi da Voi consultati sono particolarmente imprecisi.

Francesco

✔ Fatto, ma mi serve il numero delle pagine per la questione del recupero, grazie. --Zero6 09:34, 30 mar 2013 (CET)[rispondi]

Fatto. Ma devi cambiare "Le navi impegnate nel salvataggio dei naufraghi della corazzata Roma recuperarono anche i sopravvissuti dei due cacciatorpediniere", mettendo che furono altri mezzi navali ed aerei (Mz, Do. 24, sommergibile britannico) a fare il soccorso. Francesco

Appunto, ho bisogno del numero delle pagine di riferimento che non so se sono le stesse per l'affondamento del Da Noli e del Vivaldi. --Zero6 11:26, 30 mar 2013 (CET)[rispondi]
Le pagine del testo (1° Tomo) e quelle dei Documenti (2° Tomo)sono le stesse che ho inserito con la sua esatta numerazione. Se riguardano più pagine significa che si è svolta una lunga narrazione degli episodi riguardanti l'affondamento dei due caccia e l'opera di soccorso dei naufraghi, particolarmente descritte nel mio libro.

Francesco

✔ Fatto, grazie. Comunque ho iniziato ad aggiungere materiale in Consegna della flotta italiana agli Alleati, paragrafo La "Prima Squadra" a La Spezia (a proposito, è giusto parlare di "Prima squadra"?). Piano piano, come vede, stiamo aggiustando le cose. Saluti --Zero6 13:44, 30 mar 2013 (CET)[rispondi]
Comunque sono fatti che non c'entrano con la corazzata Roma in senso stretto, nel senso che questa voce dovrebbe parlare solo della Roma dando comunque un minimo di contesto, cosa che già accade. Narrare i fatti dei due cacciatorpediniere però mi pare troppo: propongo di spostare la parte nella Consegna della flotta italiana agli Alleati. --Zero6 15:31, 30 mar 2013 (CET)[rispondi]
Concordo con lo spostamento in Consegna della flotta italiana agli Alleati dei cacciatorpediniere. Per le fonti imprecise, mi spiace ma ho utilizzato il materiale che avevo, che che comunque non è di autori proprio sconosciuti, e la cosa mi dava un minimo di garanzia. Ovviamente, avendo modo di accedere agli archivi della Marina non si può che fare di meglio. Ah, penso che il primo dragamine tedesco si chiamasse Pommern (Pomerania), non Pommer (bombarda), e parliamo di questa nave, francese, requisita dai tedeschi e utilizzata come posamine, poi affondata al largo di Cap Ferrat il 5 ottobre 1944 dopo aver urtato una mina. Grazie a Francesco per il grosso lavoro che sta facendo. --Pigr8 La Buca della Memoria 16:04, 30 mar 2013 (CET)[rispondi]


Ottimo il pezzo elaborato ed inserito sulla "Consegna della flotta italiana agli Alleati".

Francesco

Apportare la seguente variazione
VOCE: L'apparato motore forniva una potenza massima di 130 000 CV (140 000 nelle prove)[6] e consentiva alla nave di raggiungere la velocità massima di 31 nodi, con un'autonomia che ad una velocità media 20 nodi era di 3 920 miglia.
RETTIFICA: L’apparato motore di 140.00 CV, con la superpotenza sviluppava ben 160000 CV (la stessa potenza della corazzata tedesca BISMARCK), con la quale la ROMA il 21 agosto, nella navigazione di trasferimento da Trieste a Taranto per entrare in Squadra, mantenne nelle prove a tutta forza una velocità per un’ora di 29,2 nodi. Notizia fornita da Francesco Mattesini sulla base del “Diario di Guerra” della ROMA, del 3 ottobre 1942, consultabile in AUSMM, Statini Navi, b. 1. L'autonomia della ROMA, alla velocità media di 20 nodi, era di 3.920 miglia.
Francesco
Scusate la domanda stupida, ma cosa è l'AUSMM? Comunque il dato dei 140000 CV è corredato da fonte, che ho visto fa riferimento ad un libro "Navi Italiane nella 2’ Guerra Mondiale - Corazzate Classe Vittorio Veneto" Edizioni Bizzarri - Roma. Di solito si dovrebbe scrivere nella voce "per la fonte X la potenza era 140000 CV, per la fonte Y 160000 CV". Quale delle due fonti è più autorevole e quale siamo sicuri che si sbaglia? --Zero6 09:16, 1 apr 2013 (CEST)[rispondi]
AUSMM sta, nella bibliografia per Archivio Ufficio Storico Marina Militare. La potenza della ROMA, secondo quanto riportato nelle varie fonti variava tra 130.000 e 140000 Cavalli potenza. Se nonché, e questo vale per ogni nave da guerra, nella velocità a tutta forza, impiegando la “extrapotenza” (superpotenza) per brevi periodi, si raggiungeva la velocità massima, sviluppando le macchine una potenza di 160.000 cavalli.
Nel caso della ROMA era calcolato nel progetto di costruzione che la nave potesse raggiungere, a pieno carico, una velocità stimata in 30 nodi. Ma nelle prove in assetto di combattimento questa velocità non è stata mai raggiunta, perché impiegare la extrapotenza portava ad un notevolissimo consumo di nafta, e in quel periodo, 1942-43, il combustibile mancava alla Regia Marina ed era estremamente prezioso.
Comunque nelle prove a tutta forza del 21 agosto 1942, avendo a bordo massima rappresentanti della Marina e delle altre Forze Armate italiane, imbarcati a Trieste per partecipare al trasferimento a Taranto, e salutata durante la rotta dallo stesso Mussolini imbarcato su un MAS, le prove si svolsero con velocità crescenti, 24 – 26 – 28 nodi; e infine, spingendo le macchine a tutta forza, la ROMA raggiunse e mantenne per un ora la velocità di 29,2 nodi.
Ricordo che il documento che fornisce queste notizie è il “Diario” della corazzata.
Ricordo anche che la corazzata LITTORIO nelle prove aveva raggiunto una velocità superiore ai 31 nodi, ma questa andatura fu raggiunta, come si può vedere in una famosa foto, con la nave priva delle torri di grosso e medio calibro, e quindi con notevole abbassamento del suo tonnellaggio. In condizioni normali, in assetto di combattimento, la velocità massima raggiunta dalle due “LITTORIO” fu sempre inferiore ai 29 nodi.
Spero di essere stato chiaro. Francesco Mattesini
✔ Fatto. Comunque in Discussione:Consegna_della_flotta_italiana_agli_Alleati#Template_C_ad_inizio_pagina ho avvisato di aver finito i lavori di integrazione del materiale scritto qui sopra. Saluti --Zero6 09:49, 2 apr 2013 (CEST)[rispondi]

