Discussione:Mancata difesa di Roma/Testo attribuito a "Francesco Mattesini"

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FRANCESCO MATTESINI - LA DIFESA DI ROMA


I COMBATTIMENTI DI PORTA SAN PAOLO. Uno degli episodi rievocativi dell’8 settembre 1943, esaltato nelle cerimonie militari come uno dei più drammatici e gloriosi di quei giorni, è quello della difesa di Roma, ed in particolare dei combattimenti di Porta San Paolo, avvenimento considerato, per la presenza di civili armati (sic), come il primo episodio di resistenza ai nazi-fascisti. In realtà, fu proprio nella zona di Roma, ove tutto era stato approntato per opporre una stregua resistenza alle truppe germaniche, che il disastro dell’8 settembre raggiunse da parte italiana un alto livello di mancanza di combattiva, perché la situazione delle forze contrapposte intorno alla capitale vedeva la sera dell’8 settembre una netta supremazia italiana in uomini e mezzi di ogni genere. Il disastro avvenne per la mancanza assoluta di un piano d’attacco e di ordini tempestivi da parte del Governo e degli Stati Maggiori delle Forze Armate, a cui si aggiunse la latitanza dei capi, fuggiti verso Pescara al seguito del Re Vittorio Emanuele III, e la sopravvalutazione della forza dell’avversario da parte dei servizi d’informazione, ragion per cui le azioni delle unità del Regio Esercito risultarono ovunque frammentarie e inefficaci. In tali condizioni la reazione tedesca, prontamente ordinata da Hitler e sviluppata tramite le direttive del Quartier Generale del Führer (O.K.W.), sebbene fosse stata prevista fu tempestiva e colse di sorpresa gli italiani, con conseguenze inimmaginabili per il loro prestigio militare. Il documento che segue, con numero di protocollo 73166/Z (che noi abbiamo utilizzato in forma sintetica nell’opera “La Marina e l’8 Settembre”, I Tomo (Ufficio Storico della Marina Militare, 2002) , è una inequivocabile conferma del mito della difesa di Roma. La sua compilazione, senza alcuna firma, è stata attribuita al Colonnello di S.M. Murra. Il 7 settembre 1944 il documento, dalle considerazioni particolarmente impietose, fu inviato dal generale Silvio Rossi, Capo dell’Ufficio Informazioni del Comando Supremo, al Ministero della Guerra e allo Stato Maggiore del Regio Esercito, con Oggetto “Note sulle giornate dell’8, 9 e 10 settembre a Roma”. Lo si riporta di seguito in forma integrale, con alcuni omissis per non appesantire la lettura, e con alcune nostre doverose precisazioni in parentesi:

“Fra le disposizioni prese per la difesa stessa [di Roma] vi era quella di concentrare il coordinamento della medesima nelle mani del Generale CARBONI, Comandante del Corpo d’Armata corazzata, togliendosi così praticamente ogni funzione al Generale BARBIERI, comandante della Difesa Territoriale. Il dislocamento delle forze, alla sera dell’8, era quella di un arco di cerchio nel quale si succedevano, a partire dal mare (località Magliana) le divisioni Granatieri di Sardegna, Centauro, Piave, Sassari. La divisione Ariete era disposta davanti alla piana, tra Bracciano e Viterbo. Lo schieramento più debole era quello tenuto dalla divisione Granatieri di Sardegna, che aveva di fronte le truppe paracadutiste [2a Divisione]. Il Generale Carboni nella notte dell’8 diede ordine pertanto che il Reggimento Corazzato Montebello [rinforzato da un gruppo d’artiglieria semovente] fosse distaccato dalla divisione Ariete, in appoggio ai Granatieri di Sardegna. Nelle prime ore della notte sul 9, i tedeschi attaccarono i tre punti: a Bracciano [con la 3a Panzer Grenadieren], a Monterotondo [con un battaglione paracadutisti], alla Magliana [con la 2a divisione paracadutisti]. La divisione Ariete resiste a Bracciano contrattacca e infligge al nemico gravi perdite, cosicché questo s’immobilizza e desiste dagli attacchi. A Monterotondo la situazione è in complesso buona. Nella mattinata del 9 vengono colà mantenute forze di rincalzo. Nelle prime ore del 9 mattino giunge alla Divisione Ariete l’ordine di spostare su Tivoli circa metà delle proprie forze [in quella zona transitava il Re in fuga con il suo tristissimo seguito di pavidi personaggi militari]. Tale ordine viene integrato più tardi da un altro ordine dato [dal generale Roatta, Capo di S,M. dell’Esercito, che non lo firmò per la fretta di