Discussione:Regia Marina

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Marina
Guerra
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Unità di misura[modifica wikitesto]

Non andrebbero separate con uno spazio dal numero ? --Moroboshi 20:18, ott 21, 2005 (CEST)

Elicotteri nella I guerra mondiale?[modifica wikitesto]

Al punto 1.4 La Marina nella Grande Guerra ho letto che Furono infatti utilizzati (...) oltre agli aerei (...) anche idrovolanti (...) ed elicotteri, si tratta per caso di una svista? da quel che ne so io il primo vero elicottero di serie è stato prodotto nel 1936, in effetti trovo assai improbabile che la Regia Marina avesse a disposizione degli elicotteri nel 1918, e non ho trovato riscontro del dato da nessuna altra parte. --piero tasso 11:32, 13 dic 2005 (CET)[rispondi]

Probabilmente un refuso (gli elicotteri furono sicuramente utilizzati, ma più tardi). Nel dubbio ho comunque modificato la pagina. Grazie della segnalazione. -- Pap3rinik (..chiedi ad Archimede) 12:26, 13 dic 2005 (CET)[rispondi]
  • I primi a mettere elicotteri sulle navi sono stati i tedeschi durante la SECONDA guerra mondiale Utente:picard_bs


Una richiesta di precisazione[modifica wikitesto]

Nello spirito di wikipedia, cioè contribuire per quel che si conosce, al miglioramento di una voce, avevo apportato alcune correzioni di termini impropri. Vedo però che è stata ripristinata la versione precedente. Ora, non è mia abitudine polemizzare nè tantomeno ora andrò a modificare la modifica, ma vorrei solo far presente che:

- Se una Marina viene aggettivata "borbonica" si va evidentemente a focalizzare l'attenzione sulla Dinastia in quel momento regnante. Per omogeneità, dovremmo allora definire "sabauda" la marina sarda, "lorenese" quella toscana, "asburgica" quella veneta, non vi pare ?


- Lo Stato preunitario della Marina borbonica (per usare la terminologia qui adottata) si chiamava Due Sicilie, il Regno di Napoli è denominazione del Sud continentale antecedente il Congresso di Vienna dove peraltro fu ufficializzato un termine, "Due Sicilie", di antichissimo uso nei due regni uniti meridionali.


- La denominazione ufficiale di quella Marina, comprovata da atti, stampe, testi di uniformologia (fra tutti, lo Zezon "Tipi Militari de' differenti Corpi che compongono il Real Esercito e l'Armata di mare di S.M.il Re delle Due Sicilie", Napoli 1857, di cui esiste una splendida ristampa anastatica ed. Fausto Fiorentino in 1000 esemplari) è, per l'appunto Real Marina ma veniva usato prevalentemente l'altro termine, Armata di Mare, in quanto Real Marina era anche la denominazione del Reggimento di Fanteria di Marina.


Come notazione di colore, la nostra attuale Marina Militare, in quanto erede delle Marine preunitarie (e,conseguentemente, anche delle denominazioni ufficiali) ha ceduto l'uso del termine Armata di Mare a una casa di confezioni.

Naturalmente, immagino che chi ha corretto ripristinando il testo precedente, avrà la cortesia di illustrarmi le sue ragioni e lo ringrazio in anticipo. --Emmeauerre 19:08, 4 feb 2007 (CET)[rispondi]

Salve! non sono chi ha ripristinato il testo, ma sono uno dei wikipediani che "supervisiona" le voci di "marineria militare". Nel merito della voce, credo che il ripristino alla versione borbonica nel nome, dipenda dal fatto che il termine "armata di mare" sia stato ceduto a terzi, e di conseguenza sul sito della marina e su quello della difesa, si parli generalmente di "marina borbonica" o di "marina delle Due Sicilie", senza specificare sulla denominazione usate negli atti ufficiali dell'epoca.
Comunque wikipedia conta una voce Real Marina del Regno delle Due Sicilie, e penso che si possa utilizzare proprio questo titolo per i richiami alla voce, eventualmente specificando (Armata di Mare) tra parentesi. Nell'eventuale attesa di uno sviluppo di discussione, opero la modifica e faccio puntare il link alla voce.--Il palazzo ^Posta Aerea^ 10:56, 5 feb 2007 (CET)[rispondi]

Ah, non avevo visto il resto![modifica wikitesto]

Soluzione di continuità ? Avevo interpretato il testo nel senso che, benchè la nuova Marina si richiamasse alle tradizioni delle Repubbliche Marinare in realtà c'era un'interruzione temporale di una certa rilevanza, alcuni secoli. Poichè "soluzione di continuità" vuol dire "interruzione", "discontinuità" (soluzione deriva dal latino "solvo", "solutus"...) dire "non c'era soluzione di continuità" equivale a dire che esisteva un collegamento diretto e continuo, non soluto, fra quelle marine e la marina italiana.

Infine, mi appello a wikipediani appassionati di uniformi: esistono immagini (ne ho anch'io) di marinai sardi e napoletani prima del 1860, per i sardi l'uniforme è addirittura quella del 1848, per i napoletani ho quelle del Zezon, siamo nel 1854, bene, in entrambi i casi, sono muniti di fiocco nero. Del resto, avendo prestato servizio militare come Ufficiale di complemento so bene che mentre è ragione di vanto per un qualsiasi Corpo armato il ricordo di eroi ed atti eroici, se del caso anche con particolarità dell'abbigliamento, non altrettanto si può dire per una sconfitta che - come le tristi conseguenze per il Persano dimostrano - fu recepita come particolarmente avvilente e umiliante. --Emmeauerre 19:35, 4 feb 2007 (CET)[rispondi]

Ringrazio anche per questa segnalazione, ne ho approfittato per espandere il paragrafo specificando che si tratta di una "tradizione fatta risalire a..." e approfittando per specificare che già nelle marine pre-unitarie era d'uso il fiocco nero. --Il palazzo ^Posta Aerea^ 11:42, 5 feb 2007 (CET)[rispondi]


Non posso che ringraziare per gli interventi effettuati, aggiungo solo che non mi sono riferito alla voce specifica Real Marina... perchè sarebbe stato un "citarmi addosso...". Circa l'uso del termine "Armata di Mare" non credo che la sua cessione a terzi come marchio commerciale possa precluderne l'uso come voce enciclopedica (che, a differenza di articoli presenti in siti anche specializzati, deve necessariamente essere tal quale è stata). Naturalmente, colpa anche dell'età, non mi meraviglio più di niente, leggi nate storpie non sono una rarità e non posso escludere che anche in materia di copyright.....
--Emmeauerre 13:35, 5 feb 2007 (CET)[rispondi]
Solo una precisazione relativa al termine "Armata di Mare" nel mio intervento precedente, che rileggendo mi accorgo possa dare adito a fraintendimenti. In realtà volevo soltanto limitarmi a dire, che essendo diventato un marchio di moda, l'uso del termine nel suo antico significato si è andato via via perdendosi, in particolare su internet. Motivo per cui su un'enclopedia come la nostra in cui spesso si fa riferimento ad internet per operazioni di controllo, possa aver portato a fraintedere una modifica in cui non era stato specificato l'oggetto.
Comunque alla fine la "cosa" si è rilevata un vantaggio avendo avuto occasione per meglio collegare alcune voci^^ Buon lavoro! --Il palazzo ^Posta Aerea^ 13:53, 5 feb 2007 (CET)[rispondi]

Regno di Sardegna e Piemonte sabaudo[modifica wikitesto]

Laddove si parla delle origini della Regia Marina, ho sostituito "sarda" con "sabauda", collegando la provvisoriamente la pagina non più alla voce Regno di Sardegna ma a quella Storia del Piemonte. Il problema fondamentale è che la voce Regno di Sardegna è attualmente del tutto sviante: nella storiografia, così come nel senso comune per "Regno di Sardegna" si intende normalmente lo stato pre-unitario del Piemonte sabaudo. Certo, i Savoia si fregiavano del titolo di re proprio in quanto possedevano la Sardegna, ma di fatto quest'ultima nell'ambito dello stato sabaudo era poco più che una colonia. Mi sembra ovvio che chi clicca sul rimando "marina sarda" si aspetti di trovarsi in una dimensione che ha a che fare con Cavour e i Savoia piuttosto che con i Catalani e gli Aragonesi! Esiste del resto una continuità sostanziale dello stto sabaudo (dal ducato al regno) che ha un peso storico ben maggiore della continuità formale, se non meramente linguistica, del Regno di Sardegna". Dato che al momento non esiste una voce autonoma relativa al stato sabaudo, pertanto ho collegato provvisoriamente il link alla voce Storia del Piemonte. Daviboz 14:48, 24 gen 2008 (CET)[rispondi]

Problema definitivamente risolto grazie alla suddivisione della voce Regno di Sardegna in due voci distinte: quella dedicata all'antico Regno di Sardegna (Regno di Sardegna (1324-1720)) e quella dedicata al Regno di Sardegna sabaudo o Regno di Piemonte-Sardegna (Regno di Sardegna (1720-1861). --Daviboz 03:53, 12 feb 2008 (CET)[rispondi]

Ma quella italiana ( = del Regno d'Italia) fu l'unica "Regia Marina"?

Non sarebbe il caso di specificare "Regia marina italiana"? --Archiegoodwinit (msg) 23:43, 6 set 2009 (CEST)[rispondi]

Allo stato attuale la voce è in parte cospicua un elenco di navi, senza cenni storici sufficienti e soprattutto senza note. Poichè sono state create due voci ancillari che listano le navi in servizio nelle due guerre mondiali, sarebbe utile aggiungere una parte storica e scoprorare definitivamente gli elenchi. --Pigr8 ...libertà é partecipazione! 12:39, 20 ott 2010 (CEST)[rispondi]

A proposito[modifica wikitesto]

riporto qui una parte di testo che per ora non ha una collocazione ben precisa:--Riottoso? 22:17, 3 nov 2010 (CET)[rispondi]

Tra gli avvenimenti che coinvolsero la Regia Marina nelle due ultime decadi del XIX secolo, nonché negli anni che vanno dell'inizio del XX secolo fino allo scoppio della prima guerra mondiale, sono da ricordare in particolar modo:

  • Nel 1880 e nel 1882 l'entrata in servizio delle corazzate Duilio e Dandolo, progettate da Benedetto Brin, all'epoca tra le più potenti navi da battaglia del mondo;
  • La partecipazione, nel 1885 alla presa di Massaua ed alla fondazione della Colonia Eritrea;
  • Nel 1885 e nel 1887 l'entrata in servizio delle corazzate Italia e Lepanto, due veri gioielli dell'ingegneria navale, anche queste su progetto del Brin, le prime a sviluppare il concetto che porterà agli incrociatori da battaglia;
  • La circumnavigazione del globo effettuata da parte della "pirocorvetta" Magenta nel 1896;
  • Gli esperimenti compiuti, a partire dal 1897, da Guglielmo Marconi per lo sviluppo delle comunicazioni via radio svolti a bordo di navi della Regia Marina.
  • L'intervento a supporto delle truppe a difesa delle Legazioni occidentali a Pechino durante la rivolta dei Boxer del 1900 (uomini e navi italiane furono poi presenti in Cina sia presso la Concessione italiana di Tientsin come anche a Shanghai ed in altri porti, fino al 1947);
  • Nel 1903 il colonnello del Genio Navale Vittorio Cuniberti, autorizzato dalla Regia Marina, pubblica su Jane's Fighting Ships lo storico articolo An ideal Battleship for The British Navy che apre l'era delle corazzate monocalibro;
  • Il soccorso portato dalle navi della Marina alla popolazione di Messina e Reggio Calabria a seguito del terremoto (e del conseguente maremoto) del 1908;
  • L'ottenimento, da parte del tenente di vascello Mario Calderara nel 1909 del primo brevetto di "Pilota di Aeroplano" in Italia;
  • Le operazioni condotte dalla Regia Marina fra il 1911 ed il 1912 nell'ambito della guerra Italo-Turca con le prime vittorie navali riportate dalla Marina e l'utilizzo, da parte della stessa e per la prima volta al mondo, dell'aeroplano come arma da guerra.

Ciao! Spiego meglio questa mia modifica, visto che lo spazio nell'oggetto non sarebbe bastato, per cui passo da qui, proprio per evitare incomprensioni ed essere il più chiaro possibile. Ho messo tra molte virgolette il termine POV proprio perché quella frase non è che rappresnetasse qualcosa di così sbagliato, è solo che, visto che stiamo parlando di una voce che aspira alla vetrina, a mio modo di vedere "conclusioni" di quel tipo andrebbero evitate, proprio perché non tocca a noi darle. Visto che non c'erano fonti, ho riformulato. Dome era Cirimbillo A disposizione! 19:01, 24 dic 2010 (CET)[rispondi]

Tranquillo, io l'avevo lasciata per non far diventare la voce troppo pigr8ttica, ma se altri la vedono troppo colorata, allora lo è. Grazie. --Pigr8 ...libertà é partecipazione! 23:37, 24 dic 2010 (CET)[rispondi]

e sono sicuro che me ne sono sfuggiti altri... --F l a n k e r (msg) 15:03, 29 dic 2010 (CET)[rispondi]

I link rossi non sono un handicap per una voce, nemmeno una voce in vetrina!--Riottoso? 15:07, 29 dic 2010 (CET)[rispondi]
No, di certo, ma comunque visto che di questa voce si occupa il progetto:Marina, creare voci marinare come queste rientra nei nostri compiti, con calma ma senza dimenticare che è storia che ci riguarda. Anzi, per le voci in vetrina sarebbe opportuno tenere una sezione di manutenzione permanente. --Pigr8 ...libertà é partecipazione! 16:12, 29 dic 2010 (CET)[rispondi]
Non ho trovato il link assedio di Ancona, ma magari si riferisce a questo Bombardamento navale di Ancona (1915)...--Riottoso? 16:31, 29 dic 2010 (CET)[rispondi]
Ma assolutamente no; é l'assedio fatto dai piemontesi ai pontifici nel 1860. --Pigr8 ...libertà é partecipazione! 16:45, 29 dic 2010 (CET)[rispondi]
Non è rosso perché l'ho collegato ad un paragrafo di storia di Ancona. E' nel paragrafo I problemi della neonata Marina, terzo punto dell'elenco. --F l a n k e r (msg) 23:07, 29 dic 2010 (CET)[rispondi]
PS: interessante la voce coefficiente di finezza Pigr8, domani me la leggo! 'notte, F l a n k e r (msg) 23:09, 29 dic 2010 (CET)[rispondi]