leggo nell'interessante intervento del Dott. Mattesini che un Re2000 fu effettivamente catapultato dalla flotta italiana dopo l'affondamento della Roma ma che diresse ad Ajaccio per problemi di autonomia. Manca qualcosa in questa sintesi, se ci fu un tentativo di attacco ai Dornier tedeschi che continuavano a sorvolare le nostre navi, e se no perché. Non si può pensare che subito dopo il lancio ci si sia resi conto che la distanza dagli aeroporti obbligava l'aereo a dirigersi senza indugio verso un aeroporto salvo presupporre una seria situazione di confusione magari legata al forzoso passaggio del comando dalla plancia della Roma all'Ammiraglio Oliva. Ho letto da qualche parte che il tentativo di impegnare i bombardieri ci fu ma senza successo per la maggiore tangenza dei DO217, cosa non vera perché i Re2000 volavano 2000m più in alto. L'aereo italiano era forse inefficiente? O non riuscì a raggiungere i Dornier perché venne lanciato in un intervallo tra due ondate? O il pilota italiano preferì disimpegnarsi piuttosto che rischiare la vita contro tali e tanti avversari? O al contrario andò all'attacco senza riuscire ad abbattere alcun bersaglio? Tante domande per un piccolo episodio, ma che piccolo non è se può fornire una evidenza su quale fosse l'effettivo potenziale di quei 4 Re2000, che non furono utilizzati prima dell'esplosione della Roma per motivi che non chiariremo mai (vista la tragica fine del comando imbarcato sull'ammiraglia).--WikiPilota 01:33, 13 ott 2013 (CEST)

Relitto della corazzata[modifica wikitesto]

Nella VOCE – “Il 28 giugno 2012 il relitto della corazzata [ROMA] è stato rinvenuto nel golfo dell'Asinara dopo decenni di ricerche”. Voglio fare l’avvocato del diavolo. Mi sembrerebbe più corretto dire: “in mancanza di altre immagini che ci mostrino le sovrastrutture della nave o almeno parte dello scafo, è stata trovata [soltanto] una torre con cannone contraereo da 90 della ROMA”.

So che questo mio intervento a qualcuno che ci ha sperato potrebbe far venire l’orticaria, ma lo scafo della corazzata, divisosi nell’esplosione in due tronconi e in in chissà quanti altri pezzi, potrebbe trovarsi anche a centinaia di metri, se non chilometri, di distanza.

Per trovarlo, più che il modesto pluto guidato da un catamarano, occorrerebbe un minisommergibile, come hanno fatto i ricercatori del Titanic, della Bismarck, della Yamato, della Musashi, ecc., a profondità ben più maggiori, comprese tra i 3500 e i 5000 metri.

Occorre poi considerare che dopo quella foto, e la medesima immagine televisiva, presentate in forma magna, da giugno 2012 non si è vista altra immagine e sembra che sull'avvenimento sia calato un clima di silenzio.

Dopo aver scritto in questi ultimi anni della storia dell'affondamento della ROMA, ad iniziare dal 1980, nulla mi farebbe più felice che vedere realmente le immagini di quella bella e sfortunata nave.

Francesco

Grazie per l'apprezzamento del lavoro fatto sulla Consegna della flotta agli alleati, non mi manca tanto per finire. Riguardo invece al ritrovamento, possiamo ragionarci sopra. Se arrivano altri pareri posso anche cambiare idea, ma di fronte ad una fonte (la Marina Militare tramite il suo sito) che dice che è stata ritrovata la nave, temo ci sia poco da fare, pur essendo il ragionamento del Sig. Mattesini corretto. --Zero6 21:10, 30 mar 2013 (CET) P.S. per favore, firmi "elettronicamente" i suoi interventi cliccando sull'apposito tasto: è facile, basta cliccare nell'apposito tasto, quello con la penna blu. Serve per tenere la discussione il più ordinata possibile :)[rispondi]


Aggiungere dopo affondamento ROMA, oppure in nota.