scappare dietro il Re] all’intero corpo motorizzato di concentrasi su Tivoli…. “ Dal canto suo [Roatta], non prendeva nessun provvedimento diretto a fronteggiare l’urto tedesco che si accentuava a Monterotondo e alla Magliana, né riportava da Tivoli forze sul fronte di Bracciano – Viterbo. Intanto la pressione dei paracadutisti si accentua alla Magliana e, sulla base di un ordine che finora non si è potuto appurare da che parte venisse, i nostri cedono il caposaldo. Il Generale Solinas [Comandante della Granatieri] ordina successivamente di occupare tale caposaldo, il che viene fatto con gravi perdite che costringono i nostri a ritirarsi nuovamente. La battaglia si svolge nell’abitato nei pressi della piramide di Caio Cestio. Si svolgono scene di panico fra la popolazione, che fugge da tutte le parti, non senza aver prima saccheggiato i Mercati Generali ed urla ai soldati di desistere dalla resistenza. I nostri soldati, dall’altra parte sono sistemati in posizione svantaggiosa. I carri armati vengono presi d’infilata sulla via Ostiense e fatti saltare [dai cannoni controcarro e a carica cava dei paracadutisti]. In questa situazione la resistenza dei nostri si spezza. Comincia la fuga disordinata. E’ da notare fra l’altro il pessimo comportamento della P.A.I. [Polizia Africa Italiana] e di un Battaglione di Allievi Carabinieri, mandati di rinforzo. A Monterotondo la situazione è ugualmente grave. Contro le nostre forze i paracadutisti tedeschi hanno il sopravvento ponendole in fuga. I tedeschi approfittano di questi successi che aprono loro la via di Roma, rinnovano le proposte di armistizio… Intanto sul fronte dei Granatieri di Sardegna, la fuga diventa generale. Lo stesso succede a Monterotondo. I tedeschi capiscono la situazione ed hanno buon gioco per chiedere condizioni molto dure, tra le quali il disarmo delle nostre truppe. [Il maresciallo] Caviglia [lasciato a dirigere la difesa di Roma dopo la fuga per Pescara di tutti glia altri principali Capi Militari al seguito del Re] rifiuta simili condizioni e rompe le trattative. Contemporaneamente, viene dato ordine alla Divisione Ariete di spostarsi da Tivoli e di portarsi alla Magliana per prendere i tedeschi a tergo. Ma è ormai troppo tardi:le nostre forze si sono completamente liquefatte e non c’è altra possibilità di quella di riprendere e concludere le trattative…. Nei giorni 10 e 11, sia per disintegrazione spontanea, sia in applicazione delle clausole di armistizio, si compì la dissoluzione di tutte le forze italiane. Gli ufficiali si misero in borghese, dei soldati alcuni saccheggiarono i depositi, altri presero la campagna, abbandonando armi, stellette e, quando potevano l’uniforme…. Così si chiudeva una tragedia nella quale 50.000 uomini ben armati [in realtà difendevano Roma quasi 90.000 uomini] con 420 mezzi, con oltre 10.000 automezzi, carri, artiglieria leggera e pesante, cedevano il passo a meno di 15.000 uomini, tagliati fuori dalle loro linee di rifornimento, quasi del tutto privi di artiglieria; privi del tutto di aviazione. Cause prossime e remote restano tuttora da ricercarsi, ma saltano agli occhi del semplice cronista alcuni elementi ed alcune responsabilità: citiamo la subitaneità della fuga, la carenza dei Comandi centrali, l’esitazione d’animo e di propositi da parte del Generale Calvi [Comandante della non impegnata Divisione corazzata “Centuaro” lasciato da Roatta a dirigere la difesa della capitale]. Questo per quel che riguarda la truppa: Ufficiali e Soldati mancanza di coraggio di spirito di sacrificio, una sopravvalutazione delle forze nemiche, un’abietta paura del tedesco. In questa situazione i Capi non avevano fiducia nella propria truppa, non l’avevano nei Capi. Un movimento errato, quale fu il concentramento su Tivoli, lasciò scoperta Roma, compromise l’attuazione tattica e strategica. Ma anche con questa la situazione sarebbe potuta essere ristabilita, se capi e gregari avessero avuto in queste giornate, nel cuore e nella mente, l’Italia. Se invece della parola armistizio che risuonava fin dalla sera dell’8 negli animi di tutti col monito “Torniamo a casa” fosse echeggiato in ciascuno o nei Capi il comando “O si vince o si muore” l’onore delle nostre armi e l’interesse della nostra Patria non avrebbe ricevuto un colpo gravissimo forse mortale.”