Trattato di Washington e classificazione unita'[modifica wikitesto]

Vorrei fare una precisazione sulla classificazione delle unita' e sul trattato di Washington, in quanto cio' che e' scritto sulla voce presenta qualche imprecisione o comunque e' scritto in modo tale da portare a pensare erroneamente riguardo a talune classificazioni. Per prima cosa, il trattato di Washington non cita nemmeno una eventuale distinzione tra incrociatori pesanti ed incrociatori leggeri: tale distinzione avvenne con il successivo Trattato di Londra che peraltro non fu sottoscritto dall'Italia. Quindi, la frase " il Trattato di Washington forniva le definizioni per le unità maggiori, quindi navi da battaglia, portaerei e incrociatori pesanti e leggeri, come trattato esaustivamente negli articoli dal V al XV" andrebbe "epurata" di "pesanti e leggeri". Come seconda cosa, espandendo "Classificazione del Naviglio da guerra della Regia Marina Italiana" si ottengono le definizioni delle varie tipologie di naviglio: qui e' utile rilevare che le definizioni proposte non sono quelle di nessuno dei due trattati di cui sopra. per esempio, si parla di corazzate quando nei trattati si parla solamente di "battleships", cioe' navi da battaglia. Erano si' navi da battaglia le corazzate, ma anche gli incrociatori da battaglia: il fatto che in Italia fossero in servizio solo corazzate e non icrociatori da battaglia fa si' che possa essere esatta la definizione per il caso specifico italiano, ma sicuramente non riferendosi specificatamente al Trattato di Washington. Soprattutto, almeno per il Trattato di Londra che e' l'unico che la cita, la suddivisione tra icrociatori pesanti e leggeri non riguardava affatto il dislocamento come viene invece descritto nella voce (da 3000 a 5000 tons= icrociatore leggero, da 5000 a 10000 tons= incrociatore pesante) bensi' l'armamento (cannoni tra 155 mm o 6 pollici e 203 mm o 8 pollici = icrociatore pesante, cannoni fino a 150 mm o 6 pollici compreso = incrociatore leggero, fermi restando i limiti di dislocamento per identificare un incrociatore, cioe' tra le 3000 e le 10000 tons). La stessa Regia Marina identificava infatti come incrociatori leggeri anche quelli da 7000 tons ed addirittura quelli da 10000 classe "Duca degli Abruzzi" in quanto armati con cannoni da 152. Teoricamente, se superati alcuni inconvenienti costruttivi, secondo i due trattati-guida riguardanti la classificazione delle unita' navali dell'epoca (Washington e Londra), una nazione avrebbe potuto costruire icrociatori da 10000 tons armati di cannoni da 130 mmm che sarebbero stati classificati come "leggeri" ed incrociatori da 3100 tons armati di cannoni da 203 che sarebbero stati classificati come pesanti.

Essendo voce in vetrina, penso che questa meriti di essere la piu' precisa possibile riguardo cio' che vi viene scritto, con una particolare attenzione anche alla forma, affinche' non vi sia possibilita' di fraintendimento di quanto viene esposto. Pertanto, tolgo solamente "pesanti e leggeri" dalla frase segnalata per evitare una vera e propria notizia errata: altre correzioni o modifiche sarebbero possibili all'interno dei singoli paragrafi descriventi le varie tipologie di naviglio, ma sarebbero sicuramente di maggiore entita', necessitando di essere riscritte (o quantomeno, largamente rielaborate). (non so perche', ma quando cerco di firmare l'intervento, la firma mi compare all'inizio del titolo dell'intervento genitore, per cui mi firmo "manualmente", dichiarando che il mio intervento e' firmato 151.13.145.114 ed e' del 26 marzo 2011 alle ore 15.37)

Guarda, concordo con la disamina anche se vorrei far notare che purtroppo a volte il cercare di dare un taglio divulgativo porta a fere errori. Se è per questo, anche la classe Brooklyn statunitense e la classe Mogami giapponese (inizialmente) erano incrociatori leggeri, pur stazzando ben oltre le 10000 t. Metteremo mano al più presto, grazie. Inutile dire che se voi partecipare stabilmente ai lavori sei ben accetto; fai riferimento alle Discussioni progetto:Marina, meglio noto come Quadrato Ufficiali. --Pigr8 ...libertà é partecipazione! 16:02, 26 mar 2011 (CET)[rispondi]
Ho giusto fatto qualche piccola modifica che non stravolge l'impianto complessivo ma che puntualizza piccoli particolari: mi sembra sufficiente per una piu' precisa informazione senza "scaravoltare" il tutto... (sono sempre 151.13.145.114, 26 marzo 2011 ore 16.17)
MA ti ringrazio senz'altro! Le voci non sono mai "arrivate" e neanche i loro autori. Qui siamo degli onesti dilettanti e vediamo di non dimenticarcelo, però la campagna acquisti è sempre aperta, quindi se ti vuoi unire a noi stabilmente, benvenuto. Per la voce, ora rileggo con calma il paragrafo e vedo il da farsi; tu continua pure a tuo piacimento. --Pigr8 ...libertà é partecipazione! 18:09, 26 mar 2011 (CET)[rispondi]
Ho messo mano e spero di aver chiarificato in modo soddisfacente. Devo darti atto di una notevole "curiosità" visto che le cose in questione erano in un cassetto; ora rimane solo un problema: la voce è ai limiti tecnici di dimensione, per cui eventuali ampliamenti consistenti in termini di dimensione andrebbero scorporati in voci ancillari (esistenti o da creare), per non penalizzare utenti con connessioni lente. Quindi ogni futuro intervento verrà pianificato in quest'ottica. Arrivederci, spero. --Pigr8 ...libertà é partecipazione! 18:15, 26 mar 2011 (CET)[rispondi]
Caro IP, le tue osservazioni mi portano a pensare che tu sia un utente molto attento e particolarmente interessato alla Regia Marina, perciò mi sento di incoraggiarti ad iscriverti a Wikipedia, che tanto è gratis e non si perde nulla. Per sapere come fare, vedi Aiuto:Come registrarsi. Una volta fatto, leggi perfavore questo box: (non fare caso alla scritta "Regia Marina" dopo il "Ciao" iniziale, fai conto invece che ci sia il tuo nome)
Ciao Regia Marina, ti invito a prendere parte al Progetto: Marina attualmente in fase di espansione. Partecipa alla discussione che, nel frattempo, si sta tenendo al Quadrato Ufficiali e non esitare a dire la tua in proposito. Se vuoi aderire al progetto, inoltre, non dimenticare di inserire la tua firma in fondo alla lista degli utenti interessati! Grazie per il tuo contributo!

Ti aspettiamo! --Bonty - tell me! 21:40, 26 mar 2011 (CET)[rispondi]

Ringrazio per l'invito: a dire il vero, ho gia' provveduto diverso tempo fa a registrarmi (infatti sono Regste), solo che, per pigrizia (ma non solo) non mi loggo quasi mai... Comunque, come si puo' vedere dall'elenco dei contributi, cerco di dare una mano lo stesso... Intanto: Buon lavoro! (sono sempre il 151.13.145.114, alle 20.22 del 28/03/2011)

Modifica di Flanker[modifica wikitesto]

Flanker grazie di questa tua modifica. Però le note andrebbero formattate inserendo il numero di pagina in "p." e non "pag."... correggeresti perfavore? Grazie!

✔ Fatto--Nicola Romani (msg) 20:21, 4 giu 2011 (CEST)[rispondi]

Segnalo mia modifica[modifica wikitesto]

Ho tolto questa fonte: ci deve essere un errore giacché il libro usato come fonte non parla della prima guerra mondiale. Avendo il libro, ho anche controllato e a p. 197 non c'è la circolare del min. della marina --Zero6 12:02, 5 apr 2013 (CEST)[rispondi]

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Motosiluranti tedesche[modifica wikitesto]

Questo mio articolo può essere inserito tale e quale in una voce. Suggerirei il titolo “Le Motosiluranti tedesche S 54 e S 55 in Adriatico nei giorni dell’Armistizio”. Francesco Mattesini


8 - 11 SETTEMBRE 1943: L’INCREDIBILE MISSIONE DI GUERRA DI DUE MOTOSILURANTI TEDESCHE NELL’ADRIATICO

L’8 Settembre 1943, giorno dell’armistizio dell’Italia con gli Alleati, nella rada del Mar Piccolo di Taranto, ormeggiate a pacchetto alla banchina della Caserma Farinati, si trovavano due motosiluranti tedesche della 3a Flottiglia: la S 54, comandata dal sottotenente di vascello Klaus Degenhard-Schmit, e la S 61 con il capo nocchiere Friedel Blὅmker, che sostituiva il comandante titolare. Vi era poi la motozattera MFP 478 comandata anch’essa da un sottufficiale, la quale dopo aver sbarcato le sue ventidue mine tipo TMA/B al deposito di Buffoluto, si trovava nell’arsenale in attesa di iniziare un ciclo di lavori.

Degenhard-Schmit, che alle ore 21.28 aveva ricevuto dal Comandante della 3a Flottiglia Motosiluranti, tenente di vascello Friedrich Kermnade, l’ordine di lasciare al più presto il porto di Taranto, poco prima della mezzanotte chiese all’ammiraglio di Squadra Bruto Brivonesi, Comandante del Dipartimento Marittimo Jonio e Basso Adriatico, l’autorizzazione a far partire le tre navi in ore notturne per un porto della Grecia, motivandolo con il timone di trovare all’alba unità navali britanniche in prossimità della base. Richiesero anche il permesso di spostare le due motosiluranti dal Seno di Levante del Mar Piccolo, ove si trovavano decentrate, a “San Pietro per distruggere i congegni di accensione delle torpedini elettriche depositate in detta isola” dalla Marina germanica.

L’ammiraglio Brivonesi, ricevette dall’ufficiale tedesco “l’assicurazione” che le motosiluranti “non avrebbero compiuto atti ostili entro le acque territoriali italiane”. Allora Brivonesi, come ha scritto in una sua relazione, acconsentì alle richieste di Degenhard-Schmit, e per premunirsi da eventuali minacce dette ordine di far accompagnare le due motosiluranti nei loro spostamenti da motoscafi italiani.

Del clima di quella notte abbiamo la testimonianza di Franco Bargoni, che all’epoca, con il grado di guardiamarina, prestava servizio all’Ufficio Cifra della Segreteria del 4° Gruppo Sommergibili (Grupson). Poco dopo le ore 23.00 dell’8 settembre, egli fu inviato dal suo Comandante, capitano di fregata Giulio Chialamberto, alla centrale operativa sotterranea protetta del Comando in Capo del Dipartimento Navale di Taranto, perché al 4° Grupsom, per l’intasamento delle linee non interrotte dai bombardamenti aerei, non si riusciva ad avere comunicazione con il Ministero, presso il quale lo stesso Chialamberto era stato precedentemente convocato. Scrive Bargoni:

“Vi rimasi per molte ore; non riuscii ad avere la comunicazione con Roma, ma in compenso potei assistere alle scene indescrivibili che si verificarono quella notte. Telefoni che squillavano, telescriventi che sfornavano ordini e contr’ordini, ufficiali che andavano e venivano, discutevano concitatamente, ecc… In mezzo a quella confusione arrivò una telefonata dal deposito munizioni di Buffoluto, in cui si domandava come contenersi nei riguardi della motozattera germanica che con minacce pretendeva di reimbarcare le sue mine. Nessuno chiaramente li aveva avvisati del colloquio di Brivonesi con l’ufficiale tedesco. Il Capitano di Vascello di servizio, essendone evidentemente anche lui all’oscuro, chiamò qualcuno, chiaramente uno dei diretti superiori: o l’amm. Di divisione Fioravanzo, comandante della Base e quindi responsabile anche di Buffoluto, o l’ammiraglio Brivonesi capo del Dipartimento. Cosa gli abbiano risposto non lo so, ma il concetto era questo. E’ roba loro dategliele. Cosa ne abbiano fatto i tedeschi lo sappiamo”.

Alle 04.00 del 9 settembre, avendo la motozattera MFP 478 imbarcato ventiquattro mine magnetiche TMA/B alla banchina del deposito Buffoluto, invece che a San Pietro, le tre navi germaniche cominciarono a muovere disponendosi in linea di fila, e attraversarono le ostruzioni del Mar Grande alla velocità di nove nodi, che era la massima consentita dalla motozattera a causa dello stato dei suoi motori, alquanto cimentati da un intenso impiego.

Anche le due motosiluranti S-54 e S-51 non si trovavano in piena efficienza, potendo sviluppare una velocità massima di appena diciotto nodi, consentita dal funzionamento di due dei tre motori di cui esse erano dotate.

E difficile credere che l’ammiraglio Brivonesi abbia mandato motoscafi a sorvegliare i movimenti delle unità tedesche nei loro spostamenti. Se effettivamente erano presenti occorre dire che su quei natanti fu effettuata una scarsissima vigilanza, perché gli uomini a bordo non si accorsero degli atti ostili che le unità germaniche portarono a compimento nelle acque del Mar Grande.

Alle 01.15 del 9 settembre le unità tedesche avevano ricevuto, per radio, di rendere esecutivo l’ordine di operazione “Ernte” del piano “Achse”. Pertanto, dirigendo lungo il canale navigabile di uscita dalla rada verso la porta delle ostruzioni, la MFP 478 si dedico, in avvistata, a calare in mare ventidue mine magnetiche. Ciascuna di esse, con attivazione elettromagnetica e acustica, aveva una carica di 420 tonnellate di esplosivo, arma di grande efficacia normalmente impiegata in fondali fino a 30 metri.