Al drammatico affondamento della ROMA assistette l’equipaggio di un B.26 “Marauder” del 14° Squadron del 328° Stormo della RAF, di base a Biserta, con pilota e capo equipaggio il tenente colonnello Herbert Law-Wright. Questo aereo, nel corso dell’attacco volando a quota media, fu fatto segno al fuoco contraereo delle navi italiane che stavano sparando sugli aerei tedeschi. Quando la Roma fu vista inabissarsi, spaccandosi in due tronconi, il fotografo del ricognitore britannico riuscì a riprenderne una tragica immagine, divenuta famosa.(1)

(1) Francesco Mattesini, “La Marina e l’8 Settembre", Tomo I, "Testo", USMM, Roma 2002, p. 526 e p. 529.

✔ Fatto --Zero6 19:25, 1 apr 2013 (CEST)[rispondi]


La mappa dei rottami del relitto, con relative foto, è visionabile qui: http://www.azionemare.org/roma-mappa.php

se si legge bene la prima immagine c'è scritto "probabilmente si trova" quindi chi l'ha scritto non l sà??

Non c'è certezza, ma quale altro porto potrebbe essere se non La Spezia? --Zero6 11:38, 14 giu 2013 (CEST)[rispondi]
La didascalia credo sia mia. La motivazione l'ha data Zerosei; la nave è stata costruita nei cantieri di La Spezia, ed affondata alla prima missione. Non è nostro compito interpretare, ma visto che è una enciclopedia cercare di aiutare chi legge ad ambientare le foto penso sia utile. Se qualcuno esperto riesce a smentirmi lo ringrazio perchè vorrà dire che abbiamo un nuovo utente in gamba nel progetto che ci aiuti a crescere. --Pigr8 La Buca della Memoria 23:14, 15 giu 2013 (CEST)[rispondi]

Modifiche di IP[modifica wikitesto]

Ho trovato questa modifica sulla voce, ed a malincuore ho dovuto annullarla. La voce è stata vagliata e verificata, e questo non vuol dire che sia perfetta, ma gli inserimenti successivi non possono ignorare le convenzioni di stile del Progetto, non possono eliminate contenuti, tanto più se referenziati, e paragrafi come le voci correlate. Purtroppo non posso evitare così facendo che si perda quanto di buono c'era nell'intervento e non ho il tempo di discriminare a posteriori. Se come penso parlo ad un utente esperto, magari Gaetano56 che edita da sloggato, accordiamoci sul come procedere per rimettere le modifiche. Ribadisco che la voce non è bloccata, ma per favore valutiamo anche la forma degli interventi. Grazie. --Pigr8 La Buca della Memoria 22:51, 7 lug 2013 (CEST)[rispondi]


L’AFFONDAMENTO DELLA CORAZZATA ROMA

La partenza dal porto ella Spezia delle Forze Navali da Battaglia dell’ammiraglio Carlo Bergamini, avvenne il mattino del 9 settembre 1943, in un clima di grande incertezza e i ritardi che comportarono: 1°) le lunghe discussioni per l’invio della Flotta a Malta e la sua ritardata partenza dalla Spezia, non prevista negli accordi armistiziali; 2°) l’affondamento della corazzata “Roma” che poteva essere evitato se, invece di stare a discutere per telefono, in modo drammatico, fra gli ammiragli de Courten, a Roma, e Bergamini, a La Spezia, le navi fossero partire in orario per Bona, subito dopo il tramonto dell’8 settembre.

Ciò avrebbe comportato di effettuare, come pianificato dagli anglo-americani (promemoria Dick) la navigazione notturna senza troppi rischi fino al sud della Sardegna in modo da trovarsi dopo l’alba sotto la scorta degli aerei da caccia Alleati della Tunisia, e nel contempo mantenersi lontano dagli aerei tedeschi concentrati sugli aeroporti della Francia meridionale.

Invece, salpando dalla Spezia alle 03.30 del 9 settembre, con un ritardo di ben nove ore, e dirigendo la flotta sulla Maddalena come richiesto con puntiglio da Bergamini, fu offerta alla Luftwaffe la possibilità di avvistare per tempo con i ricognitori Ju 88 le navi italiane il mattino, e poi di attaccarle nel pomeriggio mediante i bombardieri Do 217 decollati dagli aeroporti della Provenza, senza che le nostre unità avessero disposto di alcuna scorta aerea.

Spiego ora come si svolse l’attacco degli aerei tedeschi, che determinò l’affondamento della corazzata, dopo che l’ammiraglio Carlo Bergamini aveva invertito la rotta in seguito all’ordine pervenuto da Supermarina, confermante che il Comando della Maddalena (a dispetto della sua guarnigione di oltre 10.000 uomini, fortemente armata, e delle unità navali in rada) era stato occupato da truppe tedesche, sbarcate da cinque motozattere. Quindi circa 250-300 uomini al massimo.