LE FORZE IN CAMPO E I COMBATTIMENTI A NORD DI ROMA. Aggiungo come furono visti da parte tedesca i combattimenti che la 3a Panzergranatieren sostenne a nord di Roma contro le truppe italiane, in particolare la divisione corazzata Ariete, iniziando dal confronto delle forze in campo Secondo i dati più recenti, la situazione delle forze tedesche impegnate intorno a Roma era la seguente. Vi erano, a disposizione dell’11° Corpo Aereo della Luftwaffe (Fliegerkorps) due grandi unità: la 2^ Divisione paracadutisti, dislocata a Pratica di Mare con due soli reggimenti (il terzo era a Foggia), e quindi con non più di 8-9.000 uomini, quasi interamente appiedati ed armati soltanto con armi controcarro; e la 3a Divisione Granatieri Corazzata (Panzer Grenadieren), rinforzata con il 3° battaglione della 26a Panzer, costituito da circa 60 carri armati efficienti (tipo III e IV) su 95 in carico, denominato gruppo Busing (dal nome del colonnello comandante), e che disponeva, quale proprio armamento pesante, di 37 cannoni d’assalto da 75 mm (sui 42 in carico) su scafo del carro tipo III, e da artiglieria che comprendeva un gruppo di 18 cannoni semoventi. Vi era infine un altro gruppo di artiglieria da 105 mm, con 11 semoventi Marder, dislocato a Frascati per la difesa dei principali Comandi tedeschi, quello Superiore del Sud (O.B.S.) dipendente dal feldmaresciallo Albert Kesselring, e quello della 2a Flotta Aerea (Luftflotte 2.) agli ordini del feldmaresciallo Manfred von Richthofen. In conclusione, complessivamente i tedeschi disponevano inquadrati nei reparti d’impiego di 25.033 uomini, 71 carri armati, 54 cannoni semoventi, 196 veicoli blindati, 165 cannoni, 74 mitragliere da 20 mm. Da parte italiana, secondo il prospetto ”Entità, mezzi corazzati e artiglierie delle forze italiane dislocate intorno a Roma”, inviato alla Commissione d’Inchiesta per la mancata difesa della Capitale (Archivio Ufficio Storico dell’Esercito, Raccoglitore 2888), la situazione era la seguente.