L’operazione di posa mine, iniziata a poche centinaia di metri dall’imboccatura del canale navigabile, e proseguita nel Mar Grande con le navi che continuavano a procedere in linea di fila, anche per non fornire sospetti, si era svolta sotto la direzione del tenente di vascello Erns Winkler, del Comando Servizio Minamento della Marina Germanica, che aveva preso imbarco sulla motozattera; dopo di che le tre piccole unità tedesche, uscite dal Mar Grande nell’ordine S. 54, S 61 e MFP 478, diressero verso Gallipoli, nelle cui acque incontrarono al mattino due piccoli motovelieri italiani requisiti e in servizio di dragaggio, dei quali il Vulcania (R 240), di 90 tsl, fu raggiunto e affiancato dalla S.54. Dopo l’allontanamento dei dodici uomini dell’equipaggio su una imbarcazione di salvataggio, il Vulcania fu affondato da una squadra di marinai della S 54, con cariche esplosive piazzate nel locale motori e nella stiva. Il motoveliero affondò a un miglio e mezzo per 190° dal porticciolo di Santa Maria di Leuca, facendo scattare l’allarme a terra, con le batterie costiere italiane che spararono una trentina di colpi sulle motosiluranti che si stavano allontanando, senza colpirle.

La notizia che erano stati violati i patti concordati con il sottotenente Degenhard-Schmit arrivò a Brivonesi alle ore 13.00 del 9 settembre, e pertanto l’ammiraglio si preoccupò di quello che poteva succedere se le unità germaniche avessero incontrato la corvetta Baionetta, in rotta da Pescara per Brindisi con a bordo il Re Vittorio Emanuele III e i membri della corte e del Governo, in fuga da Roma e imbarcati ad Ortona, e verso la quale si stava dirigendo, per assumerne la scorta, l’incrociatore leggero Scipione Africano, comandato dal capitano di fregata Ernesto Pellegrini. Inizialmente Brivonesi pensò di ordinare l’uscita da Taranto delle due torpediniere Clio e Sirio, ma poi essendo lo Scipione già in navigazione per assumere la scorta alla Baionetta, si limitò a “fargli giungere l’ordine di agire offensivamente contro le motosiluranti qualora le avesse avvistate”.

In effetti, verso le ore 14.00 di quel giorno 9 , trovandosi a transitare al largo di Capo d’Otranto alla velocità di ventotto nodi, lo Scipione avvistò la S 54 e la S 61, le quali all’avvicinarsi dell’incrociatore, temendo fosse stato inviato al loro inseguimento, presero a bordo l’equipaggio della lenta motozattera MFP 478, che poi fu fatta saltare in aria con una carica esplosivo. Quindi le due motosiluranti si allontanarono alla velocità di diciotto nodi che, come abbiamo detto era la massima consentita dai loro motori, e manovrarono coprendosi con cortine di nebbia artificiale per disturbare la regolazione del tiro da parte dell’unità italiana, che però non mostrò di voler intraprendere alcuna azione offensiva. Dallo Scipione fu vista la motozattera esplodere, ma poiché le motosiluranti non mostravano di assumere atteggiamenti aggressivi verso la sua nave, e ansi manovravano per allontanarsi alla massima velocità consentita nascondendosi con una cortina di fumo, il comandante Pellegrini fece continuare la navigazione verso Pescara, senza deviare dalla rotta, dovendo assolvere in ben altro importante compito. Dobbiamo ricordare che lo Scipione, modernissima unità della classe “Capitani Romani”, nel caso di un inseguimento, sarebbe stato in grado di sviluppare una velocità vicina ai quaranta nodi.

Nel frattempo le mine magnetiche tedesche stavano per fare le loro vittime. Sulla base degli accordi seguiti alla firma dell’armistizio, e concordati dagli Alleati con il governo del maresciallo d’Italia Pietro Badoglio e con le autorità della Regia Marina, la sera dell’8 settembre ebbe inizio l’operazione britannica Slapstick che consisteva del trasporto a Taranto di un contingente di truppe britanniche della 1a Divisione aviotrasportata. Le truppe si erano imbarcate a Biserta su cinque unità della Royal Navy, gli incrociatori leggeri della 12a Divisione Aurora (commodoro William Gladstone Agnew), Penelope, Sirius e Dido e sul il posamine veloce Abdiel, a cui si aggiunse il grosso incrociatore statunitense Boise. Per la loro copertura fu destinato un nucleo navale comprendente le moderne corazzate da 35 000 tons Howe (vice ammiraglio Arthur Power) e King George V, salpate da Malta con la loro scorta di quattro cacciatorpediniere della 14a Flottiglia: Jervis; Panther; Pathfinder e Paladin.

Nello stesso tempo, in conformità con gli ordini impartiti con il famoso Promemoria Dick dal Comandante in Capo delle Forze Navali Alleate, ammiraglio Andrew Browne Cunningham, anche le navi italiane della 5a Divisione Navale (ammiraglio Da Zara), e costituite dalle corazzate Andrea Doria e Duilio, dagli incrociatori leggeri Luigi Cadorna e Pompeo Magno, e dal cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco si misero in movimento da Taranto. Raggiunto l’indomani il porto di Malta, le cinque navi furono internate, assieme alle altre unità delle Forze Navali da Battaglia salpate da La Spezia e da Genova, e che nel trasferimento avevano perduto nel Golfo dell’Asinara, per attacco aereo tedesco, la corazzata Roma, il pomeriggio del 9 settembre.

Quello stesso giorno, ad iniziare dalle ore 17.00, gli incrociatori britannici cominciarono ad entrare nel Mar Grande e, mentre si portavano all’attracco nel porto mercantile per iniziare lo sbarco delle truppe, furono seguiti dalle corazzate che si ancorarono in rada.

Verso le ore 24.00, mentre l’operazione per mettere a terra soldati era in pieno svolgimento, il posamine veloce Abdiel (capitano di vascello David Orr-Ewing), che si era ancorato nel Mar Grande a circa 700 metri per sud-sudovest dal castello aragonese e quindi all’entrata del canale che porta al Mar Piccolo, ruotando sull’ancora finì su una delle mine magnetiche tedesche, posate nella notte precedente. In quel momento, erano le 00.15 del 10 settembre, l’Abdiel stava sbarcando i suoi 400 soldati del 6° Battaglione paracadutisti “Royal Welsh”. L’esplosione della mina TMA/B, fortissima, fu udita in ogni angolo del porto, ed il posamine, con le paratie dello scafo squarciate, si spezzò in due tronconi e affondò in soli due minuti in lat. 40°29’N, long. 17°15’E. Con l’Abdiel si persero 48 uomini dell’equipaggio, inclusi 6 ufficiali, e 101 soldati. I feriti furono 126, tra cui 6 marinai, e 150 le tonnellate di materiale perduto, sotto forma di armi ed equipaggiamenti per le truppe, incluse 8 Jeeps, 76 cannoni controcarro e munizioni. Le perdite umane potevano essere molte di più se gli uomini della nave non si fossero trovati in coperta a causa del caldo opprimente nei locali inferiori.

Subito dopo l’esplosione della mina, fu inviata in soccorso dell’Abdiel la nave ospedale italiana Marechiaro, che era adibita a soccorso dei naufraghi nelle acque territoriali di Taranto. Essa, uscita dal Mar Piccolo, recuperò parte dei superstiti del posamine, per poi trasferirli a terra dove ricevettero le prime cure e il ricovero negli ospedali della citta pugliese. Nel corso delle operazioni svolte per realizzare sbarramenti minati, l’Abdiel aveva posato 2209 mine, delle quali 1883 di tipo offensivo, che affondarono molte navi dell’Asse.

Gli ammiragli Brivonesi e Power, convennero che la causa dell’eplosione che aveva portato alla perdita dell’Abdiel fosse stata causata da una mina o da una bomba alleata a scoppio ritardato, ma è da ritenere che l’ufficiale italiano ne sospettasse il motivo, evidentemente taciuto per non fare brutta figura con i nuovi alleati.

Le perdite causate dalle mine magnetiche tedesche non furono limitate a quella del solo Abdiel, dal momento che alle ore 13.50 del 22 settembre, durante un normale spostamento all’interno del Mar Grande, si verificò un esplosione che determinò l’affondamento del rimorchiatore italiano Sperone (86 tsl), con perdita quasi totale del centocinquanta uomini circa che aveva a bordo per portarli in libera uscita dall’Isola di San Pietro a Taranto. Ciò avvenne mentre dragamine italiani e tedeschi stavano lavorando in un’opera di bonifica nel Mar Grande che, in una quindicina di giorni portò alla distruzione di ventuno mine.

I successi della S 54 e della S 61, nella loro navigazione di trasferimento verso l’Alto Adriatico erano continuati dopo l’affondamento del motoveliero Vulcania. Avendo attraversato il canale dì Otranto alla modesta velocità di nove nodi e diretto per Valona per rifornirsi di acqua per il sistema di raffreddamento dei motori surriscaldati, dove però il personale italiano dell’Isola di Sasemo, all’entrata della baia, rifiutò di farle entrare in porto. Allora diressero verso nord per raggiungere a Ragusa, finendo però sulle reti di uno sbarramento sottocosta, i cui galleggianti cilindrici di sostegno erano semisommersi, fortunatamente senza danneggiare le eliche e i timoni. Riuscirono a liberarsi con fatica al sopraggiungere della notte, con alcuni marinai dell’equipaggio che lavorarono sottacqua con seghetti e cesoie per tagliare i cavi d’acciaio che imprigionavano lo scafo inferiore delle due motosiluranti, che poi alle ore 21.00 cominciarono a muovere a bassissima velocità, per ricercare un ridosso sotto costa.

I due comandanti, Degenhard-Schmit e Blὅmker e il tenente di vascello Winkler si consultarono, e ponendo in secondo piano la questione dell’acqua di raffreddamento motori, decisero di rimandare questo problema al giorno dopo, essendovi la necessità di dare riposo agli uomini degli equipaggi che non dormivano da due giorni, ed erano sfiniti per il lungo lavoro. Consultando la carta nautica decisero di andare ad ancorarsi nella Baia di Scala Vjosa, a nord di Valona, entrandovi alle 22.00 dopo essersi assicurati che non vi erano altri ostacoli. Ripresero il mare alle prime luci del giorno 10 settembre, dirigendo a nord risalendo la costa dell’Albania e del Montenegro per poi raggiungere Ragusa nelle prime ore del pomeriggio, superando la base di Cattaro, ancora in mani italiane, con la S 61 in difficoltà per una perdita copiosa nel circuito di raffreddamento motori, che fu rapidamente riparato in porto.

Durante questa navigazione delle motosiluranti, la corvetta Baionetta, con il Re d’Italia, transito in rotta inversa lungo le coste della Puglia ad una distanza di sicurezza di circa 70 miglia, mentre più vicine, a sole 20 miglia, passarono sempre dirette a sud con destinazione Malta la corazzata Giulio Cesare e la nave trasporto aerei Miraglia, che avevano cambiato rotta, allontanandosi dalle coste della Dalmazia, dopo aver ricevuto la notizia che a Cattaro si svolgevano combattimenti tra italiani e tedeschi.

Effettuato il rifornimento d’acqua la S 54 e la S 61 ripresero il mare alle 17.00 del 10, e riprendendo la formazione in linea di fila diressero verso Ovest, per portarsi nell’Alto Adriatico, alla velocità di diciotto nodi che, lo ricordiamo, era la massima raggiungibile. Verso sera fu avvistata una mina in vicinanza, che rasentò lo scafo della S 54, per poi esplodere di poppa ad una ventina di metri dallo scafo senza procurare alla motosilurante alcun danno. La mina, che doveva aver strappato il suo cavo d’ancoraggio, doveva appartenere ad uno sbarramento minato difensivo italiano.

Dirigendo verso Ancora, lasciandosi alle spalle l’Isola di Lissa, le due piccole unità dettero un eccezionale esempio di combattività e di iniziativa nei confronti delle navi italiane incontrate lungo la rotta, dal momento che vi era un forte traffico diretto verso sud, per sfuggire ai tedeschi impegnati ad occupare i porti dell’Adriatico.

L’11 settembre, verso le ore 04.00, trovandosi a transitare nelle acque di Ancona, una vedetta della S 61 dette l’allarme, avendo avvistato ad una distanza di circa 2.000 metri a dritta della prora uno scafo oscurato, che inizialmente fu ritenuto dal comandante Degenhard-Schmit per quello di una corvetta e successivamente di una nave mercantile. Si trattava invece della grossa cannoniera Aurora (tenente di vascello Attilio Gamaleri), ex nave austriaca Nirvana di 950 tonnellate, che era partita da Pola, sotto il tiro di armi automatiche di un reparto motorizzato tedesco che aveva occupato le banchine. La sua destinazione era un porto della Puglia ancora sotto controllo italiano. La S 54, portatasi nei pressi dell’Aurora le ingiunse di fermarsi, ma non avendo la cannoniera ubbidito Degenhard-Schmit dette il fuori al siluro di dritta, ma per un guasto parti anche quello di sinistra, che però fallirono entrambi il bersaglio. Prima che la S 54 potesse ricaricare i tubi di lancio con i due siluri di riserva, intervenne senza indugio la S 61 del nocchiere Blomker, la quale da alcune centinaia di metri di distanza dalla cannoniera lancio un siluro che arrivò a segno, facendo esplodere le caldaie dell’Aurora che affondò nello spazio di pochi minuti, a poche miglia dalla costa marchigiana. Le due motosiluranti ne recuperarono i superstiti, in tutto sessantadue uomini dell’equipaggio sugli ottant’otto che si trovavano a bordo dell’unità italiana, e tra essi vi fu il comandante Gamaleri recuperato dalla S 61.

Proseguendo la rotta verso Venezia, le due piccole unità germaniche, navigando distanziate per avere la possibilità di individuare meglio le navi italiane che stavano lasciando l’Alto Adriatico, nella giornata dell’11 settembre catturarono quattro mercantili tutti diretti a Sud, ed affondarono un cacciatorpediniere.