La manovra ad un tempo di 180° fu effettuata dalla Squadra Navale (costituita dalle tre corazzate Roma, Italia (ex Littorio) e VittorioVeneto, da 6 incrociatori, 8 cacciatorpediniere e 5 torpediniere) in una zona ristretta dello Stretto di Bonifacio, con le navi che procedevano in linea di fila per la presenza di campi minati. Essa portò la formazione navale, già molto allungata, ad avere le corazzate “Vittorio Veneto” (nave ammiraglia della IX Divisione Navale), “Italia” e “Roma” in testa nell’ordine seguite dagli incrociatori e dalle siluranti. La rotta nordovest, per tornare verso l’uscita del Golfo dell’Asinara, era imposta dal canale di sicurezza che passava tra gli sbarramenti difensivi, ragion per cui fu in questa formazione molto allungata, la meno adatta per fronteggiare un attacco aereo, che si svilupparono le micidiali incursioni dei velivoli tedeschi Do 217 della 3^ Luftflotte, di base nella Francia Meridionale, e armati con le bombe perforanti e radiocomandate.

Per quanto alle unità aeree della 2^ Luftflotte del feldmaresciallo von Richthofen (di base nella penisola italiana, in Sardegna e Corsica) non fossero state assegnate speciali disposizioni per attaccare le navi italiane, la sera dell’8 settembre 1943 venne data attuazione immediata al piano “Achse”, diramato dall’ O.b.DL., l’ Alto Comando Operativo della Luftwaffe, il quale specificava: “Le navi da guerra italiane che fuggono o provino a passare dalla parte del nemico devono essere costrette a ritornare in porto, o essere distrutte”.

In quel momento l’unità aerea della Luftwaffe più prossima alla Forza Navale da Battaglia era la 2^ Divisione Aerea (2^ Fliegerdivision) del generale Johannes Fink, unità organica della 2a Luftflotte, ma alle dirette dipendenze giurisdizionali del generale Hugo Sperrle, Comandante della 3^ Luftflotte dislocata negli aeroporti del territorio della Francia e dei Paesi Bassi. Il compito di attacco alla flotta italiana fu assegnato al 100° Stormo Bombardamento (KG.100) “Wiking”, comandato dal maggiore pilota Fritz Auffhammer.

Il 100° Stormo Bombardamento aveva disponibili per il pronto impiego il 2° e il 3° Gruppo (II. e III./KG.100), rispettivamente dislocati sugli aeroporti provenzali di Cognac e Istres. Essi erano agli ordini del capitano Franz Hollweck e del maggiore Bernhard Jope, ed erano equipaggiati con i nuovi bombardieri in quota “Do.217”, che trasportavano speciali bombe perforanti, con propulsione a razzo e radiocomandate del tipo “Hs.293”, e a caduta libera, con possibilità di modifica nella traiettoria, del tipo “PC.1400X”, costruite appositamente per la lotta contro obiettivi navali.

La “Hs.293”, progettata dal professor Herbert Wagnes e in dotazione ai velivoli del II./KG.100, era un bomba radioguidata munita di due superfici portanti, praticamente un piccolo velivolo senza pilota, con un’apertura alare di quattro metri e dal peso di 900 chili, dei quali 350 costituiti da esplosivo ad alto potenziale. Azionata da un motore di 2160 hp, utilizzante permanganato potassico, che gli imprimeva una velocità di 500 chilometri orari, tale arma rivoluzionaria aveva il vantaggio di poter essere sganciata da una quota di 1700 metri e a circa 7 chilometri dalla nave attaccata; una distanza che permetteva al velivolo “Do.217”, nella versione E2/R10, di guidare l’ordigno, dotato di una visibile codetta luminosa, a mezzo di radiocomando fino all’impatto con il bersaglio prescelto, e quindi di sottrarsi abbastanza agevolmente alla difesa contraerea delle navi.

A differenza dell’”Hs.293”, la bomba “PC.1400 X”, progettata dal dottor Max Kramerm e in dotazione ai velivoli del III./KG.100, era un’arma tutt’altro che “sperimentale”, come sostenuto da taluni storici, dal momento che fu impiegata per la prima volta il 23 luglio 1943 contro navi all’ancora nel porto di Siracusa e poi, il 29 agosto, contro unità da guerra britanniche in navigazione presso l’Isola di Alboran, entrambe le volte senza conseguire alcun successo. Mentre l’impiego della “Hs.293” era previsto contro bersagli scarsamente corazzati, la “PC.1400 X”, bomba perforante corazzata di una tonnellata e mezzo, doveva essere impiegata, di massima, contro bersagli molto protetti. Essa corrispondeva all’incirca alla bomba mina da 1400 chili e aveva una carica di scoppio relativamente piccola, di 300 chili di alto esplosivo. Per contro, la bomba, la cui traiettoria in caduta libera poteva essere controllata per mezzo radio dall’aereo che l’aveva sganciata, possedeva un’enorme forza di penetrazione. Tuttavia, partendo d’alto, sulla perpendicolare del bersaglio, poteva essere comandata durante la caduta soltanto in misura limitata ( 800 m nella direzione del volo,  400 m lateralmente).