“Forze inquadrate nella grandi unità: Uomini 72.300; Mitragliere da 20 mm. 146; Artiglierie 610, di cui 556 di piccoli calibri, 50 di medi calibri e 4 di grossi calibri; Mezzi corazzati 430, compresi 354 tra carri armati e semoventi, 76 autoblindo, e 18 camionette armate. Forze non inquadrate nelle Grandi Unita: tra l’altro il 4° Reggimento Carri, i RR.CC., la R.G.F., la P.A.I., ecc. Uomini 22.531; Mitragliere da 20 mm. 31; Artiglierie c.c. 18; Mezzi corazzati 107, compresi 62 carri armati, 11 cannoni semoventi, 16 autoblindo, 18 camionette armate.” Tra i mezzi corazzati erano inclusi quelli della Divisione corazzata Centauro (ex divisione “M” – Mussolini), che si trovava acquartierata nella zona di Tivoli, ma che non venne impiegata nei combattimenti. Pur essendo considerata come unità scarsamente affidabile per i suoi soldati in gran parte ritenuti ancora fascisti, avrebbe potuto avere un forte peso nella difesa di Roma. A scanso del suo modesto organico di 5.500 uomini, la divisione corazzata era equipaggiata con 45 carri armati, 36 cannoni semoventi, 72 cannoni, 40 mitragliere da 20 m/m. nonché parecchi mezzi cingolati e da trasporto. Facevano parte dell’armamento 12 carri armati Pz. III, 12 carri armati, Pz. IV, 12 cannoni d’assalto su scafo Pz. III, 24 cannoni da 88 mm., 150 mezzi cingolati per trasporto fanteria e traino d’artiglieria, nonché mitragliere e lanciafiamme. Si trattava di materiale moderno e potente (fornito a Mussolini, per la sua protezione, dal Comandante della Luftwaffe, maresciallo Göring), che in quel momento era rimpianto da Hitler che temeva potesse essere impiegato dagli italiani contro le proprie truppe. Alle forze, citate nel documento, vanno aggiunte le 42 batterie d’artiglieria della cintura contraerea difensiva della capitane (almeno 200 cannoni), con i loro serventi, alcune delle quali furono impiegate in funzione anticarro nei capisaldi della divisione Granatieri di Sardegna. Inoltre negli aeroporti di Roma e viciniori era stata raccolta tutta la residua massa di aerei offensivi moderni a disposizione della Regia Aeronautica, quantificata in 150 caccia, senza contare i velivoli di altro tipo, non meno di 100. Questi aerei, con l’appoggio indispensabile di 100 aerei da caccia Spitfire britannici e P. 40 statunitensi da far atterrare a Ciampino, a partire dalla sera dell’8 settembre dovevano proteggere la Capitale da incursione degli aerei tedeschi, nonché l’arrivo per via aerea dei paracadutisti della 82a Divisione statunitense e, per via mare, con quattro mezzi anfibi, di 100 cannoni controcarro e 16 carri armati da sbarcare, risalendo il fiume, tra la Foce del Tevere e Roma. Arrivo di uomini e mezzi, da mettere a disposizione del generale Carboni, che fu sospeso all’ultimo momento perché il maresciallo Badoglio, sentito il parere dello stesso Carboni, commettendo un errore di cui poi si sarebbe amaramente pentito, fece capire agli Alleati di non essere in grado di difendere gli aeroporti e l’area di sbarco alla Foce del Tevere, prima dei quattro giorni che riteneva necessari, dopo la proclamazione dell’armistizio, per completare le difese di Roma. Ciò avveniva intorno alle ore 18.00 dell’8 settembre, quando dagli aeroporti della Sicilia erano già decollati, diretti a Roma, 62 aerei C. 47 sui 135 che trasportavano, quale prima unità della 82a Divisione, il 505° Reggimento paracadutisti, e che all’ultimo momento furono richiamati, avendo gli italiani fatto conoscere di non essere in grado di difendere le zone di atterraggio. Se poi, si aggiungevano gli uomini delle Scuole (Cecchignola, Ceccano ecc.) e delle forze di polizia e ausiliarie (escludendo vigili urbani e pompieri), i contingenti dell’Aeronautica e della Marina ecc., si può ritenere che, anche senza le forze degli Alleati, fossero presenti nella zona di Roma non meno di 120.000 uomini.