La prima preda fu la modernissima motonave Leopardi (capitano 4.572 tsl), completata da pochi giorni e partita da Fiume con circa 700 civili, in gran parte famiglie di ufficiali italiani. Il Leopardi era comandato dal capitano Vittorio Barich, che però avvistate e riconosciute le motosiluranti per tedesche, essendo più grandi di quelle italiane, non reagì come avrebbe potuto fare, aumentando la velocità, cambiando rotta, e impiegando le numero armi di cui la sua nave era fornita nelle piazzole sopralevate. Anzi, all’ingiunzione di fermarsi dal comandante della S 54 con il lampeggiatore, la motonave fermò le macchini, dando modo a Degenhard-Schmit di avvicinarsi e di osservare che a bordo del Leopardi vi erano molti civili. Avendo constatato che si trattava di una nave moderna, e per non causare una strage tra i civili, l’ufficiale tedesco decise di catturarla, ingiungendo al comandante Barich di gettare in mare le armi per evitare l’affondamento, per poi mandare a bordo di quella importante preda il tenente di vascello Wankler con dieci marinai già facenti parte dell’equipaggio della affondata motozattera MFP 478. Il capitano Barich e alcuni ufficiali del Leopardi passarono invece come ostaggi sulla S 61, che alcune ore dopo fece anch’essa la sua preda fermando e catturando il piroscafo italiano Albatros (1.590 tsl), al cui comandante ingiunse di non effettuare alcuna manovras di fuga se non voleva essere affondato.

Fu quindi ripresa la rotta per Venezia, con le due motosiluranti disposte sui fianchi dei due mercantili, ma alquanto distanziate per non generare sospetti a eventuali aerei italiani. Nel transitare al largo della zona del Delta del Po, e già nelle vicinanze di Venezia, distante circa 30 miglia, fu avvistato in lontananza (a circa 25 miglia) un vecchio piroscafo diretto a sud, e mentre la S 54 si dirigeva verso di esso per attaccarlo, apparve la sagoma di un cacciatorpediniere, con due fumaioli e rotta di controbordo. Sapendo che quell’unità, ritenuta del tipo ex jugoslavo Sebenico, era fortemente armata e molto più veloce della sua piccola nave, il comandante Degenhard-Schmit, manovrò per nascondersi dietro lo scafo del piroscafo, che era il Pontinia, al quale fu ordinato con megafono di accostare di 90° gradi a dritta e di fermarsi. Quindi portando la S 54 sul fianco sinistro del piroscafo, Degenhard-Schmit, accompagnato da due suoi uomini armati, vi salì a bordo con la scala a gradini di legno, per osservare dalla posizione elevata del ponte di comando i movimenti del cacciatorpediniere.

Si trattava del Quintino Sella, una vecchia unità del 1922, comandata dal capitano di corvetta Corrado Cini, che era partita da Venezia per Taranto, e che a causa di un guasto alla caldaia n. 2 procedeva alla velocità ridotta a quattordici nodi. Degenhard-Schmit, ordinato al comandante del Pontinia di riprendere la navigazione a bassa velocità e con la medesima rotta, rientrò da solo velocemente a bordo della S 54, facendo appena in tempo. Subito dopo, con il Sella che stava sfilando dietro il Pontinia, partendo da dietro il piroscafo e passando di prora con le macchine a tutta forza, la motosilurante attaccò il cacciatorpediniere dalla distanza di 400 metri.

Il Sella, che oltre al Pontinia aveva visto più lontano il Leopardi, ma non le motosiluranti, vedendo sbucare da dietro il Pontinia la S 54, si accorse della minaccia, e mentre l’equipaggio faceva fuoco sulla motosilurante con qualche raffica delle mitragliere di sinistra, il comandante Cini tentò di manovrare accostando senza riuscirvi perché il timone non rispose, essendosi incastrato per il danno alla caldaia n. 2.

Colpito dai due siluri di riserva della S 54 sul fianco sinistro, all’altezza della plancia e del locale caldaia n. 1 che esplose, il Sella (1.279 tonnellate) si spezzò in due tronconi. La prua della nave affondò quasi immediatamente mentre la poppa, spinta dall’abbrivio, avanzò per circa 200 metri, per poi affondare rovesciandosi sul fianco sinistro. Erano le 17.45, e l’affondamento era avvenuto a circa 12 miglia dall’imboccatura del Passo di Lido, su un fondale di circa 25 metri. Con l‘anziano cacciatorpediniere, che nella sua attività di guerra aveva svolto centosedici missioni di scorta, quasi tutte in Egeo, andarono perduti ventisette uomini, inclusi quattro ufficiali. I superstiti, compreso il comandante Cini, cui fu poi amputata una gamba rimasta gravemente ferita, furono subito soccorsi e raccolti dalla S 54 e dal catturato piroscafo Pontinia, ed altri ancora più tardi da alcuni pescherecci italiani. In totale furono recuperati novantatre uomini.

All’affondamento del Sella assistette il nuovo sommergibile Nautilo, il quale, non essendo ancora pronto all’impiego, era appena salpato disarmato da Venezia (dove il giorno 9 si era trasferito da Monfalcone), con l’intenzione di sfuggire alla cattura dei tedeschi raggiungendo Taranto. Impresa che non riuscì per sopraggiunte avarie che lo costrinsero a rientrare.

Ma non era finita perché avvicinandosi a Venezia fu avvistato dalla S 61 il piccolo piroscafo italiano Quarnarolo a cui fu ordinato di seguire la motosilurante se non voleva essere affondato. In quel momento rimaneva un solo siluro, proprio sulla S 61.

Dopo gli esaltanti successi i comandanti delle due motosiluranti tedesche entrarono per rifornirsi indisturbati a Venezia, che pure era ancora sotto il controllo degli italiani, e vi erano ancora in porto alcune navi da guerra e mercantili. Non vi fu nessuna reazione. La S 54 andò per prima ad ancorarsi con la motonave Leopardi e il piroscafo Pontinia, la S 61 la seguì alcune ore dopo con i due piroscafi Albatros e Quarnarolo.

Ma la storia della missione non erano ancora finita, poiché delegato dal feldmaresciallo Albert Kesselring, Comandante in Capo del Sud (O.B.S.), il sottotenente di vascello Degenhard-Schmit contribuì a convincere il locale comandante del Dipartimento Navale dell’Alto Adriatico, ammiraglio di divisione Emilio Brenta, ad arrendersi con l’intera guarnigione di sedicimila uomini. Una ben triste sorte per l’uomo che era stato per quasi tre anni il Capo Reparto Operazioni di Supermarina, il Comando operativo della Regia Marina, e che era appena giunto da Roma per sostituire, all’ultimo momento, l’ammiraglio Ferdinando di Savoia Genova, chiamato ad accompagnare nel sud Italia il Re Vittorio Emanuele, e il cui bagaglio era stato imbarcato sul cacciatorpediniere Sella, e quindi andato perduto con quella nave.

Per il valore e lo spirito di iniziativa dimostrata nell’eccezionale missione, che aveva portato all’affondamento di quattro navi e alla cattura di altre quattro, il 22 dicembre 1943 Degenhard-Schmidt fu insignito da Hitler della Ritterkreuz, l’ambita onorificenza della Croce di Cavaliere dell’Ordine della Croce di Ferro.

Francesco Mattesini

Roma, 17 aprile 2013


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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

C.J.C Molony e altri, The Mediterranean and Middle East, Her Majesty’s Stationery Office, Londra, 1973, p. 242-243.

F. Kemnade, Die Africa-Flottille. Der Einsatz del 3. Schnellbootflottille in Zwei Weltkrieg. Chronik und Bilanz, Stuttgardt, Motorbuch Verlag, 1978, p. 450-455.

A. Santoni-F. Mattesini, La partecipazione tedesca alla guerra aeronavale nel Mediterraneo (1940-1945), cit., p. 502-503.

Emilio Bagnasco e Fulvio Petronio, “Una incredibile crociera di guerra in Adriatico”, Storia Militare, gennaio 1994.

Franco Bargoni, “Per la Patria e per il Re”. Rivista Marittima, Giugno 2001, p. 136-137; riportato in Francesco Mattesini, “La Marina e l’armistizio”, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 2002, p. 614-615.

Francesco Mattesini, “La Marina e l’armistizio”, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 2002, p. 614-620.

Erminio Bagnasco, Corsari in Adriatico 8 – 13 Settembre 1943, Mursia, Milano, 2006.

Al Progetto Marina sembra esserci consenso verso la creazione della pagina su Klaus-Degenhard Schmidt, dove inseriremo le informazioni qui sopra: personaggio enciclopedico sia per l'azione che per la Croce di Cavaliere. Una voce sull'evento invece dovrebbe avere come titolo "Azione delle motosiluranti tedesche S 54 e S 61 durante l'armistizio dell'Italia con gli Alleati"... un po' cacofonico, tutto qua. --Zero6 07:50, 19 apr 2013 (CEST)[rispondi]
Invece no: meglio una voce sull'evento. Qui l'anteprima... com'è? Il testo comunque è una sua riformulazione, giusto? Non è stato copiato identico dai libri cioè. --Zero6 06:59, 20 apr 2013 (CEST)[rispondi]
News: ecco la voce Azione delle motosiluranti S 54 e S 61 --Zero6 19:57, 21 apr 2013 (CEST)[rispondi]

Inchiesta Franchetti (1903)[modifica wikitesto]

Manca del tutto un riferimento, anche minimo, all'inchiesta promossa dall'on. Leopoldo Franchetti, o mi sbaglio? Secondo me importante perché descrive i punti deboli e la situazione della Marina del periodo. --F l a n k e r (msg) 19:47, 14 gen 2014 (CET)[rispondi]

L'inchiesta alla quale ti riferisci è questa. Mi organizzo per aggiungere dei contenuti in merito, ma ovviamente chiunque, magari partendo dal materiale degli archivi della Camera, può mettere mano. --Pigr8 La Buca della Memoria 09:03, 15 gen 2014 (CET)[rispondi]
Aggiungo che una figura che forse dobbiamo far comparire nella voce è Giovanni Bettolo, nelle duplici vesti di ammiraglio e politico. --Pigr8 La Buca della Memoria 09:19, 15 gen 2014 (CET)[rispondi]

Introduzione alla voce[modifica wikitesto]

Scusate si potrebbe spostare la frease:

La Regia Marina fu l'armata navale del Regno d'Italia fino al 1946, anno in cui con la proclamazione della Repubblica assunse la nuova denominazione Marina Militare.

All'inizio, sopra la TOC? Grazie. --Niculinux (msg) 12:24, 22 feb 2014 (CET)[rispondi]

Errore grossolano[modifica wikitesto]

Nella voce è presente la seguente frase: Ministero della Guerra intensificò gli stanziamenti alla Marina Questa frase lascia intendere che la marina fosse sottoposta al Ministero della guerra, quando in realtà essa aveva un proprio ministero i cui stanziamenti erano decisi dal governo e approvati dal parlamento, come per il Ministero della guerra che invece sovraintendeva all'esercito.

Situazione note web[modifica wikitesto]

Come ho sempre sostenuto, e come a quanto pare è successo, l'uso di note web ci si ritorce contro dopo un pò di tempo. In Regia Marina (vetrina) molte note rimandano a pagine a cui oggi il contenuto è cambiato oppure non esistono semplicemente più. I link al sito della Marina Militare sono tutti cambiati (e sono molti), quindi da aggiornare. Le note 11-12-20-28-80-64-107 non funzionano e le note 110-104-99-57-8-49 non hanno un riferimento preciso alla pagina, e inoltre sono libri di difficile reperibilità per cui non saprei se chi ha inserito le note li ha effettivamente consultati. Come saprete io con le note sono puntiglioso, e riguardando questa voce a cui lavorai con Pigr8 per mandarla in vetrina, ho notato parecchi difetti che sono da sistemare per mantenere la voce in vetrina. Se qualche anima buona vuole aiutarmi a metterci mano...lo ringrazio :) --ЯiottosФ 10:35, 3 set 2015 (CEST)[rispondi]

Ho recuperato un paio di link (12 e 28) con la wayback machine, l'11 non è recuperabile, ma alcune delle note che segnali sul sito della marina a me funzionanto (la 64 per esempio). In ogni caso ho salvato anche il link di archivio per queste.--Moroboshi scrivimi 11:37, 3 set 2015 (CEST)[rispondi]

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Suggerimenti di Mattesini[modifica wikitesto]

Trattando del Radar, invece di dare fiducia ad autori dalla scarsa conoscenza sull'argomento, segnalo, per arricchire la Voce con nuovi ed esaustivi elementi, quanto ho scritto, nasturalmente da tutti poi copiato,in:

"I radiolocalizzatori della Regia Marina". Parte prima: "Dalle prime sperimentazioni sulle onde elettromagnetiche alla realizzazione di Marinelettro Livorno" (p. 95-198). e Parte Seconda, "L'aiuto fornito dalla Germania" (p. 25-141), Settembre e Dicembre 1995, in Bolletino d'Archivio dell'Ufficio Storico della Marina Militare, riccamente fornito di documenti originali fotografati dagli originali.

Questo stesso Saggio, aggiornato ma per motivi di spazio riprodotto senza quasi tutti i documenti, e in compilazione per la mia pagina di Academia Edu:

Riportò di seguito il 2° Capitolo.

GLI STUDI DEL RADIOLOCALIZZATORE (RADAR) IN ITALIA

In Italia il principale precursore della tecnica del radar (radiolocalizzatore) fu indubbiamente l’inventore della radio, Guglielmo Marconi. Il grande scienziato ebbe il grande merito di aver realizzato le onde ultracorte, di aver creato cortine d’antenne a fascio direttore, e riflettori delle onde elettromagnetiche. Inoltre, nel 1922 aveva enunciato la teoria che le onde hertziane trasmesse venivano reirradiate da un ostacolo, tornando all’indietro verso la direzione di provenienza del segnale generando un eco, di cui si poteva misurare la direzione e la distanza dell’ostacolo.

Marconi, ritenendo, giustamente, che tali onde potevano essere impiegate per realizzare un radio-telemetro, tra i suoi tanti progetti che la sua mente vulcanica stava studiando, si dedicò anche alla realizzazione di quell’apparato di rilevamento. Nel 1933, con un ponte radio collegante Roma a Castengaldolfo, egli sperimentò l’irradiazione di onde elettromagnetiche da 90 cm di lunghezza su automobili e su altri ostacoli in movimento, presenti alcuni esperti militari italiani, tra i quali il generale ingegnere Luigi Sacco, tecnico di grande valore nel campo della radiotelegrafia e Capo del 1° Reparto del Genio.