Quanto alle bombe radiocomandate “Hs.293”, in dotazione al 2° Gruppo del 100° Stormo, esse furono impiegate per la prima volta il 25 agosto 1943 nel Golfo di Biscaglia, quando una formazione di dodici “Do.217 E5” del medesimo II./KG.100, comandata dal capitano pilota Heinz Molinus, e scortata da sette caccia pesanti “Ju.88 C” del 1° Gruppo del 1° Stormo Caccia Pesante (I./ZG.1), attaccò tre unità di scorta britanniche, danneggiando con colpi caduti vicini allo scafo lo sloop “Landeguard”. In una successiva azione, portata a compimento il giorno 28 del mese da altri tredici “Do.217” del medesimo gruppo, fu distrutto lo sloop “Egret” e danneggiato gravemente il cacciatorpediniere canadese “Athabaska”. Ciò costituì un netto successo della Luftwaffe, perché costrinse all’allontanamento delle unità di scorta britanniche nel Golfo di Biscaglia, dove esse operavano per dare la caccia ai sommergibili tedeschi partenti dalle basi atlantiche della Francia occidentale.

Riguardo al velivolo Dornier “Do.217 E2/R 10”, che equipaggiava i due gruppi del 100° Stormo Bombardamento, esso era un bimotore dalla lunga fusoliera, dotato di due motori radiali B.M.W. in grado di erogare 1580 cavalli al decollo e di imprimere una velocità massima di 515 Km/h a 6000 metri di quota. Poteva portare fino a 4000 chili di bombe, in parte sistemate in rastrelliere esterne ordinate sotto le ali. Nelle azioni con bombe radiocomandate, gli ordigni, uno o due per velivolo, erano appunto agganciati sotto le ali.

Per attaccare la Forza Navale da Battaglia italiana, localizzata da un ricognitore Ju 88 al largo della costa occidentale della Corsica, nel pomeriggio del 9 settembre decollarono in tre ondate, dall’aeroporto di Istres, ventotto “Do.217”, dei quali undici del II./KG.100 (trasferiti da Cognac) e diciassette del III./KG.100. Di tutti questi velivoli, come vedremo, ben ventiquattro riuscirono a localizzare e ad attaccare le navi ricercate, che pure si trovavano ad una considerevole distanza rispetto alla base di partenza degli aerei germanici.

Subito dopo l’accostata della Forza Navale da Battaglia nello Stretto di Bonifacio, poco prima delle ore 14.00 del 9 settembre, il cacciatorpediniere “Legionario” segnalò aerei allo zenit, riconoscendoli per tedeschi. Nessuna segnalazione preventiva era stata fatta dai radiolocalizzatori, i mediocri “Gufo” e i germanici Dete, di cui erano dotate quasi tutte le navi. Secondo il rapporto del Comando della 7^ Divisione Navale, sull’incrociatore “Eugenio di Savoia”, l’allarme a vista scattò alle 15.10. Doveva trattarsi di un ricognitore tedesco, che alle 15.15 segnalò la flotta italiana, come costituita da tre navi da battaglia, sei incrociatori e sei cacciatorpediniere, con rotta sud a circa 20 miglia a sud-ovest di Bonifacio. Circa venti minuti più tardi, alle 15.37, ebbe inizio il primo attacco aereo da parte di cinque “Do.217”, dalle navi italiane scambiati per “Ju.88”, che fu contrastato dalle unità della Squadra, dopo una qualche esitazione, aprendo il fuoco con i cannoni e contro manovrando.

Dai diari e dalle pubblicazioni tedesche risulta che la prima ondata d’attacco dei velivoli tedeschi era costituita da undici “Do.217” del III./KG.100, al comando del maggiore Bernhard Jope; pilota famosissimo, essendo stato l’affondatore, pilotando un velivolo Fw 200 “Condor” del I./KG.40, del grande transatlantico britannico “Empress of Britain”, di 42.348 tsl. (già danneggiato dal sommergibile tedesco “U 32”), conseguito il 26 ottobre 1940 a 110 miglia a nord-ovest della Baia Donagal (Irlanda). Per quell’impresa straordinaria il maggiore Jope era stato insignito da Hitler della Ritterkreuz, la croce di cavaliere dell’ordine della Croce di Ferro.

Ripartiti in tre pattuglie, i “Do.217” del III./KG.100 restarono sull’obiettivo tra le 15.35 e le 17.40, ed attaccarono a circa 15 miglia a sud-ovest di Bonifacio da un’altezza di 6500 metri, sganciando le bombe “PC. 1400 X” nel momento in cui passavano, con rotta inversa, sulla perpendicolare delle unità navali italiane. Gli equipaggi dei velivoli germanici affermarono di aver inquadrato due corazzate ed un incrociatore con tre bombe e di aver colpito in pieno con altre tre bombe due corazzate, su una delle quali si verificò una grande esplosione accompagnata da fiamme e da denso fumo nero.

In effetti l’attacco ebbe pieno successo, e le valutazioni degli equipaggi dei “Do.217” risultarono esatte. Fin dal primo passaggio, effettuato dalla formazione dei cinque velivoli avvistati dal cacciatorpediniere “Legionario”, una delle cinque bombe cadde di prora all’”Eugenio di Savoia”, ad una cinquantina di metri di distanza dall’incrociatore, nave ammiraglia della 7^ Divisione Navale. Un’altra bomba mancò di pochissimo la poppa della corazzata “Italia” (ex “Littorio”), causando, con la concussione dell’esplosione in acqua, lo scatto di tutti gli interruttori di massima con conseguente avaria momentanea del timone principale.