LA 3a PANZER GRENADIEREN NELLA BATTAGLIA DI ROMA. La 3a Panzer Grenadieren, che era stata ritirata dal fronte russo per fronteggiare le esigenze sul fronte italiano, era dislocata nella zona di Orvieto, dove era stata fermata, dopo la caduta del fascismo, nella sua marcia verso la Calabria. La sua unità da combattimento più temibile, aggiunta in rinforzo, era Il Kampfgruppe “Busing”, costituito dal 3° battaglione carri del 26° Reggimento corazzato della 26^ Panzer Division che si trovava in Calabria. Il battaglione aveva un organico di 3 carri comando e 33 carri armati tipo Pz III, armati con cannone corto da 75/24, e da cinquantanove carri Pz IV, armati con cannoni lunghi da 75/48. Di questi 95 carri ne erano disponibili soltanto una sessantina. I mezzi efficienti della 3a Panzer Grenadieren vera e propria erano costituiti da 3 carri comando tipo Pz III, da 37 cannoni d’assalto Sturmgschutz, su scafo Pz. III, armati con cannoni lunghi da 75/48, su 42 in organico. Vi erano poi 159 mezzi da combattimento semicingolati, in generale trasporto truppe o per il traino delle artiglierie, 1.179 mezzi ruotati, 9 cannoni anticarro pesanti, 49 cannoni, di cui un gruppo di 18 semoventi, e 1.091 mitragliatrici. Dopo che alle 19.00 dell’8 settembre il maresciallo Pietro Badoglio, Capo del Governo italiano, aveva letto alla radio l’accettazione dell’armistizio, la 3a Panzer Grenadieren iniziò il movimento verso Roma nella notte tra l’8 il 9, suddivisa in tre gruppi da combattimento (Kampfgruppe), che avanzarono speditamente lungo la consolare Cassia, e per la via Claudia, dall’altra parte del Lago di Bracciano. Raggiunto senza contrasto Viterbo, la divisione si suddivise. Percorrendo la Cassia fino alla località di Monterosi, il gruppo Busing, con i carri del 103° battaglione corazzato, si scontrò con le unità dell’Ariete, che nel combattimento impegnò un gruppo autotrasportato di cavalleggeri del Reggimento Lucca, rinforzato da un gruppo di artiglieria e da uno squadrone di cavalleria blindata. Occorre dire che l’ Ariete disponeva di un complesso di 220 mezzi corazzati, tra carri armati M. 15 (cinquanta) e mezzi di artiglieria semovente con cannoni da 75 e da 105 m/m (anch’essi su scafo “M”), che solo in minima parte furono impegnati nei combattimenti. Ritornando ai movimenti tedeschi, il gruppo “Grosser”, percorrendo la via Claudia, sul fianco occidentale del Lago di Bracciano, investi i paesi di Oriolo e Manziana e, dopo essersi impegnata con elementi del reggimento Lucca e altre unità dell’Ariete dalla composizione analoga a quella impiegata a Monterosi, nella tarda serata raggiunse Bracciano, conquistandolo. Nel contempo elementi del gruppo Busing, manovrando dall’estremità orientale del Lago di Bracciano, arrivavano a Cesano, per poi dirigere verso la Storta, dove si trovavano le avanguardie italiane della divisione motorizzata Piave, raggiunte nel pomeriggio da quelle dell’Ariete, che si era ritirata gradualmente da Monterosi. Il terzo gruppo della 3a Panzer Grenadieren, denominato “Borchart”, aveva diretto verso la costa laziale, raggiungendo speditamente Civitavecchia. Nel Diario di Guerra (KTB) della 3a Panzer Grenadieren e scritto che a Manziana e a Monterosi “la difesa italiana, risultò molto abile, capace di attacchi di sorpresa, ben mimetizzata, con l’impiego di carri armati isolati. Nei pressi di Bracciano forte resistenza del nemico, il paese viene preso verso sera. Localmente subite perdite sensibili: danneggiati 3 cannoni d’assalto e 2 carri armati, distrutti un cannone anticarro pesante, un obice campale pesante ed un cannone pesante della fanteria”. Occorre sottolineare che dopo aver percorso e conquistato mezzo Lazio in meno di mezza giornata di combattimento, le lievissime perdite di armi e di mezzi subite dalla 3a Panzer Grenadieren erano considerate nel suo diario di guerra addirittura “sensibili”! La sera del 9 Settembre il Comando dell’ XI Fliegerkorps ordinò al Comando della 3a Panzer Grenadieren di costituire un altro gruppo tattico, con lo scopo di raggiungere Ostia e Pratica di Mare per stabilire un contatto con la 2a divisione paracaduti. Questa grande unità della Luftwaffe stava combattendo alla