Due anni dopo, nel 1935, mentre in Germania e nel Regno Unito si stava realizzando il radar, Marconi impiegando apparecchiature fornite dall’Istituto Militare Superiore delle Trasmissioni di Roma (IMST) dipendente dal Regio Esercito, fornì alla periferia di Roma, ad Acquafredda nella valle del Torrente Arrone, una dimostrazione pratica delle sue teorie e dello sviluppo dei suoi studi. Erano presenti il Capo del Governo e Capo del Fascismo cavaliere Benito Mussolini, ed eminenti esperti militari e politici italiani, che poterono assistere ad un esperimento di rilevante importanza. L’esperimento fu poi ripetuto il 17 maggio su ostacoli in movimento sulla nuova autostrada Roma – Ostia, e il giorno 20 al quinto chilometro della Via Boccea.

Ha scritto il professore Francesco Musto che “Da questi esperimenti derivò la costituzione di una Commissione Internazionale per la Radio Detector Telemetro (R.D.T.” che prese in esame, quale primo studio, quello delle ricerche delle onde hertziane svolte nel 1933 dall’ingegnere Ugo Tiberio, assistente civile dell’Istituto Militare Superiore delle Trasmissioni, al quale, come vedremo, fu affidato l’incarico di proseguire gli studi e gli sperimenti sul radiotelemetro, applicando tre progetti, ciascuno basato sui seguenti sistemi modulazione di frequenza (metodo Ampleton-Barnet), impulsi (metodo Breit-Tuve), modulazione di frequenza a coincidenza.

L’ingegnere Tiberio , già ufficiale di complemento delle Armi Navali, ai primi del 1936 aveva esposto al suo direttore, generale Luigi Sacco, l’idea di servirsi dei fenomeni di eco elettromagnetico per determinare la distanza degli ostacoli in mare, in particolare delle navi.

Poiché gli esperimenti teorici pratici, essendo suscettibili più che altro di applicazione navale, dovevano essere fatti necessariamente in vicinanza del mare, il Capo del 1° Reparto del Genio Navale interessò della questione il Comitato per i progetti delle Armi e Armamenti Navali (Marinarmi) che si dimostrò subito molto interessato al problema.

Ugualmente convincente si dimostrarono le autorità superiori della Regia Marina, poiché i concetti esposti risultavano corretti.

Pertanto, in accordo con il Ministero della Guerra, la Regia Marina, il cui Sottosegretario e Capo di Stato Maggiore era l’ammiraglio Domenico Cavagnari, ottenne di poter richiamare in servizio l’ingegner Tiberio, per poter dare subito inizio alle esperienze intese a verificare se l’idea da lui esposta fosse di realizzabile attuazione, e se potesse, in un secondo tempo, servire a fornire gli elementi necessari per realizzare veri e propri radiotelemetri.

L’esattezza dei principi formulati da Tiberio, doveva essere dimostrata durante promettenti esperienze realizzate nel 1936 presso l’Istituto di Elettromeccanica e delle Telecomunicazioni di Livorno (Marinelettro), ubicato in prossimità dell’Accademia Navale.

Tuttavia, si presentò la necessità di dover impiegare negli esperimenti anche onde estremamente corte, allo scopo di poter disporre di accentuati effetti di riflessione su ostacoli di limitata entità.

Fu questa la parte più difficile da affrontare perché, dovendosi procurare i mezzi di lavoro per costruire ricevitori e trasmettitori capaci di operare su onda cortissima, con onde inferiori al metro, occorreva disporre di tubi elettronici adatti, che l’industria nazionale non era in grado di produrre.

Ne conseguì che, poiché bisognava cercare il materiale necessario in quelle nazioni che avevano già avviato studi del genere (in particolare negli Stati Uniti e in Germania), il lavoro non poté procedere con la desiderata celerità, anche perché fu possibile ottenere soltanto quel materiale elettronico che negli altri paesi, impegnati negli stessi studi, era giudicato ormai superato.

Due grossi problemi, inoltre, si presentarono durante quella fase di sperimentazione. Marinelettro, dovendo provvedere con scarsità di personale ai vari insegnamenti di carattere elettronico presso l’Accademia Navale, poté offrire all’ingegner Tiberio solo un ristretto numero di tecnici, inducendolo praticamente a lavorare da solo, assistito nelle sue ricerche dall’esperienza degli altri tecnici dell’Istituto. Essendo Tiberio soltanto un ufficiale richiamato in servizio, avrebbe ricevuto dalla Marina, a lavoro compiuto, soltanto un modesto compenso, che non gli avrebbe consentito di provvedere al suo avvenire.

Essendo venuta a cadere la proposta avanzata dall’Ispettorato Armi Navali (Marinarmi) di creare posti di ruolo che prevedessero personale civile presso Marinelettro Livorno e condizioni economiche tali da allettare tecnici di buone capacità (il Ministero delle Finanze aveva infatti rifiutato di concedere un livello corrispondente a quello di tenente generale), il Ministero della Marina rinunciò allo sviluppo di quel progetto, ritenendo, giustamente, che non vi sarebbero state difficoltà nel reclutare elementi validi.

Fu allora deciso, come unica soluzione possibile, d’inviare l’ingegner Tiberio a far parte del corpo dei docenti dell’Accademia Navale, il cui Comando, però, prima di permettergli di dedicarsi completamente ai suoi esperimenti, volle che fosse utilizzato come insegnante. L’incarico, ovviamente, sottraeva a Tiberio una notevole quantità di tempo.

Di ciò si rese conto Marinarmi, che nel 1938 prese la decisione di far collaborare con Tiberio un’importante ditta radio di fiducia dell’ingegnere. Egli prescelse la SAFAR (Società Anonima Fabbrica Apparecchi Radiofonici) di Milano, con la quale fu stabilito un contratto che doveva portare alla costruzione di due apparecchi campione ad impulsi, da essere usati come radiotelemetri; strumenti che però, allo scoppio della guerra (10 giugno 1940), non erano stati ancora realizzati.

Il ritardo fu dovuto in gran parte alle molte difficoltà incontrate dalla Ditta SAFAR che, avendo la maggioranza del personale impegnato in importanti ricerche di natura militare, finì per chiedere i tecnici necessari per costruire il radiotelemetro di Tiberio alla Regia Marina, che però “non poté esaurire tale richiesta”.

Pertanto, oltre alle difficoltà incontrate per la mancanza nell’industria radiotecnica italiana di materiale adatto a sviluppare progetti per la costruzione di apparati idonei alla realizzazione del radiotelemetro, la maggiore difficoltà in cui l’ingegner Tiberio dovette andare incontro nel primo periodo della guerra fu costituita dall’impossibilità di avere personale altamente qualificato nel ramo radio-elettronico da impiegare a Marinelettro.

Ne conseguì che, nonostante fossero state compiute nell’istituto numerose esperienze con l’apparato EC.3, lavorante sulla lunghezza d’onda di 150 centimetri, e fosse stata creata tutta la tecnica necessario per permettere l’effettuazione della radiotelemetria – che, nei confronti della radio ricerca, imponeva la questione della precisione nella misura dei rilevamenti – la realizzazione del radar restò in Italia molto indietro rispetto alla Germania e alla Gran Bretagna.

Nel frattempo, Marinarmi aveva seguito con la massima attenzione possibile i progressi che nel settore della radio ricerca e della radiotelemetria venivano fatti in altre nazioni, a iniziare dalla Francia, ove fu possibile acquistare due apparecchi radioecometri détecteur d’obstacle, del tipo sperimentato nel 1935 sul transatlantico Normandie. Il radiotelemetro veniva quindi usato per usi civili, a scopi anticollusione, per rilevare grandi superfici riflettenti fino ad una distanza di circa 2 chilometri, e pertanto per prevenire tragedie come quella che la notte del 14-15 aprile 1912 aveva portato al tragico affondamento del transatlantico britannico Titanic, andato ad urtare contro un iceberg al largo di Terranova.

Il radioecometro, utilizzando l’effetto Doppler (modificazione della frequenza del suolo) operava su una lunghezza d’onda di 16 centimetri. Tuttavia, si trattava di un apparato alquanto primordiale che, oltre a non fornire alla Regia Marina elementi di particolare interesse, non apportava alcun contributo utile né di nuovi principi né di nuovi elementi tecnici.

Il radioecometro fu sperimentato anche dalla Regia Aeronautica nel 1937, e fu poi riprodotto su licenza dalla Ditta Allocchio Bacchini di Milano, specializzata nel ramo radioelettrico, su richiesta dell’Arma aerea, per essere sperimentato a Stresa fino al 1939, senza però fornire elementi interessanti.

Grande interesse fu anche rivolto agli studi che si svolgevano nel Regno Unito.

Nel 1937 un ufficiale della Regia Marina visitò il laboratorio dell’ingegnere Watson Watt. Egli si rese conto che lo scenziato britannico, coadiuvato da numerosi collaboratori, svolgeva la sua attività di ricerca sulla misurazione degli angoli di arrivo delle onde elettromagnetiche e sulle applicazioni degli oscillatori catodici che costituivano la base degli apparati di radiolocalizzazione, cioè il radar. Questo strumento, che l’ingegnere Watson Watt aveva già realizzato, mantenendolo segreto, e la cui costruzione era stata agevolata dal fatto che la Gran Bretagna, al pari della Germania, possedeva già tutti i mezzi di realizzazione per le onde cortissime, materia che invece in Italia era ancora allo stato teorico.

Inoltre le ricerche erano state in parte rivolte anche in altri settori, come quello dell’energia calorifica, che poi risultò essere un binario alquanto deviante. In effetti, nel 1935 il fisico statunitense P.C Mac Neil aveva presentato alla Marina italiana, tramite l’addetto navale a Londra, un apparecchio di sua invenzione, denominato Fog-eye, sensibile all’energia calorifica.

Secondo quanto l’allora Presidente del Comitato delle Armi Navali, tenente generale A.N. Antonio Pizzutti, scrisse a Marista, con lettera n. S-0883 del 1° maggio 1940, il Fog-eye aveva le seguenti caratteristiche:

L’apparecchio era costituito essenzialmente da un proiettore parabolico avente la funzione di un collettore di energia captata da una determinata direzione ed assorbita da una speciale pila termoelettrica posta nel fuoco del proiettore e a radiazioni di lunghezza d’onda compresa tra circa 1 metro e 1 metro e 40. La corrente termoelettrica tenuissima era ampliata da uno speciale amplificatore a c.c.[corrente continua] fino a 3.106 volte circa e poteva essere valutata mediante un microamperometro, ovvero regolare l’intensità del suolo reso da un oscillatore a frequenza acustica. L’apparecchio era sensibile sia ai raggi ultrarossi , sia particolarmente ai raggi di lunghezza maggiore (calore irradiante) essendo l’elemento sensibile una pila termoelettrica.

Nel mese di novembre del 1935, l’apparato Fog-eye fu presentato dall’inventore, nella sua forma provvisoria e al solo scopo dimostrativo, nel villaggio inglese di Hindeat, al delegato della RFegia Marina Ugo Ruelle. Provato sia in locale chiuso sia all’aperto, l’apparecchio rilevo “passaggi di automobili e di animali a distanza di circa 600 – 1500 metri, dei aeroplani transitanti sulla località con esiti incerti e la presenza di un fuoco, indicato dal fumo, a circa 12 chilometri di distanza”.

Nell’agosto del 1936, a circa un anno di distanza da quella prima e incoraggiante prova, il fisico Mac Neil – che nel frattempo aveva svolto un accurata messa a punto del Fog-eye, apportando alcune modifiche all’oscillatore e all’amplificatore e provandolo con proiettori di dimensioni diverse – fu invitato in Italia per eseguire a Marinelettro Livorno, una serie di esperimenti, che non dettero l’esito sperato. Ciò si verificò a causa dell’instabilità dell’apparecchio, che non riusci a rilevare i passaggi di una barca a vapore e di una torpediniera, transitati rispettivamente alla limitata distanza di circa 500 e di 1000 metri, più volte al giorno e in ore diverse.

Lo stesso Mac Neil convenne, con lealtà, che il risultato delle prove doveva considerarsi negativo, ragion per cui “in seguito alla suddetta esperienza fu concluso che l’apparecchio nelle condizioni in cui era stato presentato, non lasciava ritenere probabile alcuna sua pratica applicazione a bordo” delle navi. Gli esperimenti furono poi continuati su un apparecchio simile al Fog-eye, realizzato a Marinelettro, ma anch’essi non conseguirono risultati in funzionamento soddisfacenti.

Gli stessi risultati ebbero altre prove con apparato diverso. Nell’aprile 1937, due ufficiali italiani specializzati in radioelettrica, uno della Regia Marina e l’altro della Regia Aeronautica, furono inviati in Svizzera, dove l’ingegnere tedesco Joannes Marchall presentò un apparecchio rilevatore d’ostacoli, funzionante a radiazioni calorifere e termiche, già scartato dall’Aviazione tedesca (Luftwaffe), in quanto ritenuto di scarso interesse. Dopo una serie di esperimenti in cui l’apparato non fornì agli ufficiali italiani alcuna valida prova della sua efficienza, fu presa la decisione di troncare ogni contatto con l’inventore.

Ritornando a Marinelettro Livorno, il professor Tiberio aveva continuato gli studi, nell’intento di realizzare un radiotelemetro che fosse il più possibile capace di funzionare, senza errori, di notte e con foschia.

Data la necessità di utilizzare al più presto in guerra quell’apparato, e potendo disporre con il richiamo alle armi di una certa quantità di tecnici di valore, Marinarmi decise di inviare a Livorno alcuni ingegneri. Si trattava in maggior parte di assistenti universitari, che però secondo le direttive nel frattempo impartite da Maristat, si dedicarono per lo più alle ricerche nel settore delle armi magnetiche (siluri e mine); ragion per cui il nuovo personale affluito a Marinelettro poté fornire all’Istituto soltanto un modesto apporto per la ricerca sulla radiotelemetria, che allora, nella seconda metà del 1940, si svolgeva sugli apparati EC.3 e EC.3 bis, funzionanti con il sistema a coincidenza.

L’ingegner Tiberio, lavorando con i tecnici della Ditta SAFAR, sulla base delle esperienze iniziate nel 1937 da un suo collaboratore – il capitano delle Armi Navali Alfeo Brandimarte, il quale prima di essere assegnato ad altro incarico, aveva sviluppato un apparato ad impulsi con il sistema Breit e Tuve – nel 1939 realizzo appunto l’EC.3 funzionante su onda di 70 centimetri, con ricevitore acustico e superreazione del tipo a coincidenza. Ad esso seguì, tra il 1940 e il 1941, l’EC.3 “Gufo”, con ricevitore a supereterodina a larga banda e indicatore oscillografico misuratore.