Questo primo attacco tedesco avvenne con la reazione contraerea delle unità, sempre modesta da parte italiana, anche questa volta non adeguata alla situazione. Al momento in cui il cacciatorpediniere “Legionario” avvistò allo zenit gli aerei nemici, ai direttori del tiro che chiedevano di sparare fu ordinato dal comando di “aspettare”, e quando il fuoco ebbe inizio con i modesti cannoni contraerei da 90 mm. la “Roma” poté sparare soltanto alcune salve prima di essere colpita.

Secondo la Commissione d’Inchiesta Speciale (SIS) della Marina la “sorpresa tecnica” che impedì ai cannoni contraerei di far fuoco con una certa celerità fu rappresentata dalla quota e dall’angolazione (sito di circa 80° invece dei 60° previsti in un attacco convenzionale) con cui i velivoli tedeschi sganciarono le loro bombe. Tuttavia non vi furono conseguenze, perché la “Roma”, che era in quel momento la terza unità della formazione delle corazzate, non rappresentò il bersaglio di quell’attacco.

Intorno alle 15.50, nel corso di un altro passaggio effettuato, con la medesima tattica, da tre “Do.217” della 11^ Squadriglia del III./KG.100, guidata dal capitano pilota Heinrich Schmetz, due bombe “PC.1400 X” centrarono la “Roma”, che fino a quel momento aveva sparato circa sei salve con i cannoni contraerei da 90 mm. di dritta su uno dei velivoli attaccanti, ed in particolare una decina di colpi furono sparati dal solo complesso n. 7. Il tiro contraereo della corazzata fu pertanto considerato dalla CIS abbastanza rapido, considerando il fatto che non era stato possibile impiegare le torri di medio calibro (152 mm.), che non poterono sparare perché gli aerei nemici avevano il sito troppo alto.

Meno intensa risultò la reazione della “Roma” al delinearsi del successivo attacco aereo che portò la corazzata ad essere colpita dalla seconda bomba, con effetti devastanti. Ciò fu dovuto, secondo la CIS, alla menomazione in cui erano venuti a trovarsi gran parte dei complessi contraerei da 90 mm. e di medio calibro, per effetto dell’esplosione della prima bomba, che raggiunse la nave da battaglia “dopo che essa aveva evoluito di circa 60°”.

Ma vediamo quale fu l’effetto delle due bombe.

La prima bomba, sganciata da un Do. 217 della 7a Staffel guidato del diciannovenne tenente pilota Klaus Duemling e con puntatore il sottufficiale Penz, centrando il bersaglio alle 15.46, perforò il ponte corazzato della “Roma”, che in quel momento si trovava in accostata sulla sinistra, ad un metro circa dalla murata di dritta. L’ordigno scoppio sotto lo scafo aprendovi una grossa falla, e determinando l’arresto di due caldaie con conseguente riduzione della velocità della corazzata a sedici nodi.

La seconda bomba “PC 1400 X”, radioguidata sulla “Roma” dal sergente Eugen Degan, che era addetto all’apparato di radioguida sistemato sul velivolo della 11a Staffel pilotato dal sergente Kurt Steinborn (gli altri due membri dell’equipaggio erano il radiotelegrafista Anders e il meccanico di bordo Walther), dopo una discesa di quarantadue secondi, alle 15.52 centrò il lato sinistro della corazzata, infilandosi tra il torrione e la torre n. 2 di grosso calibro sopraelevata, provocando l’immediato arresto dell’unità. L’impatto della bomba, avvenuto a prora, sotto il torrione Comando, vicino ad un deposito di cariche di lancio delle munizioni da 381 mm, risultò fatale alla “Roma”, perché seguito dalla deflagrazione dei depositi.

L’enorme calore sviluppato da un violento incendio, determinò la morte di tutti gli ufficiali dello Stato Maggiore del Comando Forze Navali da Battaglia, dell’ammiraglio Bergamini, del contrammiraglio Stanislao Caraccitti suo Capo di Stato Maggiore, e del Comandante della Roma, capitano di vascello Del Cima. Essi decedettero con la totalità dei tanti collaboratori, ufficiali, sottufficiali e comuni, che si trovavano nelle plance Ammiraglio e Comandante, e in tutti gli altri locali del torrione, con i quali, dal momento dell’esplosione, ogni collegamento cessò di esistere.

La “Roma”, splendida nave, di 41.650 tonnellate (42.615 tonnellate a pieno carico), orgoglio della cantieristica e italiana e della Regia Marina, sbandò sulla dritta, e alle 16.12 fu squarciata dalla deflagrazione della torre sopraelevata prodiera dei grossi calibri, che fu interamente asportata, lasciando al suo posto una grossa voragine da cui si sollevava un forte incendio, misto ad un’altissima e densa colonna di fumo nero.

Un altro incendio scoppio in prossimità del fumaiolo prodiero, mentre il torrione in fiamme, che si trovava in prossimità della torre dei 381 m/m asportata, si inclinò in avanti. In pochi minuti la “Roma” assunse un forte sbandamento sulla dritta, che andò aumentando velocemente. Quindi, ruotando, la corazzata si capovolse, per poi spezzarsi in due tronconi che, fotografati da un aereo britannico “Baltimore” del 14° Squadron partito da Biserta, affondarono entrambi verticalmente entro le ore 16.15. Il dramma, dal momento della deflagrazione del deposito munizioni, si era concluso nello spazio di soli tre minuti.