Laurentina, alla Magliana e a Porta San Paolo, senza disporre di mezzi corazzati, dal momento che i suoi unici undici semoventi da 105 m/m Marder erano stati assegnati alla difesa dei Comandi Superiori tedeschi, a Frascati. Fu costituito il Kampfgruppe “Mollenhauer” che, composto dal 103° battaglione esplorante, dalla 2a e 3a compagnia del 103° battaglione carri, dal 2° battaglione del 29° reggimento Panzer Grenadieren, e da una compagnia del Genio, alle 06.30 del 10 settembre, dopo poche ore di marcia senza contrasto da parte delle due divisioni italiane che difendevano quella zona a sud-ovest di Roma, stabilì il contatto a Fiumicino, per poi passare alle dipendenze del 14° Corpo Corazzato dell’Esercito (Panzerkorp), e dando ai paracadutisti il supporto di mezzi corazzati di cui fino a quel momento non avevano potuto disporre. Ma prima che i carri potessero essere impiegati nell’avanzata verso Roma, in appoggio alla 2a Divisione che aveva superato, aggirandole, le difese italiane di Porta San Paolo penetrando dalla Passeggiata Archeologica fino al Circo Massimo, alle 16.40 arrivò ai reparti la notizia del “cessate il fuoco”. Nel frattempo gli altri tre gruppi da combattimento avevano proseguito i loro movimenti. Il Borchart continuò ad impegnarsi nella zona di Civitavecchia, il Busing dirigeva verso il bivio della Storta, e il Grosser, da Osteria Nuova, che si trovava anch’esso a pochi chilometri dalla Storta, puntava verso la statale Aurelia, fra Palo e Roma. L’avanzata si svolse senza incontrare eccessive resistenze perché i reparti corazzati dell’Ariete, che fin dal giorno 9 si erano ritirati nella piana di Tivoli, invece di continuare a combattere – impegnando la massa dei semoventi che in gran parte erano stati tenuti praticamente in riserva – nella rinuncia a difendere Roma avevano ricevuto il “geniale” ordine di schierarsi “fronte ad est” all’imbocco della valle dell’Aniene, ossia nella zona orientale della periferia della Capitale.


CONCLUSIONI. In definitiva, le divisioni italiane del corpo motocorazzato, abbandonate alla loro sorte dal generale Carboni che si rifugiò nel momento più delicato della crisi nella casa dell’amante, l’attrice Mariella Lotti, si disgregarono sotto la pressione convergente dei paracadutisti appiedati della 2a Divisione e dei mezzi blindo-corazzati della 3a Panzer Grenadieren, la cui avanzata, nello spazio di poche ore verso Roma, era risultata incontenibile. A sud della Capitale la Divisione di fanteria Granatieri di Sardegna si oppose ai tedeschi in una tenace opera di contenimento, combattendo contro gli indomiti paracadutisti della 2a Divisione, armati con pochi cannoni anticarro da 75 e a carica cava trainati da mezzi cingolati. Scarsamente sostenuti sui fianchi, e non riuscendo a difendere il deposito di Mezzocamino dove si trovavano 16.000 litri di benzina a disposizione dello Stato Maggiore dell’Esercito caduti in mano ai tedeschi, i granatiere dovettero cedere terreno anche nella zona della Magliana e dell’E.U.R, e poi a Porta San Paolo e alla Passeggiata Archeologica, dove il Reggimento di cavalleria “Lancieri di Montebello” e il 4° Reggimento carristi ebbero quasi tutti i loro carri armati distrutti dagli anticarro germanici, come è confermato in modo visivo dalle numerose e inequivocabili fotografie scattate all’epoca. Con il concentramento del Corpo d’Armata Motocorazzato a Tivoli, ordinato dal generale Carboni alle 06.00 del 9 settembre, si volle forse raggiungere due scopi: quello di proteggere la strada Tiburtina, che congiunge Roma a Pescara, coprendo con ciò la fuga del Re e del suo patetico seguito verso la città rivierasca abruzzese; e di evitare – quando ormai con l’allontanamento del Sovrano, del Governo e dei maggiori Capi militari non vi era più scopo di resistere alla reazione tedesca – che la capitale divenisse un campo di battaglia, con la distruzione di monumenti di valore inestimabile e di istituzioni religiose che dipendevano dal Vaticano. Tuttavia, quando si affronta, consapevolmente, una guerra, i lutti e le distruzioni devono sempre essere messe sul conto. Non vedo perché Roma, pur con i suoi duemila anni di storia, fosse speciale rispetto alle