Soprattutto questo secondo radiotelemetro diede risultati soddisfacenti, su una portata di 12 chilometri, ma sempre e solo dal punto di vista sperimentale, non essendo l’industria elettronica nazionale ancora in grado di riprodurre in serie prototipi che necessitavano di materiale d’avanguardia e di provenienza statunitense , difficilmente reperibile durante la guerra in corso.

Ha quindi perfettamente ragione l’ammiraglio Angelo Iachino, ex Comandante in guerra della 2a Squadra e poi della Squadra Navale, quando scrisse che “avendo da anni allo studio un radiotelemetro, che sfruttava gli echi delle onde elettromagnetiche, riflesse da uno scafo alla superficie del mare, la nostra marina era ancora ben lontana, nel giugno 1940, dall’aver concretato un qualunque tipo di localizzatore notturno del nemico, quale invece era già in servizio in Germania e in Inghilterra”.

Iachino era invece alquanto in errore nell’affermare che “ignoravamo completamente quanto era stato fatto in questo campo dalle altre Marine … perfino da quella tedesca, che, sempre molto riservata nelle questioni tecniche , non ci aveva comunicato nessuna notizia del suo Dete”, strumento di radiolocalizzazione che fin dal 1938 era stato installato su qualche sua nave. Ragion per cui , sostenne l’ammiraglio Iachino, “dovemmo arrivare alla tragica notte di Matapan per avere il primo sospetto sulla presenza di un radiolocalizzatore notturno sulle navi della Mediterranean Fleet”.

Dello stesso tenore di quelle di Iachino sono le testimonianze storiche lasciate dall’ammiraglio Giuseppe Fioravanzo – che durante gran parte della guerra, come capo reparto, fu in servizio a Supermarina e poi imbarcato al comando di Divisioni navali – il quale sostenne: “La Marina italiana era stata tenuta all’oscuro” degli strumenti di radiolocalizzazione realizzati in Germania, “la quale ce ne rese partecipi soltanto dopo il combattimento di Capo Matapan”.

Nulla di più inesatto, ed è mia convinzione che i due ammiragli mentivano sapendo di mentire, perché faceva comodo per giustificare ogni sconfitta, fin quando non è arrivata la mia scoperta, pubblicata sul quotidiano Il Giornale d’Italia il 9 aprile 1990.

In realtà, il radar tedesco, almeno come strumento di ricerca aerea, era invece noto in Italia fin dall’inizio della sua entrata in guerra. Negli anni successivi, avendo rintracciato negli Archivi degli Uffici Storici Militari altri documenti, e quindi nuove verità riguardo alle offerte tedesche e alle richieste italiane in materia di radiolocalizzatori, sono stato in grado di portare alla conoscenza degli studiosi altri interessanti retroscena sull’argomento pubblicando nel Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, le notizie, in due parti e ben documentate con la riproduzione dei documenti originali. Ma andiamo per ordine. ... ( segue Capitolo 3°)

DESCRIZIONE DEL RADIOLOCALIZZATORE TEDESCO (DE.TE) DA PARTE DI UNA MISSIONE DELLA REGIA MARINA RECATASI IN GERMANIA DAL 14 AL 28 GIUGNO 1940 ...

Francesco Mattesini

5 Aprile 2019

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Nonostante l’urgenza della Regia Marina di disporre a bordo delle navi di radiolocalizzatori pienamente funzionanti, da impiegare nelle operazioni belliche, fu soltanto nella primavera avanzata del 1942, con l’arrivo a Taranto da Livorno del cacciatorpediniere LEGIONARIO – messo a disposizione del Comando in Capo delle Forze Navali (nuova denominazione della Squadra Navale) – che fu possibile effettuare alcune prove di funzionamento con il radiolocalizzatore tedesco De.Te. (tipo Funkmessgerät Fu. Mo 24/40Ggl Seetakt), installato su quell’unità dal Cantiere OTO di Livorno. Su quelle sperimentazioni il 4 maggio, con lettera 05179 dall’oggetto “Sistemazione radiotelemetro sulle unità”, l’ammiraglio Iachino inviò a Maristat e, per conoscenza, a Marinarmi una favorevolissima relazione sulla sperimentazione del LEGONARIO (capitano di fregata Corrado Tagliamonte). In oltre apportava critiche così severe sul radiolocalizzatore italiano EC.3 ter "Gufo" di Marinelettro Livorno, imbarcato in via sperientale sulla sua nave ammiraglia, la corazzata LITTORIO da strocarlo senza appello, ritenendolo assolutamente insufficiente.

Nel documento, lettera 05179 del 4 maggio 1942, dall’oggetto “Sistemazione radiotelemetro sulle unità”, Iachino (in netta contrapposizione con quanto hanno scritto di completamente inesatto Enrico Cernusci e Pietro Baroni) segnalava all’Ispettorato Armi Navali (Marinarmi)quanto segue:

a) C.T. LEGIONARIO alla fonda contro R.N. DORIA in moto. Si è raggiunta la portata massima di 18000 metri, essendo questa la massima distanza a cui è stato possibile vedere ancora l’eco. Non si è avuta l’opportunità di eseguire una prova di avvistamento in seguito a ricerca sistematica, ma si può ritenere con ogni probabilità che la portata di scoperta non sia inferiore ai 14000 metri. b) C.T. LEGIONARIO alla fonda contro Torpediniera ARETUSA in moto. Si è raggiunta la portata massima di 7200 metri, dopo la quale l’eco non è stato più visibile. c) C.T. LEGIONARIO in moto contro C.T. BERSAGLIERE in moto (durante esercitazione di attacco notturno). Il bersaglio è stato rilevato al DETE quando era a 7000 metri di distanza (massima distanza a cui si è trovato il bersaglio) mentre l’avvistamento ottico è stato fatto a 5500 metri (notte lunare) esattamente sul rilevamento polare indicato da DETE. Non si è ancora avuta opportunità di eseguire una prova d’avvistamento partendo da distanze superiori ai 7000 metri, ma si può ritenere fin d’ora che la portata di scoperta del DETE su un bersaglio costituito da un C.T. tipo “Soldato” si aggiri intorno ai 7000 metri

La determinazione del rilevamento è stata sempre piuttosto buona, essendo risultati errori massimi di 5° ed un errore medio di + 1°.

I risultati ottenuti non solo confermano le ottime qualità dell’apparato DETE, ma sono anche superiori alle aspettative.

La portata massima di 18000 metri avuta contro la R. Nave DORIA è molto importante e fa pensare nuovamente al possibile impiego dell’apparato per la condotta del tiro, specialmente se, come è probabile, la portata massima aumenterà con la sistemazione dell’apparato a maggiore altezza sulle corazzate e sugli incrociatori.

Ma soprattutto è molto interessante l’esperienza fatta di scoperta notturna, in quanto ha permesso di constatare praticamente che un bersaglio navale di dimensioni anche modeste può essere scoperto dal DETE molto prima dell’avvistamento visivo che, nelle notti senza luna, non può superare generalmente i 4 o 5 km. E’ importante osservare che il rilevamento viene col DETE indicato con grande precisione, tanto che la torretta dell’A.P.G. [Apparecchio di Punteria Generale] portato in punteria a controindice può subito orientare i pezzi nella direzione del bersaglio da battere. Dato poi che l’apparato misura anche la distanza con grande precisione (dell’ordine di 200 metri circa) è possibile regolare gli alzi dei cannoni tempestivamente, in modo da aprire con rapidità e sicurezza e precisione il fuoco, non appena sia avvistato il bersaglio.

E’ ovvio il grande vantaggio che viene così assicurato alle unità provviste del DETE in confronto con quelle che devono attendere l’avvistamento ottico per iniziare le operazioni di puntamento e apertura del tiro dei cannoni.

Oltre ai buoni risultati di portata dati dell’apparato DETE, si ritiene opportuno segnalare la grande praticità con cui è stato realizzato tale strumento e che lo rende di facile e sicuro impiego. Non altrettanto si può dire, almeno per ora, del radiotelemetro sperimentale realizzato da Marinelettro Livorno ed in esperimento sul LITTORIO.

Con quest’ultimo apparato, come è stato già riferito con il foglio 04659 del 24 aprile u.s., non è stato ancora possibile raggiungere alcun risultato pratico.

Dopo aver esaminato il DETE ed aver potuto quindi apprezzare le differenze fra un apparato e l’altro, si ritiene opportuno far nuovamente presente che è assolutamente necessario apportare al nostro apparato due modifiche sostanziali, e cioè applicare la ricezione di tipo oscillografico, e diminuire fortemente la frequenza degli impulsi.

In attesa che tali modifiche siano state realizzate ed anche collaudate dalla pratica esperienza, converrà soprassedere alla costruzionedi apparati simili a quello del LITTORIO, e converrà invece cercare di ottenere dalla Germania altri apparati DETE da sistemare su altre unità dipendenti.

Francesco Mattesini

Dal Saggio di Francesco Mattesini, “I radiolocalizzatori della Regia Marina”: Parte Prima, "Dalle prime esperienze sulle onde elettromagnetiche alle realizzazioni di Marinelettro Livorno", Settembre 1995; Parte Seconda, "L’aiuto fornito dalla Germania", Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Settembre e Dicembre 1995.


I moderatori di WIKIPEDIA, se credono, possono inserire il contenuto di questa lettera nella VOCE. Questo commento senza la firma utente è stato inserito da 93.45.231.26 (discussioni · contributi).vari tra 5 ago 2019 e 09:34, 7 ago 2019‎

Ho letto attentamente il testo sopra riportato, che considero molto utile ed illuminante sotto alcuni aspetti. Non di meno ritengo che:
a) lo stesso testo non potrebbe trovare posto nella voce vista la sua attuale dimensione, mentre sicuramente andrà utilizzato nelle voci specifiche come quella del Gufo o in altre da individuare;
b) comunque, anche tenendo presenti le false considerazioni di Fioravanzo e Iachino, sicuramente parti molto interessate, niente smentisce l'ostilità di Cavagnari verso le "trappole elettriche" che peraltro non è molto diversa da quella che costrinse Marconi alcuni decenni prima a spostarsi in Inghilterra per le ricerche; e Cavagnari era se non l'unico, tra i pochi che avrebbe potuto spingere sul potenziamento della ricerca del settore; quindi il paragrafo non mi sembra inesatto, per quanto necessariamente sintetico.
Quindi sicuramente la nostra ricerca di base non era così indietro, ma lo era l'industria nazionale, anche perché di certo non vennero destinati finanziamenti e indirizzi operativi da chi era responsabile delle scelte politiche, da Cavagnari a ovviamente Mussolini per quel poco che potesse capire di questi argomenti, ma che batteva incessantemente a favore della Regia Aeronautica come arma innovativa; peccato che anche lì non furono capaci di capitalizzare le ricerche fatte, come il siluro aviolanciato di cui fummo pionieri.
Ho ripreso da poco a contribuire per cui non garantisco risultati immediati, ma cercherò di sfruttare questo materiale. Grazie intanto per averlo messo a disposizione; ah, dove sono stati pubblicati questi saggi? Ne ho letto uno sui Quaderni SISM 2019 usciti di recente, ma non sulla tecnica. Ciao. --Pigr8 La Buca della Memoria 00:36, 8 ago 2019 (CEST)[rispondi]

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Non mi sono azzardato a riportare i giudizi di Cavagnari e Iachino, circa il trespolo, perché non sono sicuri. Ho consultato migliaia di documenti nei tre uffici storici degli Stato Maggiori delle Forze Armate, e non né ho trovato nessuno che lo riferisca. Come spesso accadeva nell’immediata dopo guerra, in un clima pieno di giustificazioni, qualcuno (non ricordo chi lo ha scritto, e tutti gli altri), tranne Mattesini, lo hanno riportato con grande enfasi. Quindi starei bene attento a mantenerlo nella Voce!

Il mio Saggio sui Radiolocalizzatori italiani è un opera poderosa di ben 339 pagine, dove particolarmente importanti per togliere al lettore ogni dubbio, sono i documenti, riprodotti dall’originale. E’ un vero peccato che si reclamizzino i libri di Piero Baroni e di Enrico Cernusci, e si dia importanza a quanto ha riportato Georgerini, che conosco personalmente, che mi ha copiato letteralmente, avendo pero, ogni tanto, l’onestà di citarmi nelle note.

Quanto all’EC.3/ter “Gufo”, suggerisco di tenere in considerazione quanto disperatamente ha dovuto penare l’ammiraglio Carlo Bergamini, che nei documenti scrive praticamente che quell’apparato era qualcosa di inutile. Non vedeva nulla, come fu anche dimostrato nell’affondamento della ROMA, e quando le navi italiane raggiunsero gli Alleati una delle prime richieste fu quella di consegnarci loro radar proprio per sostituire sulle navi l’inutile “Gufo”.

Se i revisori dell’Ufficio Storico della Marina (ente ufficiale della Storia Navale Italia) avesse trovato qualcosa da ridire sulle mie tante scoperte, e per il fatto che distruggevo tutto quello che si era scritto sul “Gufo” (da Enrico Cernuschi ritenuto un Radar che tutto il mondi ci invidiava), il mio Saggio non sarebbe stato stampato dal Direttore, ammiraglio di squadra Renato Sicurezza. Per questo, quanti ce l’anno con me masticano amaro.

CEST, io posso darti le 2 riviste (ne ho una doppia copia) in cui sono gli articoli, ma dovresti dirmi come fare. Parliamoci, se non sbaglio ai il mio telefono. Cordialmente

Francesco _________________________

Si, ho il numero in un indirizzario ma ora come ora l'ho perso di vista. A breve devo riordinare per cui penso salterà fuori, altrimenti scoccerò il buon Virgilio Ilari per fare da ponte. Ovviamente sarà mia premura chiamarti tra qualche giorno, dopo il 20, perchè prima sarò offline. Con questi presupposti mi impegno a riscrivere il paragrafo della voce e anche la voce sul Gufo, fonti alla mano. Grazie da ora. --Pigr8 La Buca della Memoria 17:36, 11 ago 2019 (CEST)[rispondi]


Va ben. Nel frattempo di mando altre interessanti informazioni, sempre del mio Saggio, aggiornato: Francesco Mattesini, “I radiolocalizzatori della Regia Marina”: Parte Prima, "Dalle prime esperienze sulle onde elettromagnetiche alle realizzazioni di Marinelettro Livorno", Settembre 1995"; Parte Seconda, "L’aiuto fornito dalla Germania", Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Settembre e Dicembre 1995.