Secondo quanto ebbe modo di appurare nell’immediato dopoguerra la Commissione d’Inchiesta Speciale della Marina (C.I.S.), dall’incrociatore Duca degli Abruzzi, nave ammiraglia della 8^ Divisione Navale, che si trovava al momento del sinistro a soli 1000 metri di distanza dalla corazzata, al momento in cui la “Roma” venne colpita fu constatata la produzione di due enormi fiammate, senza rumore di scoppio. Ciò fu considerato dalla C.I.S.) come un indice di deflagrazione e non di esplosione del munizionamento che, se fosse avvenuto, avrebbe causato l’immediata scomparsa della corazzata, e quindi la perdita della totalità dell’equipaggio.

Sul rapido affondamento della “Roma” e in particolare sulla morte di tanti uomini del suo equipaggio, la CIS, nella sua relazione che si trova nell’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, scrisse:

“L’incendio del torrione in uno con la deflagrazione dei depositi munizioni viciniori causò evidentemente la morte o pressoché istantanea di tutto il personale componente gli organi che vi erano contenuti: il Comando in Capo della FF.NN.B., il Comando della Nave e gli organi tecnici che erano alla immediazione [sic] dei due Comandi predetti. Venne perciò a mancare l’azione di comando che, più che a tentare di salvare la Nave colpita a morte, avrebbe mirato a ordinare ovunque il rapido abbandono e a convogliare tempestivamente la maggior parte della gente salvabile verso le zone idonee per effettuare lo sgombero della Nave. Donde forse una causa concomitante della notevole percentuale delle perdite di vite umane”.

Sulla base di questo giudizio la Commissione d’Inchiesta Speciale portò ad escludere un qualsiasi addebito da farsi nei confronti del Comando di bordo della Roma, i cui membri, dall’Ammiraglio Comandante ai gregari e ai subalterni, “assolsero in pieno il loro dovere”. Altrettanto “lodevole” fu considerato “il comportamento dell’equipaggio” della corazzata, che “nella grandissima contingenza si mantenne disciplinato”, senza esprimere “manifestazioni di panico e di sbandamento morale”, fino al momento in cui, aumentando pericolosamente lo sbandamento della Roma, il tenente di vascello Incisa della Rocchetta prese l’iniziativa di ordinare “l’abbandono della nave”.

Fu anche lodata l’opera svolta dalle unità della scorta e delle torpediniere nella generosa opera di salvataggio dei naufraghi della corazzata; valutazione espressa dalla C.I.S., con cui concordò lo stesso Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio di squadra Franco Maugeri, che si disse d’accordo nell’avanzare proposte al Valor di Marina ai membri del personale più meritevoli. Nel corso dell’attacco dei Do. 217 del III./KG.100, oltre alla “Roma”, fu colpita da una bomba PC. 1400/X anche la corazzata “Italia” (ex “Littorio”), la quale, però, nonostante avesse imbarcato, attraverso una falla apertasi sullo scafo di 21 metri per 9800 tonn. d’acqua, poté continuare la sua navigazione mantenendo la velocità della Squadra Navale.

Non furono altrettanto fortunati i cacciatorpediniere “Antonio Da Noli” e “Ugolino Vivaldi”, che provenienti dalla zona di Civitavecchia, dove avrebbero dovuto imbarcare il Re d’Italia e il suo seguito da portare alla Maddalena, stavano seguendo la Squadra Navale. Avendo ricevuto l’ordine di impegnare tutte le navi tedesche incontrate lungo la rotta, attraversando lo Stretto di Bonifacio i due cacciatorpediniere furono bersagliati da batterie di cannoni da 88 mm., dislocati sulla costa meridionale della Corsica, ed entrambi gravemente colpiti.

Il “Da Noli”, finito subito dopo su uno sbarramento minato precedentemente posato in quelle acque dai posamine germanici “Pommer” e “ Brandenburg”, affondò, e la stessa sorte subì il “Vivaldi”, che nell’attraversare il Golfo dell’Asinara, ricevette il colpo di grazia da una bomba planate radiocomandata Hs 293, caduta vicino allo scafo e sganciata da un solitario velivolo “Do.217” del 2° Gruppo del 100° Stormo Bombardamento (II./KG.100).

Ingenti furono le perdite umane riportate dai due cacciatorpediniere: mancarono all’appello 205 uomini del “Da Noli”, incluso il comandante Pio Valdambrini, e 40 del “Vivaldi”.

Le perdite tedesche furono limitate ad un Do 217 del II./KG.100, finito in mare mentre al rientro dalla missione dirigeva verso la costa francese. Decedettero tutti i quattro membri dell’equipaggio, che avevano per pilota e capo equipaggio il tenente Erhard Helbig.