altre città artistiche europee, che restarono soggette a completa distruzione. La cessazione dei combattimenti nell’area di Roma - avvenuta a seguito degli accordi raggiunti il 10 settembre tra l’O.B.S. e i rappresentanti del Comando delle unità italiane adibite alla difesa della capitale - comportò la consegna ai tedeschi di tutto il materiale militare dell’Esercito e dell’Aeronautica nell’Italia centrale, e quindi anche di tutti gli aerei rimasti a terra nei campi di volo. Questo fatto concesse ai tedeschi di poter disporre di notevoli scorte di armi, approvvigionamenti e carburanti, che poterono essere rapidamente impiegati per fronteggiare l’offensiva degli anglo- americani sul fronte di Salerno, ove per gli Alleati si verificò un periodo di crisi che fu superato soltanto alla fine del mese, quando le truppe germaniche cominciarono a ritirarsi per poi attestarsi dapprima sul Volturno e poi nella formidabile cerniera del fronte di Cassino. La loro ritirata non fu disturbata se non dalle avanguardie degli Alleati che cercavano in tutti i modi di prendere contatto, e non ebbero nessun influenza le cosiddette quattro giornate di Napoli, un altro mito che andrebbe revisionato. Pensiamo che le cifre sulle forze in campo, che abbiamo elencato, possano far comprende quanto era grande la disparità di forze tra tedeschi e italiani. Questi ultimi, se avessero combattuto con convinzione e senza incertezze, contando su informazioni precise e non sopravvalutate sulle reali condizioni delle forze tedesche, avrebbero potuto facilmente difendere Roma, il suo Re e il suo Governo, fino all’arrivo degli Alleati, anche senza poter contare sul sostegno immediato dell’82a Divisione Aviotrasportata statunitense. Ma questo gli italiani non l’avevano compreso, e quando nel corso della giornata del 9 invitarono gli Alleati ad inviare i rinforzi che il giorno avanti avevano praticamente rifiutato, il Comando del generale Eisenhower non si trovò nelle condizioni di potervi aderire, a causa del grave stato di crisi che si era verificato, per la resistenza tedesca, sulle spiagge di Salerno. In conclusione, da parte italiana, invece di provvedere subito a prepararsi con le forze disponibili ad attaccare per primi i tedeschi, come si aspettavano gli Alleati subito dopo la dichiarazione dell’armistizio trasmessa alla radio da Badoglio, a Roma si preoccuparono di preparare la fuga del Re, che nelle mani dei tedeschi “non voleva cadere”, come si espresse con il Capo del Comando Supremo, generale Ambrosio, il Duca d’Acquarone, ministro della Real Casa. In tal modo si continuò a tenere i remi in barca, perché affrontare per primi i tedeschi includeva terrore, per quello che sarebbe poi successo nel caso che gli Alleati non fossero arrivati a in tempo in soccorso della Capitale. Questo timore naturalmente agli anglo-americani non fu confidato nel corso degli accordi di carattere militare intervenuti dopo la firma dell’armistizio, e gli Alleati, che invece si aspettavano di essere aiutati dagli italiani al momento dello sbarco a Salerno, restarono fortemente delusi, perché i tedeschi erano sulle spiagge con i loro carri della 16a “Panzer Division”, dopo aver “disarmato” le forze del 19° Corpo d’Armata italiano che aveva il compito di tenere le posizioni. Agendo con la proverbiale tempestività ed efficienza, i soldati tedeschi erano entrati nei locali del Comandante della 222^ Divisione Costiera, generale don Ferrante Gonzaga, uccidendolo mentre tentava di reagire estraendo la pistola dalla fondina. Decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare nel corso della prima guerra mondiale, Gonzaga, discendente da una nobile e famosa famiglia italiana, per il suo valoroso comportamento, pagato con la vita, ricevette un’altra meritatissima Medaglia d’Oro alla Memoria. E’ uno di coloro, assieme al capitano di fregata conte Carlo Fecia di Cossato., la cui memoria andrebbe sempre ricordata nel descrivere i tragici avvenimenti dell’8 settembre.

Francesco Mattesini

30 Settembre 2010

Francesco Mattesini, "La Marina e l'8 Settembre", I Tomo, "Le ultime operazioni offensive della Regia Marina e il dramma della Forza Navale da Battaglia", Roma, 2002.