IL MANCATO RADAR ITALIANO IN GUERRA - UNO SPRECO DI ENERGIE

LE DIFFICOLTA INCONTRATE OER CERCARE DI RENDERE EFFICIENTE IL RADIOLOCALIZZATORE EC.3/TER “GUFO” SULLE UNITA' DELLA FLOTTA

IL MITO DELL’INUTILE RADIOLOCALIZZATORE ITALIANO EC.3/TER “GUFO

Le difficoltà incontrate per cercare di rendere efficiente il radiolocalizzatore EC.3/ter “Gufo” sulle unità della Flotta.

Nel mese di aprile 1943 Marinarmi ordinò all’industria meccanica Galileo di Firenze la costruzione di venti radiolocalizzatori del tipo navale EC.3/ter “Gufo” da destinare ai cacciatorpediniere in costruzione della nuova classe “Comandanti”, progettati con un dislocamento di 2.100 tonnellate e un armamento di cinque cannoni in torrette singole da 135 mm.

In tal modo, le ordinazioni di apparati Gufo destinati alla Regia Marina passarono da 50 a 60. Numero da ordinare all’industria che successivamente sali a 100 esemplari, avendo Maristat previsto di impiegare i 30 nuovo apparati Gufo per costituire una riserva e per utilizzarli, in parte, quali Rari costieri per l’esplorazione navale.[1] Al modesto numero di tre - quattro radiotelemetri al mese – che era il massimo consentito dall’industria nazionale (qualcosa d’incredibile povertà quando negli altri paesi venivano costruiti a migliaia), gli apparati Gufo vennero destinati con priorità alle unità delle Forze Navali da Battaglia del Tirreno.

Secondo un prospetto dell’Ispettorato Telecomunicazioni e Servizi Elettrici di Maristat, alla data del 2 giugno 1943 le unità della flotta fornite di radiolocalizzatore già operativo erano appena tredici, e di esse i cacciatorpediniere Legionario, Lanzerotto Malocello e Alfredo Oriani e le torpediniere di scorta Ardimentoso, Procione e Aliseo possedevano il Dete, mentre la corazzata Littorio e i cacciatorpediniere Carabiniere, Fuciliere, Velite, Leone Pancaldo, Ugolino Vivaldi e Antonio Da Noli potevano usufruire del Gufo.

Il settimo apparato Dete, consegnato dalla Kriegsmarine, che inizialmente avrebbe dovuto essere destinato su un'altra silurante, si trovava invece in corso di sistemazione sull’incrociatore Duca degli Abruzzi (nave ammiraglia dell’8a Divisione Navale a Genova); ed ugualmente in corso di montaggio erano altri dodici Gufo sulle seguenti unità delle Forze Navali da Battaglia: corazzate Roma, Vittorio Veneto, Littorio (secondo Gufo), incrociatori leggeri Scipione Africano, Attilio Regolo, Duca d’Aosta, Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli e Giuseppe Garibaldi, e sui cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco, Nicolò Zeno e Maestrale.[2]

Lo Stato Maggiore della Regia Marina avrebbe voluto, a similitudine della Marina tedesca, equipaggiare con radiolocalizzatori fin dal 2 novembre 1942 anche le unità sottili, ma fu constatato che gli apparati tipo Dete e Gufo per problemi d’ingombro e di peso, e per scarsa potenza del motore di brandeggio dell’antenna mal si prestavano ad essere installati sulle torpediniere e che non si prestavano affatto ad essere imbarcati su unità di tipo minore, come le corvette e le motosiluranti. Pertanto, il 30 aprile 1943, il Reparto Ispettorato delle Telecomunicazioni e dei Servizi Elettrici di Maristata, prevedendo che una qualsiasi richiesta fatta ai tedeschi per ottenere apparati adatti alle unità sottili avrebbe allora comportato non poche difficoltà di accoglimento, chiedeva a Marinarmi, con lettera n. 55388, di voler esaminare la possibilità di affidare a Marinelettro Livorno e all’industria nazionale lo studio di un radiolocalizzatore adatto a quella speciale necessità.[3]

Successivamente fu constatato che il nemico aveva risolto il problema, poiché su una piccola unità navale britannica catturata dalla Marina germanica e su un aereo abbattuto sull’isola di Corfù, si trovavano dislocati apparati Radar di dimensioni ridotte, molto simili al Lichtenstein imbarcato sui velivoli della Luftwaffe. Ritenendo, erroneamente, che la Kriegsmarine impiegasse anch’essa una variante del Lichtenstein sulle sue unità minori, quali le motosiluranti e i moto dragamine, il 12 giugno, con lettera 48984, l’Ispettorato delle Trasmissioni e dei Servizi Elettrici di Maristat avanzava a Superaereo la seguente richiesta.[4]

Si prega vivamente codesto Stato Maggiore di voler esaminare la possibilità di cedere quanto più presto risulterà consentito dalle proprie disponibilità due od almeno un impianto “Lichtenstein” per consentire alla Marina un più rapido orientamento sul problema qui trattato e una più sollecita soluzione di esso.

Si gradirebbe anche conoscere se codesto Stato Maggiore prevede di potere in seguito addivenire a qualche altra cessione sul totale delle forniture per le Forze Armate stabilite dalla convenzione Telefunken.

A questo proposito occorre dire che nel gennaio 1943, indipendentemente dagli accordi militari precedentemente stabiliti con la Germania, rappresentanti delle Forze Armate italiane, nelle persone del generale di divisione aerea Mario Cebrelli, del generale di divisione dell’Esercito Armando Mazzetti e del generale delle Armi Navali Carlo Matteini, avevano stipulato una convenzione con la Ditta Telefunken, rappresentata dal signor Ehrhard von Henk, per la fornitura diretta all’Italia di apparati Würzburg, Riese e Lichtenstein. Ciò costituì il primo elemento per la costituzione della Telefunken italiana che, sotto la presidenza del generale dell’Aeronautica Vincenzo Lombard, iniziò a riprodurre i Raro da assegnare all’Italia su disegni della case madre di Berlino.

Il 25 giugno la 1a Divisione Aerea di Superaereo rispondeva a Maristat facendo sapere, con lettera n. 14-A/2895, che i radiolocalizzatori impiegati sulle unità sottili della Marina germanica erano espressamente di tipo navale, quindi Dete. Era specificato che la Ditta Telefunken aveva realizzato due apparati di tipo ridotto per aerei, uno denominato “BC” da impiegare esclusivamente per la caccia notturna, avente una portata in volo variante tra i 300 metri e i 4 chilometri, e l’altro denominato “S”, per la ricerca di unità navali. Tuttavia, essendo costretto a lavorare a quota insufficiente, anche il Lichtenstein del tipo “S” risultava inadatto ad essere utilmente impiegato su un’unità sottile di superficie, poiché la portata utile dell’apparato diminuiva il suo raggio di scoperta dai 30 chilometri ottenibili in volo ai 5 chilometri ottenibili sul mare.[5]

Parallelamente a questi problemi ne sorgevano ben altri ben più allarmanti. L’EC.3/ter Gufo, sperimentato dal Comando in Capo delle Forze Navali da Battaglia della Spezia sui cacciatorpediniere Fuciliere, Carabiniere e Leone Pancaldo continuava a deludere le aspettative, soprattutto come strumento per la ricerca aerea, non riuscendo, in pratica, a percepire echi oltre i 4.000 – 5.000 metri. Di questa scoraggiante realtà l’ammiraglio Bergamini riferiva a Maristat e, per conoscenza a Marinarmi, con la lettera n. 08143 del 29 maggio 1943, che i difetti e le anomalie riscontrate erano da addebitare alla “scarsissima istruzione e addestramento del personale” e alle “frequenti avarie agli apparecchi stessi”, che inoltre avevano dimostrato di possedere caratteristiche di radiolocalizzazione di aerei “effettivamente inferiori a quelle del DETE tedesco. Quest’ultimo apparato, secondo quanto riferito dal Comandante n Capo della Flotta, disponeva rispetto al Gufo di trombe irradianti che non creavano problemi di brandeggio, avevano motori di maggiore potenza, ed anche una maggiore stabilità della piattaforma girevole, che permetteva un discreto funzionamento, anche in presenza di mare mosso e durante il tiro dei canoni.

L’ammiraglio Bergamini, dopo aver elencato minuziosamente un considerevole numero di difetti riscontrati nel “Gufo”, ed avere espresso proposte per eliminarli almeno in parte, faceva le seguenti affermazioni:[6]

Conclusione, si esprime l’opinione che il problema dei RARI delle navi per i motivi suindicati, è bel lungi dall’essere stato risolto e che occorre prendere al più presto i provvedimenti necessari per accelerare la risoluzione.

Tali provvedimenti dovrebbero essere diretti sia a migliorare la formazione del personale tecnico e del personale destinato all’impiego, sia a migliorare l’efficienza degli apparati.

Si ritiene opportuno che presso la Scuola RARI venga eseguita una serie esauriente di prove ed esperienze, con un apparato messo nelle migliori condizioni di efficienza possibili e con personale capace per accertare quali sono le reali possibilità del GUFO nei riguardi della radiolocalizzazione degli aerei.

Sulla base di questa impietosa analisi, l’ammiraglio Sansonetti incaricava l’Ispettorato Telecomunicazioni e Servizi Elettrici di Maristat di “esaminare e riferire” allo scopo di accertare quali fossero le reali possibilità dei Gufo assegnati alle unità della flotta.[7]

Nel frattempo però, con un'altra lettera del 4 giugno avente numero di protocollo 08614, l’ammiraglio Bergamini portava all’attenzione di Marinarmi un altro problema, che già in precedenza aveva segnalato : ossia quello del rinforzo delle piattaforme del Gufo sistemati sulle unità della flotta, mediante lavori che, avrebbero dovuto comportare anche la modifica dei rapporti di brandeggio degli apparati EC.3/ter Gufo. Era questa una misura che minacciava di rendere quasi completamente cieca la flotta nel momento critico in cui si attendeva lo sbarco degli anglo-americani sul territorio metropolitano (invasione della Sicilia o della Sardegna), poiché, come riconosceva lo stesso ammiraglio Bergamini, i Gufo dovevano essere smontati dalle navi per lavori da svolgersi necessariamente a Firenze, presso la Ditta Galileo. Ciò avrebbe comportato un ritardo nella sistemazione dei radiotelemetri, la cui assenza era particolarmente sentita sulle navi da battaglia, in vista della possibilità di affrontare un combattimento conclusivo col nemico.[8]

Ma i guai per mettere a punto un efficace radiolocalizzatore di costruzione nazionale, da impiegare con il maggior profitto a bordo delle Regie Navi, continuava a presentarsi ad ogni livello.

Il 5 luglio, con lettera n. 24673, Marinarmi comunicava a Maristat che la ditta SAFAR aveva sviluppato un riflettore unico parabolico da sistemare sull’apparato Gufo in sostituzione della doppia tromba irradiante; tale riflettore aveva il vantaggio di una costruzione più solida e di minore peso, e quindi permetteva di impiegare una minore potenza per il brandeggio, nonché un “aumento della superficie captante” e “conseguente aumento di portata” di scoperta prevista del 30%. Marinarmi prospettò di sistemare il primo esemplare del nuovo apparato, già pronto in ditta, in quanto ne sarebbero risultate agevolate le sperimentazioni. Queste ultime effettuate presso la SAFAR, dettero invece esito negativo riguardo alla possibilità di adottare il riflettore per gli apparati Gufo già costruiti e sistemati sulle navi della flotta.[9]

L’Ispettorato Telecomunicazioni e Servizi Elettrici, mentre invitava Marinarmi, con lettera n. 63935 del 27 luglio 1943, e a continuare sollecitamente le prove nell’intendimento di adottare lo specchio unico sui nuovi Gufo da introdurre in servizio, dimostrò anch’esso per il Gufo lo stesso scetticismo espresso il 29 maggio dall’ammiraglio Bergamini. Marinarmi sostenne infatti che le deficienze segnalate dal Comandante in Capo delle Forze Navali da Battaglia continuavano ad essere “confermate dai collaudi successivi e delle relazioni dei Comandanti di bordo” delle sue navi.

Di fronte alle difficoltà incontrate sul funzionamento del Gufo, sopravvalutato in Italia nel dopoguerra, per evidenti motivi di prestigio – e che ancora oggi autori come Enrico Cernuschi[10] e Piero Barone[11] continuano ad apprezzare riuscendo a convincere gli ignari – il 5 agosto 1943, alla vigilia dell’armistizio, Supermarina, con la nota interna numero 22731, faceva presente a Maristat la necessità urgente di sistemare sulle unità delle Forze Navali da Battaglia i più efficaci apparati “Dete”. Ossia gli apparati tedeschi che erano stati installati da alcuni mesi, con ottimi risultati, sulle torpediniere Ardimentoso, Procione e Aliseo. L’Organo Operativo dell’Alto Comando Navale avanzò la raccomandazione di adottare la soluzione più rapida per la messa a punto del Dete sulle navi che sarebbero state prescelte dal Comando in Capo delle Forze Navali da Battaglia.

L’armistizio dell’8 settembre non permise di sviluppare questo programma.


Conclusioni

OMISSIS


Sulle cause della inferiorità italiana nel campo della radio ricerca, il professor Tiberio è stato molto chiaro scrivendo:[12]

a) La assai scarsa organizzazione di ricerche radio, che esisteva in Italia prima della guerra, ha consentito di individuare in tempo utile la nuova possibilità, ma è arrivata a realizzare con ritardo gli apparati efficienti [sic].

b) una organizzazione “adeguata” avrebbe consentito di arrivare molto prima a radar efficienti e di entrare in guerra con una prima preziosa dotazione di apparati; inoltre si sarebbe potuto avviare subito la “guerra elettronica” con intercettatori, disturbatori ecc.;

c) non sarebbe stati però comunque possibile contrastare in modo efficace la colossale produzione americana, nel secondo tempo della battaglia del radar.