Sul mancato intervento di velivoli da caccia terrestri dell’Aeronautica della Sardegna, che avrebbero potuto intervenire contro i Do 217 occorre rilevare che vi fu indubbiamente da parte dei vertici della Marina molta leggerezza, aggravata dall’incertezza del Comando Squadra, e non ne conosciamo il motivo, che non ordinò alle tre corazzate della 9^ Divisione di far decollare al primo allarme i loro quattro caccia imbarcati Re.2000. Da parte sua il Comando dell’Aeronautica della Sardegna, su generica richiesta di appoggio aereo avanzata da Supermarina, su sollecito dell’ammiraglio Bergamini all’armato dalla presenza di ricognitori tedeschi e temendo di essere attaccato da aerosiluranti, fece decollare una pattuglia di quattro Mc 202 del 13° Gruppo Caccia Terrestre, i quali, però, non trovarono le navi da scortare perché, incredibilmente, i piloti non erano stati informati dell’esatta rotta che la flotta stava seguendo.

Francesco Mattesini

Roma, 26 Giugno 2014

___________________

Tutti i documenti consultati riguardanti l’affondamento della corazzata “Roma”, compresa la relazione della Commissione d’Inchiesta Speciale, si trovano fotografati in originale nel libro di Francesco Mattesini “La Marina e l’8 Settembre” (Tomo I testo, Tomo 2° Allegati), Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 2002.

Collegamento farlocco[modifica wikitesto]

Faccio notare che il collegamento con il sito http://www.cestra.eu/franco/tragedia_incisa.htm citato come collegamento esterno per Incisa della Rocchetta, apre una pagina sulle MICOSE VAGINALI - provare il link per credere - che non trovo opportuno per il rispetto dei caduti del Roma. Ho provveduto così a cancellarlo ed a sostituirlo con questo link: http://www.regianaveroma.org/RegiaNaveRoma_2009/La_nave/Incisa.htm

Grazie --Il Dorico 15:52, 1 dic 2014 (CET)[rispondi]

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Dubbio qualità[modifica wikitesto]

Ho dato una rapida occhiata alla voce, notando gravi problemi relativi alla verificabilità. Pertanto, ho segnalato con il template {{senza fonte}} i passaggi privi di note...tuttavia ritengo la situazione più grave di quanto possa apparire, in quanto molti riferimenti web non sono più raggiungibili, e molti di quelli ancora raggiungibili mi sembra siano blog o comunque fonti poco affidabili. Credo che la voce abbia bisogno di una revisione profonda (anche di contenuti, probabilmente). --Lo Scaligero 17:43, 16 nov 2021 (CET)[rispondi]

Domanda: non si dovrebbe rimuovere tutta la parte delle caratteristiche tecniche, da spostare nella voce della classe, e lasciare in questa voce solo la storia operativa dell'unità?--Elechim (msg) 15:02, 23 dic 2021 (CET)[rispondi]
Pingo @Demostene119, che ho visto che si sta occupando della voce. Personalmente non saprei, non conosco le convenzioni del progetto. Immagino che un maggior approfondimento debba esserci nella voce generale relativa alla classe, tuttavia un minimo di riassunto lo terrei pure in questa voce (magari specificando o soffermandosi su eventuali differenze). --Lo Scaligero 17:03, 23 dic 2021 (CET)[rispondi]
No, purtroppo non ci sono linee guida precise in merito (che io sappia!). Però ricordo che era stato detto che, generalmente, nella voce della classe ci si spende sui dettagli tecnici, lasciando per le unità giusto la tabella con cantiere/impostazione/varo/completamento/destino finale; al contrario, nelle voci delle singole navi la parte tecnica è limitata all'infobox laterale. Però è una cosa che non sempre applicata, me compreso. Dato che si tratta della classe Littorio, sulla quale si trova molto (credo), io sarei comunque per dividere nettamente nel modo che vi ho appena descritto.--Elechim (msg) 22:27, 23 dic 2021 (CET)[rispondi]
Nelle caratteristiche tecniche ci va un sunto completo di tali caratteristiche, più le eventuali differenze tra la Roma e le altre navi della classe. Attualmente ci sono delle informazioni che andrebbero spostate, lo farò quando avrò risolto i problemi più gravi.--Demostene119 (msg) 08:24, 24 dic 2021 (CET)[rispondi]
Ho aggiunto 1000 byte di modifiche:
aggiungo template sardegna e seconda guerra mondiale
‎rimuovo template web archive e metto cita news con template obbligatori
ricerche e il ritrovamento del relitto: aggiungo fonti e rimuovo template senza fonte la notizie c'è nella pagina dell'incrociatore non mettete template a caso se evitabile
tolgo spazi doppi e lingua=it (inutile al 100%)
‎Il soccorso: fix link
‎Bibliografia: aggiungo lingua fix parametri sostituisco pagina e coautori con p pp e autore2 tolgo nome e cognome e metto autore. --Simon discussioni 19:29, 6 mar 2022 (CET)[rispondi]
PS Nella voce della classe, invece, ci va un sunto della storia operativa delle varie navi della classe.
Commento: Forse è il caso di rivedere l'abbondante bibliografia e i fin troppo abbondanti link web. Nel primo caso dovremmo rimuovere i volumi non utilizzati, nel secondo caso imo dovremmo mantenere solo siti dedicati, autorevoli e togliere gli articoli di giornale che non siano effettivamente utili. Vedo ad esempio diversi link riguardanti il ritrovamento, ne basta uno; blog e siti di dubbia autorevolezza.--Riφttosø 19:46, 6 mar 2022 (CET)[rispondi]