In conclusione, pur avendo realizzato in prototipo vari apparati adatti a tutte le necessità delle Forze Armate, da impiegare nella scoperta, nella condotta del tiro contraereo, nella guida caccia e nella caccia notturna, per tutto il periodo della guerra l’industria nazionale non fu in grado di rendere operativi i propri radiolocalizzatori, ad eccezione del tipo navale EC.3/ter “Gufo” del maggiore ingenere Alfeo Brandimarte. Tuttavia, l’apparato derivante dai primi prototipi dell’ingegner Tiberio fin dal 1935 a Marinelettro Livorno, non essendo stato messo a punto dalla Ditta SAFAR che li costruiva, all’atto pratico, montato sulle unità navali, si dimostrò un autentica delusione.

FRANCESCO MATTESINI


[1] AUSMM, Ispettorato Telecomunicazioni e Servizi Elettrici, cartella 21.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] ASMAUS, SIOS, cartella 1.

[6] AUSMM, Ispettorato Telecomunicazioni e Servizi Elettrici, cartella 21.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Nel 1994 un volenteroso Errico Cernuschi, conoscendo l’argomento del radar EC.3/ter “Gufo” soltanto per aver letto libri e articoli al massimo imprecisi, sollevando molte proteste in coloro che invece i difetti del “Gufo” li conoscevano, in un supplemento di una Rivista militare (stampato contemporaneamente ad un mio saggio sullo stesso argomento sul Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare) descrivendo il “Gufo” come una meraviglia, orgoglio nazionale, arrivò a scrivere che gli anglo – americani ce lo invidiavano. Leggendo i documenti dei Comandanti della Squadra Navale, ammiraglio Iachino e soprattutto quelli di un disperato ammiraglio Bergamini, riprodotti in originale nel mio saggio, il “Gufo”, non percepiva nulla, se non a brevissima distanza, e non sempre riusciva a dare esattamente le distanze di un bersaglio aereo o navale.

[11] Piero Baroni, La guerra dei radar. Il suicidio dell’Italia (1935-1943), Greco e Greco, 2007. L’Autore, avendo letto il mio Saggio stampato dal Bollettino d’archivio della Marina Militare nel settembre e dicembre 1995, evidentemente non ci ha capito nulla dando versioni al di fuori della grazia di dio, oppure, per un certo motivo discutibile non accetta quanto di logico ho scritto, ben documentandolo.

[12] Ugo Tiberio, Sullo sviluppo delle cognizioni radar italiane durante la guerra, Rivista Marittima, aprile 1951, p. 47.

_______________________________

Ho appena avuto il tempo di leggere la relazione. Raggelante. Mi metterò al lavoro appena possibile ma comunque mi servono le fonti, quelle fonti che evidentemente sono citate nei pezzi inseriti. --Pigr8 La Buca della Memoria 12:55, 13 ago 2019 (CEST)[rispondi]


NOTE INSERITE - Buon Ferragosto


Riporto, in forma originale, la lettera con cui l’ammiraglio Carlo Bergamini denunciava le innumerevoli avarie che si riscontravano sul radiolocalizzatore EC.3/ter “Gufo”, e la sua praticamente negativa possibilità operativa sulle navi della Flotta. Ritengo che queste sue dichiarazioni diano un colpo mortale a tutti coloro che hanno scritto nel corso degli anni tutto il bene possibile su quel mediocrissimo radiolocalizzatore. Dato che la Telefunken stava collaborando alla costruzione di radar in Italia, sarebbe stato meglio, lasciando perdere in quel momento difficilissimo per l'Italia il prestigio nazionale, che ogni sforzo, in particolare nella difesa aerea, fosse dedicato alla costruzione dei meravigliosi apparati tedeschi, di cui la Telefunken forniva i disegni alla Regia Aeronautica. Se poi non si riusciva, nonostante il trascorrere degli anni, non si riusciva a mettere un radar che Alleati e tedeschi costruivano a migliaia, bene allora, mi azzardo a dire, che ci sarebbe da discutere sulla scarsa attività a quel lavoro dei tecnici italiani e dell'industria elettronica italiana. Quando l'ammiraglio Iachino vide all'opera il primo "Gufo", esprimendo una fase dal significato "toglietimi dai piedi questo trespolo", adesse se ne capisce la ragione.

COMANDO IN CAPO

FORZE NAVALI DA BATTAGLIA

R.N. “ROMA”

Indirizzo telegrafico: NAVE ROMA per F.N.B.

Bordo, li 29 Maggio 1943-XXI

Prot. N. 08143

Segreto

A MARISTAT N.A.

e, per conoscenza:

MARISTAT I.T.E.

MARINARMI ROMA


1°) L’esperienza fatta in questi primi mesi con gli apparati GUFO del FUCILIERE, del CARABINIERE e del PANCALDO, ha dimostrato che, nelle attuali condizioni degli apparati e del personale, il rendimento dei GUFO è molto scarso. Sino ad ora, mentre nella radiolocalizzazione di unità navali si è avuto, sebbene sporadicamente, qualche risultato favorevole, nella radiolocalizzazione degli aerei non si è avuto, in pratica, nessun risultato utile. Recentemente sono state eseguite dal CARABINIERE e dal FUCILIERE, alla fonda vicino alla diga di La Spezia, ed in navigazione, varie esercitazioni con l’intervento di aerei di vario tipo, grandi e piccoli, e tutto ciò che si è riusciti ad ottenere è stato, un paio di volte, qualche eco a distanza non superiore a 4000-4500 metri, per brevissimo tempo e subito scomparso.

2°) Il cattivo rendimento dei GUFO dipende da due cause:

1. – scarsissima istruzione ed addestramento del personale;

2. – frequenti avaria agli apparati.

Ciò, naturalmente, oltre alle intrinseche possibilità dell’apparato (quando in perfetta efficienza ed impiegato da personale addestrato), sulle quali non si è ancora in grado e esprimere una fondata opinione, dato che in conseguenza dei due motivi suddetti non è stato possibile eseguire, sino ad ora, una serie esauriente di prove. Tuttavia ci si va formando l’opinione che le possibilità del GUFO nella radiolocalizzazione di aerei siano effettivamente inferiori a quelle dei DETE e che ciò possa dipendere in parte, dalla forma del diagramma di irradiazione delle trombe.

3°) Nei riguardi del personale, si è riferito in merito con il foglio 05665 in data 11 aprile c.a. diretto a Maristat I.T.E.. Riassumendo, il personale, che sino ad ora è stato proposto all’impiego del GUFO, non è sufficientemente addestrato all’impiego dell’apparato, né ha la preparazione tecnica, non solo per riparare le avarie, ma neppure, nella maggior parte dei casi, per localizzarle.

Questo S.M., con il dispaccio 1954 in data 13/7/43 [sic], ha già impartito le opportune disposizioni per eliminare gli inconvenienti lamentati nei riguardi del personale ed il loro inquadramento; si esprime il parere che occorra anche potenziare maggiormente la Scuola RARI, fornendo soprattutto dei mezzi indispensabili per eseguire l’addestramento alla radiolocalizzazione degli aerei, che è la più difficile e la più importante.

Sempre nei riguardi del personale, bisogna aggiungere che attualmente non vi è, neppure presso le principali sedi di lavoro, personale tecnico capace di localizzare e riparare le avarie che frequentemente si verificano agli apparati, motivo per cui, si è costretti, alla più piccola avaria che si verifica, a chiedere l’intervento di tecnici di Marinelettro o delle Ditte costruttrici, con gli inconvenienti (ritardo ecc.) che ne derivano.

4°) Nei riguardi dell’efficienza degli apparati, si elencano qui di seguito gli inconvenienti che più frequentemente si verificano, con la causa che li produce, nei casi in cui essa è nota.

a) Moltissime avarie sono dovute all’inefficiente sospensione elastica delle apparecchiature, le quali sono quindi soggette a continue vibrazioni ed a forti sollecitazioni meccaniche quando si spara con le artiglierie di bordo. Ciò si verifica specialmente alla colonnetta di comando, la quale, durante il tiro, ed anche nelle rapide accostate delle navi, compie fortissime oscillazioni che compromettono il funzionamento delle apparecchiature.

b) Molte altre avarie sono dovute al fatto che per un buon funzionamento dell’apparato e necessario avere tensioni ben stabilizzate, mentre invece il gruppo FIMET spesso non riesce a stabilizzare la tensione di alimentazione. Tale gruppo è stato sistemato, sino ad ora, rigidamente, senza alcun riguardo per il delicato congegno dei relais.

c) La piattaforma girevole O.G. di sostegno delle trombe, essendo soltanto imperniata al centro, subisce, durante i tiri, forti escursioni verticali, di cui risentono il trasmettitore ed il ricevitore. In qualche caso, si è verificato che la piattaforma medesima è rimasta deformata e bloccata.

Risulterebbe a questo Comando in Capo che l’O.G., avendo già constatato il suddetto inconveniente, ha preso la decisione di sistemare alla periferia della piattaforma girevole degli aggrappamenti, di cui i nuovi apparati, in corso di consegna, sono stati già muniti. Occorre che anche gli apparati già sistemati vengano muniti al più presto di detti aggrappamenti.

d) Nei riguardi dell’inconveniente già noto che le trombe, in presenza di vento relativo di velocità superiore ai 20 m/s non brandeggiano, non risulta che siano già stati presi i provvedimenti necessari per eliminarlo.

Si ritiene necessaria una maggiore potenza del motore di brandeggio, tenendo conto anche del sovraccarico dovuto alla passerella circolare fissata alla piattaforma girevole.

e) Durante l’esercizio, gli oscillatori a cavità hanno manifestato i seguenti inconvenienti:

- scarsa durata di funzionamento (50 – 60 ore al massimo di funzionamento);

- squilibrio delle due ampolle;

- frequente bruciatura del filamento di una delle due ampolle;

- lunghezza d’onda variabile entro limiti superiori a quelli stabiliti.

f) Il bocchettone per l’innesto dei dipoli sulle casse stagne non riescono a bloccare i dipoli, dando luogo a falsi contatti ed a ossidazioni interne.

g) Le spine maschio per l’innesto dei dipoli si spezzano con facilità, perché di costruzione poco solida.

h) Si verificano sovente falsi contatti tra la morsettiera del ricevitore e del trasmettitore a quella delle rispettive cassette stagne. Tale avaria si riscontra per effetto delle sollecitazioni meccaniche dovute ai tiri.

i) Gli strumenti di misura della Ditta Bacchini, sempre a causa dei comenti a cui sono soggetti, si starano dando scarso affidamento nelle letture eseguite.

k) Le valvole RCH 4 Philips variano le proprie caratteristiche dopo poche ore di lavoro. Ciò è forse dovuto, in parte, all’instabilità delle tensioni.

Le valvole 955 Fivre si esauriscono dopo poche ore di funzionamento; la costruzione del loro tubo in vetro è debole.

l) Nel pannello della base tempi si notano falsi contatti negli zoccoli a bicchiere delle valvole EL 3 che danno luogo alla sparizione del cerchio sul tubo a raggi catodici.

m) Col riscaldamento dovuto al funzionamento, il diretto si sposta continuamente verso destra rendendo impossibile, dopo qualche tempo, l’azeramento.

n) Falsi contatti di massa nel trasmettitore provocano saltuariamente lo sdoppiamento del diretto.

o) Falsi contatti si riscontrano anche nei turaccioli protettivi del gruppo FIMET.

p) Le sicurezze disposte su i portelli dell’apparato spesso sono difettose ed interrompono il funzionamento. Il personale è costretto a volte ad adoperare accorgimenti provvisori (eliminazione delle sicurezze corto circuitandole sulla morsettiera del 4° ripiano dell’alimentatore), molto pericolosi per la sicurezza del personale stesso.

q) Le trombe irradiano in parte anche posteriormente, producendo echi di ostacoli che si trovano dalla parte opposta e diminuendo l’energia irradiata utile. (Questo fenomeno si sarebbe verificato sul CARABINIERE, ma non si è in grado di assicurare che le coste stanno proprio nel modo suddetto).

r) Per il funzionamento dell’apparecchio, l’operatore deve compiere alcune manovre molto incomode che vanno tutte a danno della precisione e della prontezza, specialmente in caso che si stiano battendo bersagli aerei. Sarebbe opportuno che l’illuminazione della scala delle distanze fosse comandata da un pedale invece che dallo apposito interruttore sistemato sul pannello di comando. Bisognerebbe anche migliorare la fosforescenza della scala e degli indici di brandeggio.

s) Le unità che hanno sistemato il GUFO, non sono state dotate degli indispensabili materiali di rispetto e strumenti di misura, controllo e lavoro. Risulterebbe che Marinelettro Livorno ha già da tempo proposto al Ministero il materiale di cui le unità dovrebbero essere dotate. Occorre che anche a questo Comando in Capo venga assegnato il minimo di materiale indispensabile per uso dell’Ufficiale A.N. e dei sottufficiali specialisti (non ancora assegnati) addetti al servizio RARI.

Si allega un elenco del materiale che si propone di assegnare a tale scopo. [omesso]

5°) Concludendo, si esprime l’opinione che il problema dei RARI delle navi, per motivi sopraindicati, è ben lungi dall’essere stato risolto e che occorre prendere al più presto i provvedimenti necessari per accelerarne la risoluzione.

Tali provvedimenti dovrebbero essere diretti sia a migliorare la formazione del personale destinato all’impiego, sia a migliorare l’efficienza degli apparati.

Si ritiene inoltre opportuno che presso la Scuola RARI venga eseguita una serie esauriente di prove ed esperienze, con un apparato messo nelle migliori condizioni di efficienza possibili e con personale capace, per accertare quali sono le reali possibilità del GUFO nei riguardi della radiolocalizzazione degli aerei.


IL COMANDANTE IN CAPO

F/to Bergamini


N.B.: La riproduzione fotostatica in forma originale del Documento si trova nella Parte Seconda del mio Saggio "I radiolocalizzatori della Regia Marina", stampato in Bollettino d'Archivio dell'Ufficio Storico della Marina Militare, Dicembre 1995, pagine 128- 132. Bergamini rincarò la dose delle sue lamentele facendo alcune richieste urgenti per mettere a punto le piattaforme dei "Gufo", per i cui proccedimenti Marinarmi invito Marticost a provvedervi con urgenza: pagine 133-134.

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